Il sonno dello Stato genera mafie: intervista con il prof. Alberto Vannucci
Le mafie evolvono, come ogni organizzazione, ma la loro persistenza, il loro marchio riconoscibile deriva dal fatto che dobbiamo banalmente riconoscere che le mafie offrono servizi
Si chiacchiera insieme sabato 26 luglio, al mattino, in streaming. Il prof. Alberto Vannucci, ordinario di Scienza Politica all’Università di Pisa, studioso, da anni, dei fenomeni mafiosi e, in maniera ancora più approfondita, della corruzione politico-amministrativa, si presta a un’intervista serrata, una riflessione tanto sulla questione mafiosa nel nostro Paese quanto su come tale questione intreccia il tema della corruzione.
Nella prima parte della chiacchierata, il mio interlocutore analizza, con grande lucidità e pregnanza di contenuti, il problema mafie, sia nella sua genesi sia nella sua configurazione attuale, mettendo in evidenza, nel primo caso, l’affiorare delle organizzazioni criminali tra le manchevolezze dello Stato e la ricerca di una relazione con gli apparati politico-amministrativi. Il prof. Vannucci sottolinea, in sostanza, come sia fruttuoso per i clan uno Stato incapace di fornire una serie di servizi essenziali o di garantire e tutelare dei diritti fondamentali. Là dove lo Stato latita, risulta manchevole sul piano dell’offerta di protezione dei cittadini, della difesa della loro proprietà – non è solo aneddotica, precisa Vannucci, la storia di chi, vistosi rubare l’auto e recatosi dai carabinieri, si vede indirizzato da questi ultimi dal mafioso locale per recuperarla; è scritta, nero su bianco, sugli atti giudiziari –, della salvaguardia di alcuni diritti basilari, ad esempio il lavoro, è ovvio che si ingenera «una legittimazione diffusa, si rinforza l’autorità e il prestigio di quei soggetti [i boss mafiosi]».
Ma non è solo questo. Lo sviluppo, il consolidarsi delle consorterie criminali molto deve anche alle storture create dalle politiche economiche statuali, a partire da quelle politiche repressive che aprono spazi ai clan per imporsi in quella fetta di mercato illecito con tutta la loro forza; traendo da ciò profitto e consolidando, in tal modo, ulteriormente il proprio potere. Abbiamo imparato poco dal proibizionismo statunitense, osserva il mio ospite, grazie al quale la mafia locale poté arricchirsi davanti al tentativo del governo centrale di vietare il consumo dell’alcol, strozzando un costume sociale diffuso. Né va omesso un terzo fattore di consolidamento del fenomeno mafioso, ossia la propensione del ceto dirigente, politico ed economico, italiano a essere coinvolto in attività illegali – vedi Tangentopoli – o quello delle élite professionali ed economiche in attività borderline. In questa cornice di illegalità diffusa e aggrovigliata, le mafie possono giocare un ruolo importante, come più avanti l’accademico pisano preciserà a proposito delle pratiche corruttive.
Detto ciò, non stupisce affatto che le organizzazioni criminali fioriscano, pur in mezzo ai cambiamenti, da quasi due secoli. La loro capacità di adattamento, alla quale pure si riferisce il prof. Vannucci con una serie interessante di esempi, si associa alle lacune tutt’altro che scomparse dello Stato, alle sue forti criticità, e tutto ciò trova un ulteriore fattore di sviluppo e di rafforzamento dei clan nella cornice neoliberista della società occidentale. Una cornice che, privilegiando gli attori privati a scapito della dimensione pubblica, fortifica la componente criminale e mafiosa: «dall’indebolimento complessivo dell’organizzazione pubblica che deriva, appunto, dall’applicazione del dogma neoliberista, le consorterie criminali non possono che trarre grande vantaggio».
Dunque, che fare, professore? Quali strumenti potrebbero consentire di arginare il fenomeno mafioso? La risposta di Vannucci e composita e rivisita, in chiave costruttiva, quanto ha rilevato in termini di criticità politica, amministrativa, finanziaria, sociale, economica nel nostro Paese: uno Stato più presente, in grado di ridurre le diseguaglianze sociali, di operare nella direzione di un ripristino dei diritti collettivi – sociali ed economici –, in grado di avviare politiche anticorruzione efficaci e, ancora, di irrobustire la funzione educativa pubblica, anziché operare tagli alla cultura, all’istruzione, alla ricerca, orientandoli verso la costruzione di un ponte che, c’è da giurarci, arricchirà ulteriormente le tasche dei mafiosi; senza contare altri danni alla collettività.
Un quadro, dunque, quello prospettato dal mio interlocutore che decompone e focalizza le singole responsabilità alla base del persistere del fenomeno mafioso: lo Stato, il ceto professionale ed economico, la stessa informazione – sempre meno orientata all’indagine, allo scavo tra le pieghe della cronaca – e, ancora, il martello pneumatico neoliberista o la potenza degli algoritmi dei social che propongono, ai più giovani, dei modelli vincenti non di rado affioranti dal mondo mafioso: giovani rampolli che mostrano mazzette di soldi, auto di lusso, vasche idromassaggio e champagne.
Al discorso sulle mafie, si associa, poi, quello relativo alla corruzione o, meglio, al momento in cui la così diffusa pratica corruttiva incrocia il cammino delle consorterie criminali. Ciò avviene in due modi, spiega il prof. Vannucci: da un lato, le mafie corrompono, comprano appalti o silenzi o benevolenza da parte di figure preposte al loro contrasto; in secondo luogo, i mafiosi, in virtù della forza intimidatoria e della violenza capace di esprimere, partecipano ai tavoli della corruzione in qualità di garanti del corretto iter della transizione illecita. In questi casi, la corruzione esiste già, non è determinata dall’agire mafioso; i clan si pongono come arbitri del corretto andamento della pratica corruttiva, contribuendo, in tal modo, a rinforzarla. È in tale contesto che il mio interlocutore riporta le parole di un imprenditore del Nord, per testimoniare la bontà della presenza mafiosa nel mercato della corruzione. L’uomo, infatti, osservava come, in Sicilia, il sistema degli appalti funzionasse come nel resto d’Italia; «l’unica differenza – aggiungeva – è che, in Sicilia, c’è maggior disciplina, perché ogni tanto ci scappa il morto e la disciplina diventa un’inevitabile conseguenza».
C’è spazio ancora per una riflessione su una certa disaffezione del mondo accademico per le tematiche relative alle mafie e alla corruzione. Il prof. Vannucci spiega come tale disaffezione, nel corso degli ultimi anni, si cambiata e come l’università abbia ampliato il numero di docenti dediti agli studi su tali fenomeni così come le iniziative dei singoli dipartimenti o di gruppi di studiosi volte a indagare, con criteri scientifici e raffinati, una vicenda criminale che pare saldamente ancorata alla storia di questo Paese. Merita, comunque, leggere – nell’intervista integrale qui allegata – la risposta del mio interlocutore sulle ragioni che, a suo giudizio, hanno tenuto lontano il mondo universitario dai mondi criminali – mafie e corruzione – ai quali lui ha dedicato, e sta dedicando, il suo impegno intellettuale.
Si esce un po’ pesti, per così dire, da un colloquio così intenso e lucido, amaramente lucido. Ma il prof. Vannucci vanta delle qualità che rendono la conversazione affascinante: competenza, eloquio pregnante, coraggio nel porgere le sue considerazioni e una dose di ironia raffinata che alleggerisce il portato del discorso.
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