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Il mito dello specchio

Solo la verità e il senso possono donare e dare forma razionale alla produzione e alla vita sociale. I miti distopici del capitale: onnipotenza, piacere infinito, eterna giovinezza ecc. sono irrazionali...

di Salvatore A. Bravo - mercoledì 15 gennaio 2025 - 333 letture

La verità nei miti

I miti greci ci parlano, continuano a mostrarci le verità eterne. I miti si svelano a coloro che li vogliono ascoltare. La verità riposa in noi, ma attende lo sguardo che la accoglie e non sfugge all’incontro.

I miti greci sono archetipi che svelano la natura dell’essere umano e dunque sono nel “tempo ordinario della storia”. La campagna di dissacrazione della cultura classica ha, probabilmente, una causa profonda non svelata: il capitalismo può affermarsi solo in una cultura nichilistica, il mondo greco svela invece la natura veritativa dell’essere umano nella sua complessità fenomenologica. La natura umana è sempre connotata da fini oggettivi e dal “senso della misura”. Il capitalismo è irrilevanze, doxa e illimitatezza e dunque non può che contrapporsi in modo ideologico alla verità. La crematistica è in sé irrazionale, è automatismo che riproduce se stesso infinitamente, in quanto ha rotto gli ormeggi e si lascia inghiottire nel niente.

Solo la verità e il senso possono donare e dare forma razionale alla produzione e alla vita sociale. I miti distopici del capitale: onnipotenza, piacere infinito, eterna giovinezza ecc. sono irrazionali, in quanto seducono con la forza disgregatrice della derealizzazione. Ai miti distopici del nostro tempo bisogna contrapporre la razionalità etica e assiologica dei miti greci.

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specchio specchio delle mie brame

I miti relegati a sapere secondario, se ascoltati ci raccontano della condizione umana e della prassi, dell’agire della coscienza per uscire dal dominio dell’immagine irriflessa. Ci guardiamo solo nello specchio estetico deformante del capitalismo. L’interiorità si è volatilizzata nella liberazione da ogni vincolo e nell’ordinario cedimento alle sole “voglie”. La fuga dai vincoli non è emancipatrice, per essere liberi sono necessari il conflitto e la relazione dialettica.

Solo attraverso il processo di autoriconoscimento allo specchio, colui che guarda può riconoscersi e riscoprirsi in una soggettività non più gettata o situata, ma pensata mediante la chiarezza del concetto e del linguaggio. Lo specchio è immagine archetipica dei miti greci che nella sua pregnanza simbolica ci racconta del nostro difficile processo di umanizzazione.

Lo specchio è la metafora della verità e della necessità: si giunge al logos e alla ragione mediante un processo concreto che parte dall’immediatezza dell’astratto ed arriva al concreto, nel quale il soggetto che si specchia si scopre implicato nell’interalità. Lo specchio è dunque immagine archetipica e metaforica della crescita umanizzante e di un passaggio senza il quale l’astratto prevale annichilendo in soggetto nella trappola della doxa (δόξα).

L’immagine che si mostra dev’essere interpretata; i segni devono essere correlati; la tela del mondo dev’essere ripensata e riscritta dal soggetto, senza tale attività il soggetto vive il silenzio dell’immediatezza, pertanto resta sulla soglia del logos. Non nasce e non entra nella storia, è molto più simile ad un ente, poiché è manipolabile in quanto non conosce il proprio sé. Lo specchio dona all’interpretante che oltrepassa la soglia dell’immagine la consapevolezza dell’illusione ed indica la via che porta alla verità. La svela (ἀλήθεια). Ciò che appare, il fenomeno (ϕαινόμενον), non è la verità, la filosofia è, dunque, attività che toglie all’immagine la sua illusione per restituire la verità. La filosofia guarda dietro l’immagine, non affonda nell’immagine, ma scopre che l’immagine riflessa è parte del soggetto, ogni feticismo cade per donare la complessità relazionale del segno:

”Lo specchio è la presenza del mondo a se stesso e, quindi, quello stesso specchio può solo mostrare la presenza, manifestarla, non dirla secondo i modi della rappresentazione, secondo il gioco dei significanti e dei significati. Lo specchio è la soglia del mondo dei segni e della mediazione, perciò è immediato e non si può significare. Lo specchio restituisce ciò che appare ma, insieme, mostra l’essere di ciò che appare, di ciò che è segno potenzialmente menzognero, indica la verità del suo essere altro da ciò che nel mondo dei segni appare. Nell’esprimere l’illusorietà della conoscenza lo specchio di Dioniso manifesta la conoscenza dell’illusione. Il mondo che appare è altro da ciò che vuole apparire: lo specchio, mostrando ciò che non può essere significato, cioè l’essere riflesso del riflesso, è testimone della verità dell’apparire in quanto darsi veritiero della menzogna” [1].

Lo specchio è anche metafora di una tragica verità, ci parla della regressione ad uno “stato prerazionale nella contemporaneità. L’ideologia divora la filosofia. L’astratto prevale sul concreto, per cui l’atomismo acefalo diventa lo sgabello del dominio. La fatalità ha il sopravvento sui processi di decodifica e di responsabilità politica.

Specchiarsi per ritrovarsi

L’autoriconoscimento deve passare per il doppio, ci si deve specchiare, guardarsi, riconoscersi e scindersi per arrivare alla consapevolezza di sé. Senza lo sdoppiamento ed il pericolo di perdersi in esso, non è possibile attivare la consapevolezza che il soggetto pone il mondo e dunque è implicato in esso, ne è responsabile con le sue azioni, con il suo agire e con il suo linguaggio. Il soggetto non può effettuare la sua catabasi, ovvero la sua discesa (κατάβασις) all’interno dell’interiorità storica, senza l’esperienza tragica ed emancipatrice del doppio. Se siamo parte del tutto, non ci si può esimere dalla responsabilità etica e politica. La morale emerge all’interno dei processi di rispecchiamento e di riflessione e con la morale si delinea la politica: non siamo essere astratti, avulsi dal tutto, ma siamo all’interno di un mondo di significati che contribuiamo a formare:

” Tuttavia lo specchio di Dioniso insegna l’eccedenza: il dio che si specchia è parte di quel tutto mondo specchiato in cui, appunto, accade anche l’individuazione del dio che si specchia. Davanti allo specchio non più la violenza dell’Uno, non più la pretesa dell’Originale, bensì <>, semplici metà in una parola simboli: la metà è insieme l’unità e il doppio, se stessa come Uno e come metà dell’Uno, evocando l’unità della coppia, il maschile/femminile della bisessualità originaria che riunifica Eco la parola senza corpo al corpo del desiderio, al corpo di Narciso, ancora muto come il segno di un fiore” [2].

Il capitalismo come medusa

Nel volto della medusa il mortale (βρότος) vive l’esperienza estrema, nel volto della medusa è riflessa l’alterità assoluta: il nulla. La medusa ha gli occhi cavi, nelle orbite non vi è che il buio del nulla. L’esperienza della medusa mostra al mortale la verità da cui l’essere umano fugge: il limite ontologico della morte. Chi non sfugge dal capitalismo diventa di “sale”. Il suo corpo vissuto diventa incapace di sentire l’alterità. Lo sguardo ipnotizzato dal capitale si traduce in cecità dello spirito e della ragione. Fugge dallo sguardo mortifero colui che guarda oltre le illusioni e vede il capitale nei suoi letali meccanismi menzogneri. Solo la mediazione del logos può portare fuori il mortale dalla tragedia del nulla. Il logos razionalizza il limite, lo ribalta in progetto e prassi e pertanto lo trasforma e lo ricrea con il concetto, in tal modo le orbite della medusa non annichiliscono il mortale, ma il linguaggio con cui trascende il nulla gli consente di dare una forma al limite, di attribuire al tempo limitato il suo senso, strappandolo dall’angoscia del nulla che tutto fagocita:

”Il volto della Medusa cattura lo sguardo poiché lo isola dal tutto. Nello specchio di Dioniso il dio-fanciullo vedeva riflesso il mondo, qui, nella maschera della Gorgone, è il mortale che è chiamato all’esperienza più radicale di sé. Nello specchio del volto di Medusa l’uomo appare come mortale, facendo affiorare quell’arcaica esperienza del nulla a cui gli uomini ancora non danno i nomi dell’essere e del non essere” [3].

Noi siamo negli occhi della Medusa: il capitalismo che con i suoi processi seduttivi e regressivi ci invitano a vivere come baccanti irrazionali nel nulla dell’attimo da godere senza la ragione oggettiva. L’emancipazione può iniziare solo col pronunciare il nome del male che divora gli umani e i viventi: il capitale con le sue spire e con i suoi tentacoli che mentre accarezzano divorano.

Narciso

Narciso si specchia nelle acque, scambia per corpo ciò che è acqua, ciò che è fugace. L’umanità liquida è già nel mito di Narciso. Colui che è liquido si confonde e fonde, egli non ha forma, è solo un’ ombra che si scioglie nel niente. Narciso inquieta, è lo specchio della nostra intima disperazione. Narciso è il simbolo di un’autonomia impossibile e dell’atomizzazione che impedisce i processi di riconoscimento: ci si conosce nello sguardo dell’alterità e nella relazione concreta che ci rende gradualmente consapevoli della nostro sé rispetto all’altro e delle nostra potenzialità. Si assume la forma nella relazione di riconoscimento di sé mediante l’altro. Senza l’intenzionalità concreta e reale ci si rinchiude in un vortice di autoreferenzialità che porta alla morte e all’alienazione perenne per cui si vive nell’inautentico, si vive la morte di sé, mentre si è in vita. Il capitalismo è seduzione, esso è conquista mediante il vortice dei consumi e della negazione dell’altro. L’alterità è da usare e consumare, ma in tale processo vige l’oblio della propria umanità. Si muore insieme:

”Narciso scambia per un corpo ciò che è acqua (corpus putat esse quod unda est), non si accorge affatto dell’inconsistenza dell’oggetto del suo desiderio (spem sine corpore amat), né tantomeno che l’immagine della sua mira è una proiezione di quel corpo che, all’inizio del mito, si dichiarava interdetto a qualsiasi amante. Così il desiderio, per raggiungere il miraggio di una perfetta autonomia deve chiudersi in una circolarità viziosa, dove l’oggetto desiderato fa tutt’uno con il soggetto desiderante, e ciononostante viene simulato un andamento a spirale che impedisce il riconoscimento a vantaggio della peripezia infinita degli specchi” [4].

Il mito di Narciso è tra di noi, alla relazione con l’altro il sistema liberal sostituisce il desiderio immediato, per cui l’altro dev’essere l’eguale, dev’essere riportato al nostro desiderio per essere cannibalizzato. Il narcisismo è il nulla che entra nel quotidiano e paralizza ogni prassi.

Marx e lo specchio

Le produzioni umane sono specchi, sono possibilità di decodificare il mondo in cui siamo. In ciò che produciamo c’è il segno del soggetto che opera, per cui nell’azione produttiva il soggetto si scopre negato, alienato, costretto ad attività che non rispecchiano la sua essenza. Il passaggio è imprescindibile bisogna passare per le nostre produzioni per scoprire la rete relazionale che ci avvolge e i processi di disintegrazione ed reificazione mediante i quali il soggetto può ritrovare se stesso o perdersi. Guardare il pericolo e scoprirsi minacciati dai processi di cosalizzazione è emancipativo, ma tutto lavora affinché ciò non possa avvenire. Il capitalismo è un immenso processo di reificazione che innerva ogni gesto e parola dei aggiogati allo scopo di rendere impossibile il riconoscimento e la definizione della verità:

”Troviamo questa metafora, alla lettera, nel testo marxiano, ove si legge che le nostra produzioni sarebbero proprio come molti specchi [viele Spiegel], di cui la nostra essenza [ Wesen] di rimando verrebbe illuminata [entgegenleuchtete]. Qui l’essenza specchiata e rispecchiata sul piano degli oggetti mondani che non se ne stanno mai come nature isolate al di fuori della relazione teorico-pratica che istituisce il mondo conduce a un gioco tale la metafora da suggerire un oltrepassamento della parzialità che distingue cosa vera e immagine adeguata […]" [5].

Lo specchio in Marx sono le merci, ogni merce è specchio del plusvalore; il feticismo delle merci in cui l’umanità può alienarsi se non supera la divisione; la scissione, se non strappa la realtà in cui si muove alla naturalizzazione per scoprire che la realtà è posta dal soggetto. Solo il soggetto consapevole può mettere in atto processi di liberazione.

Le gallerie dei passages

L’abbondanza delle merci si specchia nelle gallerie; le passeggiate non sono esperienza per ritrovarsi; nelle gallerie commerciali la merce si riflette ovunque, esse hanno un loro sguardo; mirano il passeggiatore lo avvinghiano con le luci degli specchi, lo avvolgono, gli tolgono il logos e la parola fino ad avere la potenza di ridurlo ad una appendice dell’abbondanza barocca delle merci. L’eccesso trabocca dalle vetrine e rompe ogni limite per dirigersi verso il passeggiatore. La medusa lo guarda, ma non ha gli occhi cavi. Essa si presenta suadente e seduttiva per celare la sua essenza mortifera:

”Le gallerie di specchi dei passages, che cominciano a disorientare il passante con la vertiginosa fila delle loro prospettive di cristallo e con l’incertezza barocca degli spazi delle strade cittadine, che si fanno interni, e degli interni che si aprono alla dimensione urbana, ospitano un doppio movimento per cui le cose, specchiandosi, sembrano possedere uno sguardo e gli sguardi degli occasionali spettatori di queste fantasmagoriche esposizioni di merci, posandosi sulle superfici riflettenti, vengono restituiti, nell’indifferenza, come oggetti accanto ad altri oggetti. Uomini e merci, esseri viventi e cose inanimate, messi in questo modo sullo stesso piano, vengono coinvolti in un movimento progressivo di dissoluzione ontologica che li trasforma, oltre l’intenzionalità degli sguardi, in una uniforme sequenza di sguardi” [6].

Si arredano i locali pubblici in modo da farli apparire abbaglianti, si è così avvinti nel bagliore dell’inganno. Ogni distinzione tra esterno ed interno diviene labile in modo che il passeggiatore sia sempre all’interno di uno spazio fiabesco in cui l’essere ed il nulla, la verità e la menzogna sono indistinguibili.

Lo specchio nelle considerazioni di Benjamin, prepotentemente, ci parla dell’attualità: l’essere umano nella trappola delle merci rischia di essere egli stesso merce e di essere parte dell’indifferenziato. Il regno delle merci è il luogo della quantità; l’essere umano in un mondo di soli merci diviene parte di un tutto da cui non si distingue, precipita tra le merci.

La metafora dello specchio nella sua vitalità significante ci svela il valore della cultura umanistica e la sua autonomia rispetto alla cultura tecno-scientifica, ma specialmente se si vuole vivere in un mondo umano la cultura umanistica è dinamica irrinunciabile dei processi di umanizzazione. Il mito ci insegna a difenderci dalla regressione infantile e dal sonno del logos senza il quale si resta sul limitare dell’umanità. Nessun sistema totalitario, anche il più infiltrante, potrà mai eliminare la natura umana che conserva anche nelle condizioni più estreme capacità di recupero capaci di sorprendere e stupire il dominio. Nessuna notte è per sempre, infatti i punti ottici veritativi possono accendersi in condizioni disperate tale è l’umanità.

[1] Andrea Tagliapietra, La metafora dello specchio, Bollati Boringhieri, 2008 pag. 33.

[2] Ibidem, pag 131

[3] Ibidem, pag. 59

[4] Ibidem, pag. 90

[5] Ibidem, pag. 330

[6] Ibidem. pp. 333-334.


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