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Il "romanzo esegetico" di Giuseppe Mazzanti

di Matteo Veronesi - mercoledì 17 gennaio 2007 - 5400 letture

Riporto - pensando di dare così il mio contributo alla discussione al riguardo che si è già svolta sul sito - il mio articolo su "Eresia e delitto" di Giuseppe Mazzanti (Bologna, Edizioni Pendragon), già apparso sulla rivista cartacea "Edison Square" (dicembre 2006).

Negli ultimi decenni, il «componimento misto di storia e d’invenzione» ha conosciuto (dal Nome della rosa di Eco alla Chimera di Vassalli, per non citare che due esempi fra i più eclatanti) vasta fortuna. “Romanzo esegetico”, come potrebbe essere definita, la prima fatica narrativa del giovane e brillante medievista Giuseppe Mazzanti testimonia ulteriormente della tutt’altro che esaurita vitalità di questo genere.

Ma, se in certe visioni, fra moderno e postmoderno (dalla Morante della Storia al Garcìa Màrquez di Cent’anni di solitudine al citato Vassalli), la storia finisce, in sostanza, per essere travolta dalla deriva dell’iniquità, dell’irrazionale, del nulla, dell’insensato, sopraffatta dalla tragicità più irredimibile e cieca, scoordinata e disgregata da un «ingranaggio del tempo» alterato e guasto, in Mazzanti la ricerca di un misterioso eretico, condotta da Irnerio e da Bernardo di Clairvaux, è invece tutta animata dalla convinzione, espressa in epigrafe attraverso una citazione liviana, che la verità possa sì «soffrire», ma «non muoia mai».

Il finale, non per questo meno ingegnoso e avvincente, è del tutto coerente con le premesse e lo sviluppo della vicenda; e pienamente fondati sul piano storico sono i tratti della cultura medievale evocati, primo fra tutti il mistico «silenzio dell’anima», il claustrale «porto di silenzio» contrapposti all’urbana «melodia del rumore», o la magia dei manoscritti e dei codici pazientemente vergati e amorevolmente miniati, che preservano l’essenza e il tesoro del sapere dagli orrori e dalle assurdità del tempo immanente. Proprio dall’oscura didascalia greca di un codice i due singolari investigatori trarranno l’indizio fondamentale per l’identificazione del misterioso eretico seminatore di blasfemia, quasi a conferma del fatto che, come intuiva nel Medioevo Alano di Lilla e come sembra ripetere, nel Novecento, il Borges della Biblioteca di Babele e dell’Aleph, il mondo e la realtà sono un libro da leggere, una immensa pagina segnata «dal dito di Dio».

Con questo meticoloso rigore, Mazzanti si mantiene immune dalla ciarlataneria, dall’impostura, dalla disonestà intellettuale e dal facile sensazionalismo che hanno contraddistinto, proprio nell’àmbito del romanzo “storico”, o sedicente tale, alcuni recenti fenomeni editoriali. L’eresia, sembra dire l’autore, esiste e si pone solo per essere sconfessata e vinta attraverso lo sguardo solidale di uno storico-romanziere che abolisce o attenua, nel suo operare, i confini fra lo scienziato e il creatore, fra l’accertamento e l’immaginazione; il che poi non toglie che anche l’arbitrio estroso e giocoso dell’invenzione letteraria incontri un confine ed un limite nella probità intellettuale e nella conseguente salvaguardia di una verosimiglianza, di una coerenza, di una necessaria logica interna e contestuale.

D’altro canto, era proprio un medievista come Huizinga ad affermare che la “sensibilità storica” penetra e restituisce l’essenza degli eventi più per via di immedesimazione e di intuizione che attraverso la razionalità gelida dell’indagine analitica. Proprio questo sforzo sintetico, e per così dire divinatorio, consente di passare – potremmo dire con Vico e con Manzoni – dal “certo” della filologia e della scienza al “vero” del pensiero e della riflessione più autentici e profondi, dal “vero storico” al “vero poetico”.

Né il messaggio del romanzo cade, in questo modo, nel dogmatismo o nel didascalismo. «Obscurata est notitia veritatis», dice un passaggio del codice. Irnerio e Bernardo sono consapevoli del fatto che a monte del «progresso verso la verità» vi è sempre un «dubbio inesprimibile», lontano dal razionalistico “dubbio metodico” nella misura in cui non è freddamente ed astrattamente posto, ma sentito e sofferto nel profondo e nel vivo della mente e dell’anima. Proprio nell’indagare il mistero, nel tentare e vincere l’enigma, risiede lo sforzo congiunto della ragione e della fede, di cui la narrazione storico-romanzesca reca testimonianza ed è, insieme, strumento.

Matteo Veronesi

http://it.geocities.com/matteoveronesi


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