Il romanzo familiare in versi di Ocean Vuong

Il tempo è una madre / di Ocean Vuong; traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan. – Milano: Ugo Guanda Editore, 2023 – 176 pp. - (Poeti della Fenice). - ISBN 978-88-235-2991-5.
In Americana, nella “scheda” dedicata alle Correzioni di Jonathan Franzen (la sezione in cui è inserita ha per titolo “Un nuovo canone?”), Luca Briasco sottolinea «il carattere volutamente “epocale” della scelta di Franzen, che all’apertura del nuovo millennio sembra voler ribadire e canonizzare lo shift dal romanzo-mondo al romanzo familiare già esemplificato […] dal Pulitzer conferito a Pastorale americana di Roth, contro Underworld di DeLillo. Le correzioni non è in fondo molto più della storia di una famiglia disfunzionale e alla deriva».
- Copertina di Il tempo è una madre, di Ocean Vuong
Il tempo è una madre, la raccolta di poesie pubblicata in America nel 2022 da Ocean Vuong (Ho Chi Minh, 1988), non fa altro che adeguarsi al “nuovo” canone del millennio in corso, riproponendone – in versi – lo schema essenziale: l’autore parla della sua famiglia nella quale, come suggerisce il titolo, la figura centrale è la madre; una famiglia che è – ovviamente – “perfettamente” disfunzionale sia per cause endogene che esogene. Che poi il canone sia “nuovo” va da sé che non lo è. Non a caso, Briasco in fondo al suo titolo mette un punto interrogativo. A mo’ d’esempio, limitandosi a pescare dal secolo scorso, tra le opere del Novecento che rientrano nel genere si possono citare I Buddenbrook di Mann, Cent’anni di solitudine di Márquez e, voilà!, Lessico famigliare della Ginzburg. Tra quelle del nuovo millennio, oltre alle già menzionate Correzioni, ci sono Il passeggero di Cormac McCarthy e il recentissimo romanzo di Paul Murray, Il giorno dell’ape. È anche scontato che la maggior parte delle famiglie – di cui si parla nei vari romanzi familiari pubblicati nel corso del tempo – siano in tutto o in parte “disfunzionali”, altrimenti a chi interesserebbero le loro storie? È inutile trincerarsi dietro a facili moralismi: la Schadenfreude è, purtroppo, una costante dell’animo umano. Già Tolstoj aveva solleticato la malsana curiosità del lettore con il celeberrimo incipit di Anna Karenina: «Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo» (trad. di Ossip Felyne). Ma, in fin dei conti, esistono veramente famiglie non disfunzionali? E l’adagio secondo cui «i panni sporchi si lavano in famiglia» non è forse un invito all’omertà?
Ocean Vuong i panni sporchi li lava in pubblico, non ha paura di esporsi. Suoi modelli consapevoli o inconsapevoli sono la parresìa del cinismo e il Tacheles reden di derivazione yiddish: comunque sia, il diritto-dovere di parlare chiaro e con franchezza è per lui una scelta etica. Nel Tempo è una madre – utilizzando come pivot la figura materna – racconta il suo mondo, anzi i suoi mondi: quello in cui vive, l’America, e quello da cui proviene, il Vietnam. Senza però che ciò comporti in alcun modo indifferenza verso l’altro e l’alterità.
Il libro è un memoir e, al contempo, un Bildungsroman in versi, con ambizioni poematiche, in cui l’autore descrive il coming of age e la conseguente edificazione della propria identità a partire dalle vicissitudini familiari e, in particolare, attraverso il rapporto in parte idiosincratico instaurato con la madre deceduta che lo amava profondamente, nonostante gli accessi di rabbia a cui era soggetta e durante i quali infieriva contro di lui. Il figlio, a sua volta, ricambiava e continua ancora a ricambiare il suo amore preservandone la memoria attraverso la scrittura.
La storia di Vuong e del suo piccolo nucleo familiare, in sintesi: la famiglia va via dal Vietnam quando Ocean è ancora un bambino di appena diciotto mesi; la nonna, sfuggita a un matrimonio combinato, si era prostituita ai militari americani; la madre è figlia di uno dei tanti, anonimi, soldati americani a cui la nonna si era venduta; il padre taglia la corda otto mesi dopo che la famiglia si è stabilita ad Hartford, nel Connecticut; Ocean viene allevato dalla madre, dalla nonna e da una zia; la madre, sofferente di stress post-traumatico, originato dalle lacerazioni interiori causatele dalla guerra, esterna il proprio disagio con violenti scoppi d’ira contro il figlio; la genitrice è costretta all’umiliante lavoro di manicurista, senza orari prestabiliti, con una paga da fame che deve per forza di cose cercare di arrotondare, e lo fa impietosendo i clienti e rivolgendosi a loro, di continuo e anche a sproposito, con la parola sorry; l’autore subisce, insieme alla sua famiglia, le discriminazioni correlate al suo statuto di immigrato, a cui vanno aggiunte quelle legate alla sua identità queer e di persona soggetta a dipendenze varie; a scuola, Ocean è bullizzato dai suoi compagni; infine la mamma si ammala e muore di cancro al seno.
Anche se i testi in prosa contenuti nel Tempo è una madre sono solamente due, il libro è da considerarsi a tutti gli effetti un prosimetro, un’opera letteraria cioè che alterna prosa e poesia, palesemente in debito con la Beat Generation a partire dall’utilizzo di alcuni stilemi – come l’uso frequente (cfr. Ginsberg, Corso e Ferlinghetti) dei versi a scalino, della “e commerciale” (&) e delle inarcature e quello estensivo del verso ampio, prosastico, a volte scopertamente antilirico – fino ad arrivare ad alcune tematiche comuni (giusto per fare qualche esempio: il “Kaddish” di Ginsberg, queer anche lui, è dedicato alla madre; in “Driving a cardboard automobile without a license” Ferlinghetti rievoca i propri genitori). E Allen Ginsberg è, in ogni caso, uno dei poeti più amati da Ocean.
Non trascurabile è, poi, la contiguità dell’opera di cui si parla con la Pop Art. Uno dei componimenti più originali della raccolta, “Cronologia Amazon di una ex manicurista”, è un lungo elenco di oggetti – quelli acquistati online dalla madre poco prima di morire – che fungono da correlativi oggettivi e che consentono all’autore di “mappare” sommariamente la vita affettiva e materiale della genitrice. Ciascuna strofa – che descrive, in stile “pop”, un oggetto o una collezione di oggetti (delle vere e proprie “reliquie emotive”) – richiama alla mente le icastiche opere di Claes Oldenburg o di Tom Wesselmann. Anche se, a un certo punto, nel bel mezzo di quello che può sembrare un gelido elenco o un’ecfrasi immaginaria, il poeta si sdilinquisce e intenerisce il lettore rievocando pene e sentimenti reali:
Apr.
Foulard di cotone Chemo-Glem, stampato a fiori
T-shirt «Mamma Guerriera» per la prevenzione del tumore al seno, rosa e bianca
Mag.
Busto rigido per supporto lombare Mueller 255
Giu.
Cartolina di buon compleanno «Figlio mio, saremo sempre insieme», con immagine di Snoopy
Obiter dictum, per Shakespeare, Ocean Vuong uscirebbe sicuramente vincente dal confronto con i maestri della Pop Art, perché la parola – a differenza dell’immagine – penetra nel profondo dell’anima:
[…] agli occhi manca l’anima per nobilitare l’arte,
tracciano quel che vedono, ignari son del cuore.
(William Shakespeare, Sonetto XXIV, trad. di Maria Antonietta Marelli)
La parola, inoltre, ha forza salvifica, è strumento di palingenesi:
Le parole, i profeti
ci dicono, non distruggono
niente che non possano
ricostruire.
(“Leggenda americana”)
Indubbiamente, asse portante della raccolta è la madre, ma c’è posto – in una preziosa nicchia – anche per il Grande Assente, il padre (che ha abbandonato la famiglia). In uno dei componimenti più interessanti e più riusciti dell’opera, “Leggenda americana”, l’autore immagina di provocare intenzionalmente un incidente d’auto per poter finalmente abbracciare e baciare il proprio genitore e, al contempo, evitare che venga praticata l’eutanasia al loro cane. Gli uomini intrecciano così i loro destini con quello dell’animale. Dell’avvenimento viene prontamente informata la madre:
E così stavo in macchina
con il mio vecchio.
[…]
Stavamo andando a uccidere
Susan, il nostro cane. Cioè, dovevamo
portarla dal veterinario
per addormentarla,
[…]
Io & il
mio vecchio, la Ford abbastanza spaziosa
perché non ci toccassimo
mai, & forse l’ho fatto apposta
a prendere il tornante
troppo forte. & il mezzo ha cappottato
[…]
lui mi ha
sbattuto contro &
ci siamo abbracciati
per la prima volta
da decenni.
[…]
Io ho fatto
quello che qualsiasi ragazzo avrebbe fatto
dopo aver ottenuto esattamente
ciò che voleva: ho baciato
mio padre.
[…]
Il cane
è uscito, ha annusato
il mio vecchio, ancora caldo, poi è fuggito
tra gli alberi, verso il suo secondo
futuro.
[…]
Ho trovato
un telefono a gettone nel cuore
della poesia & ho fatto una telefonata
a tuo carico per raccontarti tutto ciò
[…]
Io l’ho fatto per abbracciare
mio padre, per liberare
il mio cane.
Per quanto gli esuli e i profughi si sforzino di rimuovere dalle loro menti le sventure sperimentate in patria, sono inevitabilmente e incessantemente braccati dal loro passato. In “Cara Rosa” (il nome della madre era Hông che, in vietnamita, significa per l’appunto “rosa”) l’autore rievoca le vicissitudini della genitrice nella sua terra d’origine, ma non può fare a meno di confrontarsi anche con il proprio vissuto e con quello della propria famiglia, nella terra di approdo. Se Delmore Schwartz è stato definito il poeta dell’immigrazione atlantica (Delmore Schwartz, il poeta dell’Atlantico), Ocean Vuong può, quanto meno, essere menzionato come “un” poeta del Pacifico. Un poeta che, dopo aver varcato sia fisicamente che mentalmente l’oceano, trasla dalla penisola indocinese al Nuovo Mondo le memorie della genitrice:
ma io so mamma che non puoi
leggere il napalm caduto sulla tua
scuola a sei anni
[…]
da un proiettile io sono nato
perché tu morivi di fame
[…]
hanno sparato
a mio fratello hai detto
[…]
i soldati
si sbellicavano di risate mentre facevano fuoco
su tuo fratello
[…]
hai detto di avermi dato il nome
di un corpo d’acqua1 perché
è la cosa più grande che conoscevi
dopo dio
[…]
hai detto a tuo fratello che avevi fame
e così lui ha rubato un pollo arrosto
e se l’è infilato sotto la camicia
[…]
cara lettrice
è solo tuo figlio che torna a casa
di nuovo dopo la scuola dopo
che i bulli gli hanno ficcato la faccia nel terriccio
[…]
lettrice che
non puoi leggere
né scrivere tu che hai scritto un figlio
[…]
mamma la mia arte questi
cadaveri che stendo
uno accanto all’altro sulla
pagina per dirti
che il nostro indicativo presente
non è arrivato troppo tardi
La poesia di Vuong è un groviglio di corpi. Corpi tra cui sibilano proiettili e scie di napalm. Corpi che soffrono e corpi che amano. Corpi che danzano («vedo il ragazzo che balla con la madre», in “Künstlerroman”) e corpi che cadono (come quello dello zio nella già citata “Cara Rosa”). Corpi che sono inestricabilmente intrecciati alle memorie degli uomini che li abitano o che li hanno abitati. Ma i corpi possono anche trascendere se stessi e il mondo in cui dimorano per andare oltre la mera contingenza. L’autore se lo auspica:
Corpo, portale che non sei altro, sii più di ciò che io attraverserò. (“Nemmeno”)
Il poeta del Pacifico è stato portato in America dalla sua famiglia per avere la possibilità di vivere un’esistenza migliore e anche nella speranza di poter aver accesso al Sogno Americano. Il che implica pregresse tribolazioni
Perché chiunque sa che il dolore giallo, chiuso nelle lettere
americane, si trasmuta in oro
Il nostro dolore che Mida ha toccato. Napalm con un postumo
lucore di arcobaleno
(“Nemmeno”)
La madre è l’origine del tempo, la scaturigine della parola. Colei che plasma la memoria. Se la poesia è figlia di Mnemosine, il poeta adempie al suo dovere rendendo fecondo il lascito materno nel momento in cui lo riesuma dalla tomba, dov’è rinchiuso il corpo della genitrice, lo introietta e lo tramanda ai posteri. Ma la memoria è labile come la neve, entità che appare a più riprese nella raccolta (come, del resto, accadeva in quella precedente dal titolo Cielo notturno con fori d’uscita). È compito del poeta tenerla viva ed evitare che si dissolva nel nulla, magari anche attraverso una semplice implorazione o una preghiera in versi:
Ciò che possederemmo per sempre è qualcosa che abbiamo perso
Nella neve, la silhouette secca di mia madre
Promettimi che non svanirai di nuovo, ho detto
[…]
Io mi sdraio sulla sua silhouette, per mantenerla vera
Insieme abbiamo fatto un angelo
(“Teoria della neve”)
L’eulogia della madre aveva comunque già raggiunto il suo apogeo nella poesia “Un giorno amerò Ocean Vuong”, contenuta nel citato Cielo notturno con fori d’uscita (trad. di Damiano Abeni e Moira Egan):
La parte più bella
del tuo corpo è ovunque
si proietta l’ombra di tua madre.
L’autore e protagonista, già nel titolo di un suo componimento, ironicamente si definisce “Bello basso e perdente”. E prosegue sostenendo di essere imbattibile a perdere dopo aver però precisato di essere «un perdente su una serie vincente». Si è fatto carico non solo delle proprie sofferenze ma anche di quelle altrui, nello specifico delle dolorose memorie materne e familiari («Dentro la mia testa la guerra è dappertutto»). E dietro l’angolo sono in agguato i sensi di colpa: «Io sono / un figlio passabile» (“Il buon giorno si vede dal mattino”). Eppure l’afflato poetico consente alla sua arte di produrre un esito soteriologico. La sconfitta implica una presa di coscienza («Nessuno è libero se non apre a forza qualcosa», ancora da “Bello basso e perdente”) e il suo talento la tramuta in conoscenza:
[…] ho pensato
la caduta mi avrebbe
ucciso
.......ma invece mi ha solo
reso reale
(“Fare il bagno nudi”)
Tuttavia il poeta non è ripiegato solo su se stesso o sul dolore della madre (che ha fatto proprio). La sua poesia trasuda empatia. La sua visione è porosa e destinata a espandersi verso altri tempi e altri luoghi. Sa che la propria famiglia è anche l’intera razza umana. Non dimentica gli ultimi, i perseguitati e i diseredati del pianeta. La sua arte è frutto di un’estasi spazio-temporale, di un continuo viavai tra il Vietnam e l’America, tra l’io e il mondo, tra il passato e il presente (un ineffabile presente che si protende verso un imprevedibile futuro). E il romanzo di formazione dell’artista deve necessariamente esperire il dolore universale, non può non riconoscerlo:
I carri armati arrancano lasciando l’Iraq, le donne si allontanano
dai loro morti, con le bocche coperte da stracci
(“Künstlerroman”)
[…] leggevo, rileggevo, la ricetta scribacchiata che mi ha dato la nonna dell’uomo, lei che, fuggendo da Stalin, aveva preso un biglietto da Vilnius a Dresda senza pensare che si sarebbe fermata, andò proprio così, ad Auschwitz (era, dopotutto, una città), dove a lei e al fratello venne chiesto di smontare da soldati che sussurravano: muovetevi, muovetevi, come ragazzi che di notte conducono cavalli su campi di frumento. Come era passata oltre quei fitti cappotti, come alcuni di loro erano stati condotti via lungo schiere di filo spinato. […] Come facciamo a sapere, con una casa piena di pane, che è la fame, non la gente, che sopravvive?
(“Niente”)
[…] il teschio tra le mani del becchino spesso è quello dietro la tua faccia.
(“Il punctum”, a proposito dei linciaggi perpetrati, dal 1830 al 1935, in California, contro messicani, cinesi e nativi americani)
(La storia è una magistra vitae incompresa, è condannata a ripetersi perché gli uomini commettono invariabilmente sempre gli stessi errori.)
La poetica di Vuong non si muove certo nei territori del “realismo isterico” di David Foster Wallace. Piuttosto in quelli del “realismo viscerale” alla Bolaño. O, meglio ancora, nell’ambito di quello che potrebbe definirsi “realismo etico” dove, grazie a Dio, l’aggettivo “etico” non è congiunto all’ingombrante fardello del pedagogismo.
La poesia di Vuong non è onanistica. L’emotività che esprime non è autoreferenziale ma comunicativa. Ocean è un poeta che adopera il metodo dell’introspezione e l’analisi dei rapporti familiari come punti di partenza per i passi successivi: aprire finestre sul mondo, aprirsi al mondo, mescolare il proprio punto di vista a quello altrui, non voltarsi mai dall’altra parte. Dà voce alla propria sofferenza non solo per elaborare il lutto della madre e del padre (la cui assenza è equiparabile, in un certo senso, alla morte) ma anche per illuminarla facendone oggetto di condivisione con quella altrui; e tramutandola, infine, in uno strumento esperienziale e sapienziale.
[…] & ricorda,
la solitudine è comunque tempo trascorso
insieme al mondo.
(“Un giorno amerò Ocean Vuong”)
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