Il sogno (1821), di G. Leopardi
Era il mattino, e tra le chiuse imposte
per lo balcone insinuava il sole
nella mia cieca stanza il primo albore;
quando in sul tempo che piú leve il sonno
e piú soave le pupille adombra,
stettemi allato e riguardommi in viso
il simulacro di colei che amore
prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto.
Morta non mi parea, ma trista, e quale
degl’infelici è la sembianza. Al capo
appressommi la destra, e sospirando,
vivi, mi disse, e ricordanza alcuna
serbi di noi? Donde, risposi, e come
vieni, o cara beltà? Quanto, deh quanto
di te mi dolse e duol: né mi credea
che risaper tu lo dovessi; e questo
facea piú sconsolato il dolor mio.
Ma sei tu per lasciarmi un’altra volta?
Io n’ho gran tema. Or dimmi, e che t’avvenne?
Sei tu quella di prima? E che ti strugge
internamente? Obblivione ingombra
i tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno;
disse colei. Son morta, e mi vedesti
l’ultima volta, or son piú lune. Immensa
doglia m’oppresse a queste voci il petto.
Ella seguí: nel fior degli anni estinta,
quand’è il viver piú dolce, e pria che il core
certo si renda com’è tutta indarno
l’umana speme. A desiar colei
che d’ogni affanno il tragge, ha poco andare
l’egro mortal; ma sconsolata arriva
la morte ai giovanetti, e duro è il fato
di quella speme che sotterra è spenta.
Vano è saper quel che natura asconde
agl’inesperti della vita, e molto
all’immatura sapienza il cieco
dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara,
taci, taci, diss’io, che tu mi schianti
con questi detti il cor. Dunque sei morta,
o mia diletta, ed io son vivo, ed era
pur fisso in ciel che quei sudori estremi
cotesta cara e tenerella salma
provar dovesse, a me restasse intera
questa misera spoglia? Oh quante volte
in ripensar che piú non vivi, e mai
non avverrà ch’io ti ritrovi al mondo,
creder nol posso. Ahi ahi, che cosa è questa
che morte s’addimanda? Oggi per prova
intenderlo potessi, e il capo inerme
agli atroci del fato odii sottrarre.
Giovane son, ma si consuma e perde
la giovanezza mia come vecchiezza;
la qual pavento, e pur m’è lunge assai.
Ma poco da vecchiezza si discorda
il fior dell’età mia. Nascemmo al pianto,
disse, ambedue; felicità non rise
al viver nostro; e dilettossi il cielo
de’ nostri affanni. Or se di pianto il ciglio,
soggiunsi, e di pallor velato il viso
per la tua dipartita, e se d’angoscia
porto gravido il cor; dimmi: d’amore
favilla alcuna, o di pietà, giammai
verso il misero amante il cor t’assalse
mentre vivesti? Io disperando allora
e sperando traea le notti e i giorni;
oggi nel vano dubitar si stanca
la mente mia. Che se una volta sola
dolor ti strinse di mia negra vita,
non mel celar, ti prego, e mi soccorra
la rimembranza or che il futuro è tolto
ai nostri giorni. E quella: ti conforta,
o sventurato. Io di pietade avara
non ti fui mentre vissi, ed or non sono,
che fui misera anch’io. Non far querela
di questa infelicissima fanciulla.
Per le sventure nostre, e per l’amore
che mi strugge, esclamai; per lo diletto
nome di giovanezza e la perduta
speme dei nostri dí, concedi, o cara,
che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto
soave e tristo, la porgeva. Or mentre
di baci la ricopro, e d’affannosa
dolcezza palpitando all’anelante
seno la stringo, di sudore il volto
ferveva e il petto, nelle fauci stava
la voce, al guardo traballava il giorno.
Quando colei teneramente affissi
gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro,
disse, che di beltà son fatta ignuda?
E tu d’amore, o sfortunato, indarno
ti scaldi e fremi. Or finalmente addio.
Nostre misere menti e nostre salme
son disgiunte in eterno. A me non vivi
e mai piú non vivrai: già ruppe il fato
la fe che mi giurasti. Allor d’angoscia
gridar volendo, e spasimando, e pregne
di sconsolato pianto le pupille,
dal sonno mi disciolsi. Ella negli occhi
pur mi restava, e nell’incerto raggio
del Sol vederla io mi credeva ancora.
G. Leopardi, Del fingere poetando un sogno (l820)
Se tu devi poetando fingere un sogno, dove tu o altri veda un defonto amato, massime poco dopo la sua morte, fa che il sognante si sforzi di mostrargli il dolore che ha provato per la sua disgrazia. Cosí accade vegliando, che ci tormenta il desiderio di far conoscere all’oggetto amato il nostro dolore; la disperazione di non poterlo; e lo spasimo di non averglielo mostrato abbastanza in vita. Cosí accade sognando, che quell’oggetto ci par vivo bensí, ma come in uno stato violento; e noi lo consideriamo come sventuratissimo, degno dell’ultima compassione, e oppresso da una somma sventura, cioè la morte; ma noi non lo comprendiamo bene allora, perché non sappiamo accordare la sua morte con la sua presenza. Ma gli parliamo piangendo, con dolore, e la sua vista e il suo colloquio c’intenerisce, e impietosisce, come di persona che soffra, e non sappiamo, se non confusamente, che cosa. (3 Dicembre l820) .
(G. Leopardi, Canti, Newton Compton, Roma, l996, pagg. 93-l03, 287)
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