Il pozzo di Sciascia

Il 20 novembre 1989 moriva Leonardo Sciascia. Pochi giorni dopo, andammo al funerale - a Racalmuto. Io e il mio giovane amico Melo prendemmo prima il treno...
Il 20 novembre 1989 moriva Leonardo Sciascia. Il “fatidico” ‘89, l’anno della caduta del Muro di Berlino, l’anno della svolta - l’improvvisa accelerazione che la storia ha subito. Alcuni hanno parlato persino di “fine della storia”. Da allora molte cose sono cambiate, i partiti della Prima Repubblica italiana (come si ama definirla, per scimmiottare la più importante storia recente francese) sono defunti. Una nuova accelerazione in Italia lo si è avuto nel 1994, poi sono seguite le vicende stagnanti della Seconda Repubblica berlusconiana, e della Terza (a quanto pare, quella odierna): la crisi lunga sociale ed economica di un Paese che non riesce a trovare una sua identità se non rimestando in antiche fobie.
Pochi giorni dopo, andammo al funerale - a Racalmuto. Io e il mio giovane amico Melo prendemmo prima il treno che collegava Lentini a Catania e poi il trenino a diesel che da Catania faceva la strada ferrata dell’interno della Sicilia. Il mutamento del paesaggio dalla costiera degli agrumi al paesaggio di monti e distese di campi arati (oggi una distesa di serre e di plastica bianca di copertura delle serre). Fino a questo paesino per noi sconosciuto. I piccoli manifesti rettangolari listati a lutto (come si usa nel Sud) a certi angoli delle strade con la scritta “Nanà”, che noi all’inizio non capivamo salvo poi venire a sapere che Nanà era il nomino con cui chiamavano nell’intimità Sciascia: dopo la morte tutti si diventa intimi di tutti. La folla davanti alla chiesa, noi sulle scalinate. La lunga attesa. Perché il funerale per iniziare doveva attendere l’arrivo del potente di turno: allora quel Bettino Craxi, che arrivò poi in elicottero tutto trafelato come un uomo d’affari, e che proprio il 1994 avrebbe finalmente travolto. Parte di quel blocco di potere che dopo l’assassinio di Moro aveva congelato l’Italia. Altri tempi.
Era un mondo ben strano quello “prima del 1989”. Non c’erano telefonini, non c’era Internet. Un mondo che sostanzialmente non rimpiangiamo - solo nella finta polemica “politica” di oggi si può pensare che il passato sia stato meglio. Con difficoltà e attraverso i morti per le strade l’Italia cercava di tenere una parvenza democratica. I tentativi di golpe erano dietro l’angolo. E in Sicilia la mafia e il sistema di potere democristiano era dominante. Ancora risuonavano nelle chiese le parole dell’arcivescovo di Palermo che assicurava che la mafia non esisteva. La chiesa e i cattolici erano parte di quel sistema. Avevano esteso quel sistema in tutta l’isola. Anche nella città in cui vivevo, Lentini: il patto tra Nardo referente del clan Santapaola, e il silenzio totale di tutti i politici locali in altre faccende affaccendati.
Sciascia aveva riproposto il problema centrale del rapporto tra Potere e il singolo, il problema della verità - come aveva sottolineato Giuseppe Giarrizzo, il leit-motiv di tutti gli intellettuali siciliani nella storia di quest’isola. Lo aveva declinato con la sua sensibilità ironica, illuminista. Con l’attenzione per le storie emblematiche, le microstorie che fanno vedere come “le cose” sono sempre complicate, che tra il bianco e nero dell’ideologia esiste la zona grigia. È il problema della verità. Ne Il giorno della civetta si parla di un pozzo, e del riflesso che ne viene fuori. È la luce del solo o quella della luna? Solo cadendo nel pozzo, suggeriva ironicamente Sciascia, si può accertare la verità. Filisteicamente la conclusione dei molti è che “la verità” non esista, ed è proprio su questo che il Potere si basa per tenere a bada i più. La capacità del sistema di creare un tale fumo, far passare gli anni, per cui alla fine di nessuna cosa si ha certezza. Gli anni di Sciascia sono gli anni dei delitti di mafia, tutti - ma proprio tutti - senza colpevole né verità di alcun tipo: neppure quella (artata e accademica) “giudiziaria”. Dopo il 1989 sono venute alcune sentenze, le “verità giudiziarie” di cui dicevo: e Andreotti è stato alla fine assolto - per dire.
“A che serve vivere se non c’è il coraggio di lottare?” diceva Pippo Fava “stutatu” il 5 gennaio 1984 a Catania. La funzione degli intellettuali, in quel prima del 1989 era anche questa: essere punto di riferimento, testimoni di verità. E noi per questo - giovani e riottosi anche nei confronti di Sciascia - andammo a quel funerale. E continuiamo a leggere i libri di Sciascia che non perdono di una virgola la loro necessità - in questi anni in cui le bugie del potere sono chiamate “fake news” e mafia e fascismo hanno seguito quella “linea della palma” che, anche qui ironicamente Sciascia aveva posto come metafora - linea che i “cambiamenti climatici” hanno spostato sempre più verso il Nord, che si è dimostrato incapace di opporre una resistenza di qualsiasi tipo al sistema di complicità e silenzio. Continuiamo a ricordare quanto Sciascia disse a proposito dei “professionisti dell’antimafia” anche se indagare sui conti bancari e su quel che si dicono i nuovi potenti risulta sempre complicato (vedi il nostro dossier sul caso Montante e sulla storia della dislocazione mafiosa in Sicilia). In quel prima 1989 c’erano intellettuali che, fuori dai talk-show televisivi, ponevano a tutti noi, a ognuno di noi, la domanda fondamentale: da che parte stai? Sei dalla parte di chi ruba nei supermercati o di chi li costruisce rubando [1]? sei complice di chi uccide, stando zitto o voltando la testa dall’altra parte o hai il coraggio di parlare? E lo stesso noi oggi ti chiediamo: tu, da che parte stai?
Per i 25 anni di Girodivite, il 16 novembre 2019, abbiamo conosciuto Carlo Palermo. Lui aveva indagato sui traffici d’armi internazionali quando era procuratore a Trento, e poi subito dopo che Giacomo Ciaccio Montalto fu “stutatu” nel 1983 si fece trasferire a Trapani. Cinquanta giorni dopo il suo arrivo fu oggetto dell’attentato di Pizzolungo, il 2 aprile 1985. Furono “stutati” i due gemellini Salvatore e Giuseppe e la madre Barbara Asta che si stavano recando a Trapani a scuola, e il procuratore si salvò per miracolo dall’esplosione. «Mio fratello, una macchia sul muro...», ricorda Margherita Asta, la figlia di Barbara Rizzo e Nunzio Asta. Carlo Palermo da allora ricerca una verità, umana prima che giudiziaria. Ma dalle campagne e dalle città siciliane si sente solo il frinire dei grilli, “un forte rumore di niente” [2].
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