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Il problema ecologico, tra modernità e tradizione

La difesa del patrimonio naturale e la conseguente subordinazione dell’interesse materialistico ad essa, si inseriscono in una logica tanto conservativa, quanto rivoluzionaria.

di Simone Olla - mercoledì 6 aprile 2005 - 7740 letture

“Un gran corpo animato e sacro, espressione visibile dell’invisibile”, così Julius Evola, testimone della Tradizione, definisce la natura. Ad ogni buon conto, di là dalle interpretazioni di sorta e dalle appartenenze ideologiche, vogliamo porre in evidenza il pensiero tradizionale quale testimonianza storica e culturale, capace di esaltare l’aspetto sacro nella materia. Non l’esaltazione dell’aspetto materiale, bensì una riflessione su ciò che vive alle sue spalle, un disegno autenticamente legato ad una visione superiore della vita e di ciò che circonda l’uomo nella quotidianità. Ciò che manca in maniera fondamentale all’uomo moderno e alla sua visione del mondo ( sempre che ve ne sia una ), è la convinzione di far parte di un mondo gerarchico, impostato su valori, posizioni e privilegi che trascendono le esigenze materiali e contingenti. Si tratta di porre ogni singolo aspetto della vita e del mondo al proprio posto, nella posizione che gli compete; in questo senso la difesa del patrimonio naturale e la conseguente subordinazione dell’interesse materialistico ad essa, si inseriscono in una logica tanto conservativa, quanto rivoluzionaria. Conservativa nell’accezione più nobile del termine, ovvero quale salvaguardia di valori superiori e vitali. Rivoluzionaria poiché in assoluta controtendenza con l’attuale direzione che il mondo dell’interesse e dell’egoismo sta prendendo.

E’ giocoforza prendere atto di un consistente mutamento delle condizioni climatiche e ambientali in svariate parti del pianeta, di cui lo scioglimento dei ghiacciai ( oramai dato per scontato, con una serenità a dir poco imbarazzante ) è solo l’esempio più lampante. A corollario di questo sfacelo c’è il destino di diverse specie animali e di parecchie comunità indigene, praticamente spogliate della loro terra senza conoscerne il motivo.

Spirito di conservazione, capacità di prendere coscienza delle conseguenze delle proprie azioni sono prerogative sconosciute alla società del progresso; d’altra parte non ci si può stupire davanti ad un mondo piegato alla logica del profitto e dell’investimento a tutti i costi. Viviamo nella società del rischio.

“L’uomo antico, invece, aveva davanti a sé il cosmo vivo, articolato e senza scissioni. La principale classificazione che divide il mondo in cose materiali e in cose spirituali non esisteva per lui. Dovunque guardasse, vedeva soltanto le manifestazioni di poteri elementari, torrenti di energie specifiche creatrici e distruttrici dei fenomeni” . Con queste parole di Ortega y Gasset la battaglia ecologista trova nuove forme di espressione, più profonde e legate ad una visione del mondo distante dalle pressione contingenti e umane, una sensazione di potenza e di partecipazione alla crescita di un germe Sacro ed inviolabile. Caratteristiche queste, a cui l’ecologismo ipocrita e radical-chic - tanto esaltato nel mondo delle maschere e dell’informazione libera - non ha rivolto l’attenzione necessaria. In buona parte, per una mancanza che si potrebbe definire “genetica” nel proprio patrimonio culturale di una sensibilità reale verso il panorama naturalistico, una sensibilità capace di andare al di là delle singole battaglie, per costruire una visione della situazione più ampia e articolata secondo priorità precise. Un progetto inconciliabile con l’inclinazione a secolarizzare il tutto, a riportare alla logica del calcolo anche le più elementari esigenze, come si conviene ai fautori di un progresso senza ostacoli. Lo stesso progresso che ha svuotato il carattere superiore del rapporto tra uomo e natura, subordinandolo a bisogni e pulsioni in totale antitesi con una concezione della vita in chiave di sobrietà e stabilità.

Si rende pertanto necessario un contributo di idee capaci di creare un sentimento di appartenenza alla propria terra, non esaltandone l’aspetto materiale e biologico, bensì costruendo una convinzione che si fondi sul rispetto di un patrimonio che di tangibile ha solamente l’aspetto esteriore, ma che in realtà cela dietro di sé un più ampio disegno, una volontà di potenza a cui l’uomo può soltanto aspirare. In ragione di queste esigenze ( che diventano quotidianamente tristi e pressanti necessità ) le soluzioni da offrire devono inevitabilmente andare a toccare le tematiche legate al fabbisogno energetico, divenuto allo stato attuale autentico cromosoma della società moderna. Si configura come vitale, l’appello ad un diverso approccio nei confronti delle fonti energetiche, con l’esigenza di guardare verso modelli di sviluppo che sappiano conciliare il peso della modernità e dei suoi ritmi, con una più sensibile politica di gestione delle risorse naturali.

“In tal senso, la regionalizzazione delle esigenze energetiche contribuirebbe ad un processo di consapevolezza ecologica delle fonti e responsabilizzazione sociale e politica dal basso verso l’alto, attivando un modello sussidiario e comunitario di autonomia e indipendenza che è alla base di ogni organismo vivente nella sua virtuosità esistenziale”. Contribuendo ad un dialogo impostato sulla consapevolezza di andare alla fonte dei problemi, Eduardo Zarelli individua nella delocalizzazione del fabbisogno energetico, una possibile frontiera verso un nuovo legame con la tecnologia e le sue possibili utilità. Caratterizzando il discorso attraverso un respiro comunitario e identitario, la soluzione offerta appare valida anche e soprattutto dal punto di vista politico.

E’ innegabile ad oggi la totale inefficienza del modello Stato Nazione nei confronti delle innumerevoli richieste che la modernità gli pone davanti, così come non è concepibile un ostinato voler risolvere i problemi affidandosi alle sole risorse tecnologiche e scientifiche; ciò che necessita di attenzione è il discorso basato sul decentramento delle esigenze energetiche e politiche.

Se si combatte una politica chiusa al dialogo con la diversità, non si può non sostenere la battaglia delle piccole patrie, legittimamente appartenenti ad un mondo fatto di gradualità e posizioni stabili.

Nel momento in cui si prenderà coscienza del fatto che solamente piantando i piedi sulla propria terra ed esaltando quindi i valori di identità e appartenenza, sarà possibile affrontare una nuova impostazione del problema ecologico, l’uomo moderno si accorgerà di aver inseguito per anni una stabilità che avrebbe potuto godere ben prima, se solo il suo sguardo avesse toccato con più attenzione le meraviglie che la natura gli poneva davanti. Se avesse concepito una presenza superiore in ciò che lo circondava, se in sostanza avesse ricoperto il suo ruolo.

Carlo Corsale

www.opifice.it


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