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Il treno per Termini

Settembre 1953, ero un veterano degli studenti viaggiatori. Tra i nuovi compagni di viaggio notai subito un ragazzo biondo, altezza sul metro e 70, fisico asciutto, capelli corti alla mascagna, un viso dai lineamenti regolari e la pelle candida, occhi azzurri.

di Antonio Carollo - giovedì 5 giugno 2008 - 4923 letture

Ogni mattina prendevamo il treno alla stazione per raggiungere le scuole a Termini Imerese. A Trabia c’erano soltanto le Elementari. Non avevano neanche l’onore di un proprio edificio e di un direttore didattico. Infatti non vedemmo mai un super maestro comandare i nostri maestri, anzi non sapevamo neanche che esistesse una simile figura nella scuola. Avevamo paura solo dei nostri insegnanti, che, di certo, non scherzavano quanto a bacchettate e a colpi di sbarre di sedie sulla pianta delle mani. Il nostro invisibile direttore stava a Termini (l’abbiamo saputo dopo), in un grande palazzo zeppo di aule e di uffici, circondato dalla rispettosa considerazione di insegnanti e bidelli e dalla soggezione dei poveri alunni del posto. Per me e i miei compagni, Franco Invidiata, Tano Paterniti, Fifì Lo Bue, Ignazio Palmisano, Franco Farruggia, Nino Di Vittorio, Totò Di Vittorio (Sacch’ivastuna), Ciccio Battaglia, Dino Battaglia, Felice Bevilacqua ed altri, la scuola era una grande stanza a pianterreno nel palazzo dei Gattuccio, sullo ’Stratuni’, quasi all’inizio della ’Favara’. I nostri insegnanti erano, per prima, la maestra Cutino, seria in viso, severa e dominatrice, poi il maestro Gattuccio, burbero e picchiatore, e ultimo un maestro, di corporatura fine, statura media, vestito sempre di tutto punto, in giacca, cravatta e cappello, più blando degli altri, ma si faceva rispettare. All’orario d’entrata i nostri occhi speranzosi erano rivolti alla curva della Matrice per vedere se spuntava il maestro con la sua bicicletta, proveniente da Termini. Capitava qualche volta che non spuntasse: ore 08,30, 08,45, 09,00 (scandivamo il tempo mentalmente: nessuno di noi possedeva un orologio). Felicità! Oggi vacanza! Era tempo di guerra o giù di lì: non doveva essere facile trovare un supplente. Alle scuole superiori di Termini le cose cambiarono radicalmente. Per arrivarci bisognava fare un vero e proprio viaggio. Fagotto dei libri allacciati con un elastico di gomma, ultime raccomandazioni e bacio della mamma in fronte, all’attaccatura dei capelli, e via di corsa alla stazione. Al mio primo anno di ginnasio la mattina eravamo pochini sulla banchina a chiacchierare e a scherzare in attesa del treno di Palermo, che s’annunciava con un fischio e una nuvola di fumo uscendo dalla galleria nei pressi del passaggio a livello, dopo essere stato segnalato sul percorso San Nicola-Trabia da un lungo trillare del campanello elettrico. Due minuti e l’ansito possente della locomotiva e lo sferragliare dei vagoni si arrestavano sul secondo binario. Di solito uno dei macchinisti, col suo berretto a tesa anteriore lunga, sudicio di fuliggine, col viso nero come il carbone, rimaneva ad osservare la scena dei viaggiatori che si accalcavano per salire sul treno. L’altro cavava palate di carbone dal vagone di scorta e le buttava dentro la caldaia. Il capostazione col cappello rosso , il fischietto e una specie di trombetta, usciva dalla cabina di comando e si fermava a metà convoglio per vigilare sui partenti, incitare a fare presto e, al segnale del capotreno, soffiare nel fatidico fischietto. Il macchinista immediatamente iniziava ad azionare la leva di avvio e di accelerazione della locomotiva. Il treno, sbuffando, sprigionando candido vapore e rumorose emissioni di denso fumo, cominciava a muoversi e a prendere velocità. Dapprincipio, fine anno 1947, non è che era semplice per me salire sul pavimento del carro bestiame. A metà altezza c’era una specie di appoggio di ferro, molto corto, senza alcun appiglio per sollevarsi, eccetto che una longherina di ferro a traverso la porta aperta, un po’ alta per agganciarla. Mi aiutava a salire qualche pio compagno di viaggio dandomi la mano. L’anno successivo comparve qualche vetture di terza classe con sedili e schienali di duro legno ma ci sembrava di viaggiare nei lussuosi direttissimi che vedevamo a volte al cinema. Alla stazione di Termini ci aspettava la traversata della città bassa e la interminabile scalinata che portava a Termini alta. Un bel tragitto che noi ragazzi facevamo in leggerezza ma che toglieva il fiato a più di uno degli impiegati pendolari. Settembre 1953, ero un veterano degli studenti viaggiatori. Tra i nuovi compagni di viaggio notai subito un ragazzo biondo, altezza sul metro e 70, fisico asciutto, capelli corti alla mascagna, un viso dai lineamenti regolari e la pelle candida, occhi azzurri. Si chiamava Pino Castello. Era accompagnato dalla sorella Maria, una brunetta, dal viso fresco, sopracciglia scuri e delicati, un nasino da madonna, capelli castani corti, camicetta chiara, luminosa, giacchetta e gonna pochissimo sotto i ginocchi, che lasciava libere due gambe perfettamente modellate. Sapemmo che erano di Geraci. La loro famiglia faceva parte della colonia di geracesi che fin dagli anni Venti avevano acquistato centinaia di ettari di boschi e di pascoli o’ Purtuni, sopra le mura del costone di montagna una volta di proprietà del Marchese Artale. Il ragazzo, dopo aver frequentato il Ginnasio in un istituto religioso, si era iscritto alla quarta ginnasiale del “Liceo-Ginnasio G.Ugdulena” di Termini. Fratello e sorella familiarizzarono subito con l’ambiente degli studenti. Pino divenne amico inseparabile di Nicola Lo Bue, un ragazzo dal carattere allegro, arguto, garbatamente ironico, estroverso e comunicativo. I due, insieme a Totino Pirrone e qualche altro, che non ricordo bene (viaggiava per Termini anche il futuro più volte sindaco Totò Piazza), formavano un manipolo a sé in quanto avevano due-tre anni di età meno di me e di Fifì Lo Bue, Franco Invidiata, Mimmo Pandolfo. Maria Castello s’integrò facilmente nel gruppetto di studentesse che viaggiavano con noi per Termini. Pino Castello aveva un carattere dolce, compagnone, portato alla condivisione; ascoltava le tirate semiserie di Nicola facendosi tante risate e, spesso, rincarando la dose nel sottolineare gli aspetti comici e paradossali dei racconti dell’amico. ’Cumpari’ o ’cumpà’ erano gli appellativi confidenziali che si scambiavano continuamente assieme ad espressioni colorite, forti, volutamente volgari e popolaresche ma che tra di loro erano solo segni di complicità e di affettuosità. Strette di mano esagerate, botte di “Cumpà, figghiu di buttana ca un si autru”, arguzie e scoppiettii di frasi ad effetto, contrassegnavano il loro rapporto specie nei momenti di maggior spirito e di surreale creatività verbale. Sapevano fare anche discorsi seri, s’intende; anzi a scuola e fuori si comportavano da ragazzi responsabili; in profitto superavano abbondantemente la sufficienza.


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