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Il racconto del raisi di Marzamemi

di Victor Kusak - martedì 22 ottobre 2019 - 1910 letture

Per chi dalla costa guardava verso il mare di Marzamemi, poteva scorgere una nave dorata immersa nel mare più blu che il Mediterraneo potesse vantare. Era il borgo di Marzamemi appunto, di poche case raggrumate come le dita impignate di una mano, circondato dalle acque tutt’attorno, avendo su tre lati il mare e dietro la palude fonte di cibo sale e cacciagione. Le pietre d’arenaria con cui sono fatte le case avevano un color giallo particolarmente intenso, che il sole faceva splendere o indorare a seconda delle ore del giorno. Il borgo fin da allora aveva il corpo centrale del palazzo del barone Calascibetta, con accanto il cortile e la tonnara, e davanti la piazza, con la fila breve di case di marinai a ridosso del mare. Il porto, sulla destra guardando il mare, aveva due isole: l’isola Grande (che sarà poi inglobata nel porto) e l’isola Piccola (su cui sarà costruito un palazzetto rosso bordeaux del Brancati dottore).

Nell’epoca di cui parliamo, l’attività principale rimaneva quella della pesca. La pesca del tonno. I possedimenti del barone Calascibetta erano stati rilevati dal principe di Villadorata, ma ancora il marchese Di Rudinì non aveva creato il suo palmento con le tubazioni che dalla grande fabbrica del vino portavano il mosto alle navi che approdavano e riempivano i serbatoi per portare il prodotto verso i porti del nord.

Era il principe che comandava su tutto e su tutti.

I pescatori erano organizzati attorno al raisi, che era qualcosa di più di un capo-ciurma: era anche giudice di pace, e organizzava il lavoro collettivo, e attraverso le arti magiche e l’influsso religioso dirigeva le operazioni della pesca che avevano bisogno dell’occhio favorevole dei santi e delle divinità, l’intermediazione di Maria - alla Beata Maria Vergine del Carmelo era stata dedicata la chiesetta sulla piazza del borgo. Quella del raisi era una parola antica, di origini arabe. Da quelle parti, tutto ciò che era venuto non se ne era mai andato, tutto si sommava come un sogno che nel dormiveglia non riusciva a dissolversi.

Avvenne all’epoca questa cosa che ancora si tramanda - la cui storia è stata trasmessa di padre in figlia fino ad ora. E che qui si cunta.

Il raisi dell’epoca era un uomo ancora giovane, ma esperto - di lui tutti i suoi uomini si fidavano ciecamente. Lui sapeva tutto del mare, conosceva tutti i segni che il cielo mandava. Perché la pesca era non solo un’arte ma un’attività mistica in cui religione e pratica, conoscenza e intuito si mischiavano. Sapere dove sarebbero passati i tonni, e saper cogliere il momento giusto. Era una questione in cui conoscenze antiche e moderne razionalizzazioni si dovevano arrendere davanti all’impalpabile proveniente da qualcosa che fu poi chiamato via via simbolismo, tradizione, inconscio collettivo. Non si diventava raisi per caso, esserlo significava avere dentro qualcosa in più - oltre al rispetto e all’intelligenza. Dal raisi dipendeva la buona riuscita della pesca, e una buona pesca significava che le famiglie dei pescatori avrebbero avuto di che mangiare e sfamare i propri figli.

Così accadde che le barche partirono per la pesca con in testa sulla prua della barca più veloce il raisi. Fu fatto tutto secondo le regole. Ciccio Malagrazia sputò alla sua destra facendo finire lo sputo fuoribordo esattamente a dieci spanne dall’uscita del porto. Il raisi guardò prima alla sua destra e poi diede tre colpi con il piede sul legno della barca. Saro Mezzatesta recitò per dieci volte l’Ave Maria. Come sempre, ad aprire la fila delle barche fu la Pippuzzo, che sempre aveva portato fortuna e che proprio per questo si portavano sempre d’appresso nonostante avesse il legno gonfio dagli anni e dall’acqua. Ma quella volta qualcosa non funzionò, e pochissimo fu il tonno che fu pescato. Quando la cosa accadde per più giorni, i pescatori cominciarono a sentirsi sempre più cupi. Era una cosa che non veniva detta. Ma lo si capiva dagli sguardi dei pescatori.

Se la pesca va bene, è il raisi che ha saputo scacciare gli spiriti negativi ed è riuscito a propiziarsi quelli positivi - angeli contro demoni, nell’eterna lotta tra male e bene. Se la pesca va male, è colpa del raisi che non ha saputo ingraziarsi i santi.

Mai a memoria d’uomo s’era vista una pesca tanto scalognata. Persino Saro U Ciuncu che era anche mezzo orbo e che passava ormai le giornate seduto al porto e per l’età non poteva più partecipare alla pesca lo diceva: “Mai a memoria d’uomo non s’è vista una pesca così maledetta”, e ciarava l’aria alla ricerca di indizi di quella maledizione che sembrava calata sul porto, sulle barche e sui pescatori.

Dopo l’ennesima pesca negativa, il principe convocò il raisi, e gridando lo rimproverò: “Se non portate il tonno, vi mando via a calci: farete la fame voi e i vostri figli!”.

Il raisi ascoltò in silenzio i rimproveri del principe e calò la testa. Ma una scintilla lampeggiò nei suoi occhi scuri.

L’indomani partirono le barche. E accadde il miracolo. Fu una pesca abbondantissima, come non si era mai vista. Le barche erano strapiene e i pescatori avevano il sorriso che biancheggiava da un lato all’altro della bocca. I tonni furono portati nella tonnara. E tutti lavorarono come se non esistesse stanchezza, il cuore allegro. E mai si era visto tanto sangue allargarsi sui pavimenti e scorrere a rivoli fino al mare e tanti di quei tonni in quella che era una delle tonnare più grande della Sicilia.

Il principe, tutto contento, ordinò alle monache del monastero di Pachino di fare i dolci più buoni che si fossero mai fatti da quelle parti, con la mandorla più mandorlosa, e lo zucchero più zuccheroso. E ordinò che venisse fatto un banchetto nel cortile del palazzo, vicino alla tonnara. E disse: “In omaggio a questa pesca miracolosa, anche i pescatori potranno partecipare a questo banchetto e deliziarsi con le vivande che saranno poste sui tavoli”.

E davvero lo spettacolo di quell’enorme tavolata sotto ai carrubi nel cortile del palazzo era qualcosa di strabiliante. C’erano le delizie più deliziose che occhi e palato di pescatore potesse mai aver visto e assaggiato, c’erano tutti i colori del giardino dell’Eden, e i profumi del giardino delle Urì. C’erano i datteri, c’erano i pandispagna, c’erano le focacce i cudduruni le mpanate e i calzoni tanto per gradire, le caponate e le parmigiane e le mulingiane fritte, c’erano le zuppe di ceci u spizziu i stagghiola e gli stinchi rosolati e le sasizze, e i gelè di cannella e la liquirizia, c’erano i vini bianchi rossi rosé e i passiti, c’erano le zeppole e le cassate che ancora non erano state inventate e le giuggiolate, le pignolade messinesi, gli arancini e le pizzette, le paste con la glassa e il ripieno di crema bianca, cioccolata, pistacchio e ricotta, c’erano i cannoli, la frutta candita, c’erano i cornetti, i panserotti, gli iris e le granite di gelsi le granite di mandorla le granite di caffé, e c’erano i tarocchi e i persichi e i melograni e i clementini e grappoli d’uva di tutti i colori: dal colore della pietra arenaria dorata di Marzamemi al viola al rosso del tramonto. Mancavano solo le minne di sant’Agata ma solo perché quel giorno non era sant’Agata anche se avrebbe potuto esserlo. Le monache non si erano risparmiate e avevano dato fondo a tutta la loro arte culinaria. I pescatori invitati erano rimasti all’ingresso del cancello di legno spalancato, si trovarono ad ammirare quel ben di dio, e non sapevano se credere ai loro occhi mentre già sentivano in bocca il sapore di tutte quelle delizie sopraffini, quel cibo che solo un principe fino ad allora aveva potuto assaggiare e che loro in tutta la loro vita mai avrebbero potuto neppure lontanamente avvicinare.

Fu allora che il raisi fermò i suoi uomini con gesto perentorio della mano.

Disse: “Fermi”. E i suoi uomini si fermarono, da che erano pronti a balzare tutti sulla tavolata per affondare le mani in quel cibo sopraffino.

Il raisi avanzò nel cortile. Prese da un vassoio una pasta di mandorla. Si avvicinò a un tonno che pendeva lì vicino. Uno dei tonni più grossi che avessero mai catturato. Infilò la pasta in bocca al tonno e si rivolse al principe.

“Noi”, disse, “Abbiamo fatto solo il nostro dovere di pescatori”. Una scintilla attraversò i suoi occhi scuri. E se ne andò, la schiena dritta, seguito da tutti i suoi uomini. E d’improvviso parve che quelli non erano pescatori ma ombre di guerrieri, di polifemi, di fenici greci arabi e troiani, le spalle larghe e l’incedere possente.

Questo accadde a Marzamemi, quella volta che la sorte fu avversa ai pescatori e il principe minacciò i pescatori e il loro raisi e alla fine il raisi volle ringraziare il tonno e non volle il regalo del principe.

E questo mi raccontò Barbara ieri sera, la pronipote di quel raisi di Marzamemi, guardandomi con la scintilla dei suoi occhi scuri e sollevando dalla fronte una ciocca dei suoi capelli ricci.


Questo cunto mi è stato cuntato. Lo dedico a tre grandi donne: Barbara Fronterrè, Patrizia Maiorca, Monia Frizzi. Questo cunto appartiene a loro.

Il termine raìsi è il derivato di ràis, parola araba che indica appunto il capo-ciurma dei pescatori di tonno. Per il resto:

mulingiàne = melanzane

pèrsichi = pesche

spìzziu = ceci in umido con odori vari



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