Il programma del "senza volto": il candidato Simona Panzino

Il programma del "senza volto": il candidato Simona Panzino da www.senzavolto.org

di Redazione - mercoledì 19 ottobre 2005 - 7385 letture

1. Amnistia: per un nuovo "garantismo sociale"

Avviare subito un procedimento di amnistia generalizzata significa porre una questione fondamentale di democrazia. La straordinaria esperienza dei movimenti di questi anni - movimenti per un’altra globalizzazione, movimenti contro la guerra - rischia di essere ridotta a "tema penale". Problema analogo spetta alle lotte sociali che hanno conquistato o provato a conquistare nuovi diritti sul problema della casa, della formazione e dei saperi, del reddito. L’accanimento penale riguarda, inoltre, le battaglie sul lavoro e i conflitti sulla cittadinanza, attorno al tema dei Cpt e dei diritti di cittadinanza in genere (asilo, soggiorno, residenza).

In tutti questi casi si tratta di lotte che hanno posto condizioni irrinunciabili per una democrazia matura, condizioni che sembrano irrinunciabili anche per altri nel centro sinistra. Eppure i protagonisti, chi ha animato con generosità queste lotte, rischia di essere arrestato.

Amnistia significa assumere il carattere aperto e conflittuale dei nessi di relazione democratica.

Più concretamente significa sviluppare un nuovo "garantismo sociale", all’altezza dei conflitti che per primi provano a dare risposte ai problemi inediti posti dalla globalizzazione neoliberista, dalla guerra, dalla precarietà lavorativa e di vita.

Amnistia generalizzata quindi e depenalizzazione dei reati sociali, ma anche, di fondamentale importanza, abrogazione dei reati associativi. Attraverso i reati associativi, infatti, si tenta di colpire la possibilità stessa di articolare nuove domande e temi sociali, di lottare per diritti mancati o inesistenti.

La depenalizzazione deve infine coinvolgere i reati minori. Questo elemento, ultimo non per importanza, mette al centro la questione delle carceri e del loro drammatico sovraffollamento. Questione, quella carceraria, che sta toccando picchi di inciviltà e di degrado vergognosi e insostenibili. La stragrande maggioranza della popolazione carceraria, infatti, è composta da migranti, tossicodipendenti e appartiene al mondo dei "senza diritti". Un provvedimento di amnistia generalizzata costituirebbe una forma di risarcimento nei confronti dei soggetti deboli e una prima inversione di tendenza nell’uso del carcere come unica risposta ai problemi sociali.

2. Resistere alla guerra

Il rifiuto della guerra è una priorità programmatica assoluta. La guerra che abbiamo imparato a conoscere in questi anni è del tutto diversa da quanto definivamo con lo stesso termine nei decenni passati. "Guerra giusta", "guerra preventiva", "guerra globale", sono fatti e categorie che hanno drammaticamente messo in crisi le forme del diritto e della democrazia. La guerra contemporanea assomiglia sempre più ad operazioni di "polizia internazionale" e trova radicamento nella dissoluzione della sovranità degli Stati-nazione.

Rifiutare la guerra significa pensare nuove forme di democrazia globale. Il venir meno dello Stato-nazione e delle sue funzioni tradizionali non può essere sostituito attraverso l’istituzione - di fatto e indipendentemente da ogni vincolo normativo internazionale - di una condizione di guerra permanente. Non si può produrre alcuna sicurezza attraverso l’uso della forza militare. Bisogna piuttosto costruire nuove forme di partecipazione e di autogoverno. Solo la costruzione di politiche sociali all’altezza dei nuovi paradigmi produttivi globali e delle figure che abitano e rendono operativi questi paradigmi, può arginare l’insicurezza.

Ritirare le truppe laddove sono presenti, in Iraq in primis. Non assumere questa responsabilità significa concretamente esporre il nostro paese a sciagure e disastri già ampiamente prevedibili.

Azzerare le spese militari e destinare piuttosto fondi alla ricerca scientifica, alla ricerca medica, alla sostenibilità ambientale, all’erogazione di reddito per chi vive la precarietà lavorativa come un ricatto e un’insicurezza permanente. Eliminare i corpi speciali delle polizie e degli eserciti.

Questi alcuni punti chiari che rinviano ad una idea di globalizzazione della democrazia, delle sperimentazioni partecipative, e non della paura e della distruzione.

3. Sconfiggere la precarietà: reddito per tutte e tutti

La precarietà è una condizione che riguarda tutti. Precari non sono solo i lavoratori assunti con i contratti cosiddetti atipici. Precari sono i lavoratori stabili minacciati dalle crisi aziendali, sono i disoccupati che non trovano un lavoro dignitoso, gli studenti che non hanno la possibilità di pagarsi gli studi, i senza casa, sono tutte quelle persone che stanno subendo, come vero e proprio impoverimento, il rincaro generalizzato dei prezzi. Siamo di fronte ad una situazione di profonda crisi di tutti i meccanismi di garanzia e di protezione economica che erano stati tipici dello Stato sociale nella società industriale. Anni di politiche neoliberiste, di deregolamentazione del mercato del lavoro, di sacrifici sull’altare della competitività delle più elementari protezioni sociali hanno contribuito ad accentuare a dismisura la forbice delle disuguaglianze economiche, abbandonando una parte oramai maggioritaria della popolazione al rischio della marginalità sociale. L’introduzione della flessibilità come prerogativa unilaterale dell’impresa, la corsa al ribasso delle retribuzione e la discontinuità lavorativa come condizione "tipica", espone al rischio di esclusione tutti, non solo chi ha perso il lavoro, ma anche chi un lavoro ce l’ha.

L’introduzione di un reddito sociale per tutti e per tutte, indipendente dalla prestazione lavorativa, è una misura necessaria e non più rinviabile. È necessaria una base economica comune come perno centrale di un nuovo sistema di garanzie, che ridistribuisca le ricchezze socialmente prodotte e parassitariamente monopolizzate dal potere economico, e che offra a tutti il diritto ad una vita dignitosa. Un reddito sociale per tutti, deve poter garantire ad ognuno la libertà di rifiutare, senza la morsa del ricatto, la folle corsa al ribasso del costo del lavoro.

4. Chiudere i Cpt // Per i nuovi diritti di cittadinanza

La presenza migrante in Italia è ormai un dato strutturale: con 2.600.000 presenze regolari, l’incidenza degli immigrati sulla popolazione complessiva è del 4,5%.

Le politiche governative, che si sono susseguite fino ad adesso, non tengono conto della trasformazione socio-economica in atto, mantenendo un approccio emergenziale e securitario nei confronti del fenomeno migratorio.

La gestione dell’accoglienza, quando si sopravvive alla traversata in mare, avviene attraverso i Centri di permanenza temporanea (Cpt - istituiti dalla legge Turco-Napolitano nel ’98), veri e propri "lager del presente" all’interno dei quali vengono trattenuti, attraverso la detenzione amministrativa, cittadini non colpevoli di alcun reato.

La legge 189/2002 (Bossi-Fini), subordinando il permesso di soggiorno al lavoro, ha trasformato la popolazione migrante in mera forza lavoro a basso costo, ricattabile e sottoposta ad un regime di precarietà assoluta. Anche i parametri previsti sull’idoneità abitativa - vincolante il rinnovo del permesso - sono restrittivi e inadeguati: alle stesse condizioni, la maggior parte degli italiani non avrebbe diritto alla permanenza sul territorio!

Occorre riformulare completamente le politiche in materia di immigrazione, sviluppando una nuova concezione di accoglienza, che non consideri i migranti come soggetti in attesa di diritti ma come cittadini a pieni titolo, ai quali vanno garantiti, da subito, sia i diritti primari (permesso di soggiorno, residenza, casa, lavoro/reddito, etc.) che quelli politici (diritto di voto attivo e passivo).

È necessario chiudere immediatamente tutti i Cpt presenti sul territorio italiano (ma non solo, pensiamo all’esternalizzazione dei Cpt in Libia o in Marocco) e bloccare la costruzione di nuove strutture simili. I Cpt costituiscono una vergogna extra-giuridica e non possono in alcun modo essere "umanizzati".

5. Anti-proibizionismo: "giusto o sbagliato non può essere reato"

Il "proibizionismo" è un insieme di norme che proibendo e punendo legalmente la produzione, la vendita e il consumo di alcune sostanze psicoattive, si propone di preservare l’integrità fisica e morale dei cittadini. Il proibizionismo è un’ideologia e per tanto si giustifica da sola. Nei fatti, ha costituito il più formidabile incentivo economico per la produzione e diffusione delle droghe proibite.

Qualora vivessimo in un paese dotato di intelligenza, la marijuana sarebbe considerata un farmaco-miracolo come la penicillina. Al pari della penicillina, infatti, è poco costosa (tolta la "tassa" della proibizione), è utile per molti disturbi e malattie, ed è innocua. Del resto è stata prescritta dai medici dalla metà del 19° secolo fino agli inizi del ’900, e non si è mai registrato, per il suo uso, un caso di morte. Nessun altro farmaco può vantare un tale indice di innocuità.

Attualmente appare chiara la volontà di vietare e punire prima ancora del consumo, il comportamento e lo stile di vita di una fetta enorme della popolazione. La criminalizzazione del consumatore, la messa in discussione della sua libertà di scelta, ma anche di cura, calpesta il referendum popolare del ’93 che già 12 anni fa aveva sancito la non punibilità penale del consumo. A causa della legge attualmente in vigore quasi il 40% della popolazione carceraria è detenuta per reati connessi alle droghe.

Non è rinviabile l’abrogazione del disegno di legge Fini-Giovanardi, e la definizione di politiche anti-proibizionistiche. Liberalizzazione delle sostanze leggere da una parte, diffusione di etiche e culture dell’uso consapevole, costituzione di centri di assistenza medica e informativa; interrompere la carcerizzazione del consumo, chiudere "i centri di schiavitù" per tossicodipendenti, dall’altra.


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