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Il mito nel cuore delle donne

Recensione al saggio narrativo "Con cuore di donna. Alcesti - Teti - Atena" di Giuseppina Norcia, dove il mito rinasce nella scrittura come "riappropriazione"

di Tommaso Cimino - martedì 4 marzo 2025 - 477 letture

Con cuore di donna. Alcesti – Teti – Atena di Giuseppina Norcia (VandA edizioni, 2024) è l’ultimo libro della grecista siracusana, saggista e docente di Drammaturgia antica presso l’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa.

Esso segue il percorso già tracciato nello scavo dei miti greci con Siracusa. Dizionario sentimentale di una città (un “baedeker dell’anima” lungo la storia e i luoghi della città natale), poi continuato con il romanzo L’ultima notte di Achille (scavo psicologico di un eroe tormentato dalle ferite del cuore), e poi ancora con A proposito di Elena (limpida e lucida ricostruzione a cavallo tra saggistica e narrativa di una donna, prima che di una figura centrale del mito) e infine con L’isola dei miti (delizioso libro illustrato per bambini ed adulti curiosi della Sicilia dei Greci antichi).

Copertina_libro_Giusi_NorciaNorcia fin dal sottotitolo dichiara l’intenzione di affrontare tre donne del mito legate da negazioni e riappropriazioni lungo le tre “avventure” (così sono chiamati i capitoli di questa fiction mitologica) che compongono il testo: Alcesti se ne va è il titolo della prima, cui segue Teti. Una ninfa, una madre per poi chiudere con Il sogno di Atena. Orestiade con cuore di donna, che chiude il cerchio del titolo. Una Postfazione intitolata Vivere il mito fa da specchio a una più asciutta e breve Nota dell’autrice iniziale, ancora una volta legando simmetricamente la struttura del libro.

La prima avventura ricostruisce la vicenda di Alcesti, e la rivivificazione del mito antico secondo l’autrice fa irrompere Persefone accanto alla regina che appena allora ha sacrificato la vita per il marito Admeto: negli Inferi si compie, dopo la perdita della vita fisica, il mistero di una rinascita in quanto compimento della prima e vera nascita di Alcesti – quella della consapevolezza della verità eterna dell’Aldilà come vero luogo dell’Essere.

La seconda invece, tessendo con ancor più sapienza se possibile le labilissime testimonianze letterarie e mitografiche sulla ninfa nereide Teti, ne indaga il rapporto di dea immortale e di madre che desidera la mortalità e con essa anche la finitezza umana come il figlio Achille, e rifonde questa vicenda in quella dell’adozione di Efesto come figlio quando questi, ancora bambino, fu cacciato dall’Olimpo per la sua deformità.

L’ultima avventura – forse proprio per questo la più ricca di conseguenze e più complessa – è dedicata al riconoscimento di Atena della sua figliolanza da Metis, la Saggezza madre senza concepimento perché inghiottita da Zeus. A ciò l’autrice lega il processo contro Oreste uccisore di Clitemnestra, la nascita della legalità dopo lo scontro dialettico con Apollo nel rito giuridico che proprio Atena fonda nella città a lei devota con la trasformazione delle Erinni in Eumenidi, e la presa di coscienza della mutevolezza poliforme della saggezza contro la rigidità del giudizio che pretende di “dire la verità” assolvendo o condannando qualcuno.

[IMMAGINE DI COPERTINA]

Giuseppina Norcia, nella sua Postfazione, dichiara implicitamente una sua appartenenza, oltre che al laboratorio collettivo Labodif, anche alla corrente che da Walter Otto e Aby Warburg giunge fino alle sue parole: “Il mito non ha tempo, ovvero non ha un tempo prestabilito e definito. Può accadere in ogni istante. Di volta in volta, però, le storie che ci colpiscono ed evochiamo sono quelle che «servono», le attiviamo sulla base di una domanda, di un’esigenza. […] Creatura metamorfica, il mito è capace di condurci dentro un labirinto di variazioni, lungo un sentiero di vie che si biforcano fino a contemplare finali diversi, spesso contraddittori” (pp. 140-141).

Allora il metodo filologico dell’autrice si fa compiutamente etimologico, alla ricerca – come avrebbero compiuto nella loro amichevole diversità Friedrich Creuzer e Johann Gottfried Jakob Hermann – di una verità nascosta nella scintilla creativa delle parole e nel segno di una radice lontana e differente da quella che è possibile rinvenire scorrendo i rami principali del mito così come esso è stato tramandato dalle fonti più note, per divenire infine eziologico, seguendo le orme del Callimaco degli Aitia.

Norcia illustra delle cause che, se non sono state percorse dalla “versione ufficiale” del mito (qualsiasi cosa esso sia, viste le dichiarazioni programmatiche della Postfazione), sono rivivificazioni creative e dunque nel pieno spirito del mito che vibra dentro il cuore delle donne di cui ella parla e del quale, stando loro accanto, sente i battiti.

“Svaniscono i ricordi, o se ne inventano di nuovi. Ma si può crescere senza mai nascere? […] Nel fragore delle certezze che crollano rifondare è come rinascere, come ricordare” (pp. 131 e 135), fa dire ad Atena; e questa verità del mito si può applicare dunque alla stessa scrittura di questo saggio narrativo.

Anzi: se il metodo archeologico che viene dichiarato dall’autrice è debitore di Luce Irigaray e di Maria Zambrano e Joseph Campnell, e l’esposizione più volte elogia i romanzi di Christa Wolf, è chiaro che Norcia si è nutrita ben oltre che del classico Bachofen iniziatore della riscoperta del matriarcato indoeuropeo, anche della consapevolezza di Marija Gimbutas e Margaret Mead, che nei segni benché minimi delle culture materiali vedevano la cancellazione dell’identità femminile e però allo stesso tempo le tracce indelebili ed emergenti. “No, Atena. Non è dalla testa di tuo padre che sei nata ma da un ventre nascosto e inghiottito per sempre. Partorita da una madre di cui ignori il volto e il nome” (p. 67), fa dire l’autrice a Teti nereide che si rivolge a sua nonna Teti titanide.

Ecco cosa si dovrebbe cercare, afferma senza dirlo esplicitamente Norcia: il volto e il nome della Madre, in quanto origine e scaturigine e prima causa in quella eziologia del pensiero che è il mito. E nel vortice spiraleggiante dei rimandi tra le donne che intertessono queste tre avventure, è proprio Alcesti – con le sue connotazioni che la mitologia comparata ha rinvenuto nell’antica India dei rituali di morte e rinascita – a svelare un segreto antico che fa venire in mente la rilettura (diversissima da quella dell’autrice, ma stimolante per il contrappunto che se ne potrebbe trarre) di Emanuele Severino nella sua Interpretazione e traduzione dell’Orestea di Eschilo, dove la filosofia è vista come rimedio, fin da Eschilo, per sopportare il dolore all’origine della tragedia, cioè la “colpa incolpevole” della finitudine umana contro la tanto più grande potenza degli dèi.

Alcesti, appena morta ed ancora inconsapevole che quel luogo sarebbe stato non solo quello della sua morte ma anche della rinascita, afferma: “Nessun incontro. Nessuna visione. Gli inferi erano assai diversi da come li avevo immaginati, da ciò che si raccontava. D’altronde, difficilmente qualcuno può tornare in superficie a dire ciò che ha visto. O, pensai, ciascuno ne ha un’esperienza diversa: forse non esiste un unico aldilà, ma miriadi di aldilà possibili adatti alla forma dei propri pensieri. Nel mio aldilà non vidi Caronte, il gran nocchiero traghettatore di anime. Né il fiume Stige che si srotola lento, denso come una sabbia. Anime, boschi di pioppi. Acque da bere per dimenticare. Ne fui felice, io che non volevo dimenticare, ma forse ricordare quello che ero. Ricordare di me. […] Laggiù vidi soltanto lei. Era questo, dunque, il disegno dei miei pensieri, del mio sentire” (p. 25).

“Ricordare” è, etimologicamente, “dare nuovamente al cuore”: ad un cuore di donna che conserva il mito e in esso può trovare rimedio e verità saggia e fluida per il male e le tragedie che la vita inesorabilmente impone, pare dirci l’autrice, vibrando anche lei nel vorticare tempestoso del racconto.


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