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Il giocatore del Voghera

Il giocatore rumeno accusato di stupro Stanislav Bahirov è stato scagionato dalla prova del DNA. Ha lasciato dopo un mese il carcere di San Vittore.

di Salvatore A. Bravo - mercoledì 6 marzo 2024 - 538 letture

Il giocatore rumeno accusato di stupro Stanislav Bahirov è stato scagionato dalla prova del DNA. Ha lasciato dopo un mese il carcere di San Vittore. Il venticinquenne padre di due figli, operaio e giocatore del Voghera ha dichiarato:  “Mi hanno dipinto come un mostro - ma sono innocente”.

Il caso colpisce, in quanto non è stato dato molto spazio nei media alla sua innocenza. Se si tratta di accusare o di ipotizzare reati “specificatamente maschili” le cronache sono generose nei dettagli e nel fornire la rapida notizia che conferma l’immaturità emotiva degli uomini, che non poche volte, si traduce in violenza. Nell’opinione pubblica si è ormai consolidato un diffuso pregiudizio di genere sostenuto dall’ampia pubblicità che viene data a crimini anche semplicemente presunti. Per legge chiunque è innocente fino a sentenza definitiva, ciò malgrado in dispregio a un principio fondamentale giuridico su cui si basa ogni civiltà degna di essere definita tale, pare che gli uomini siano colpevoli per peccato originale e di conseguenza tale atteggiamento diffuso si trasforma nell’automatica mostruosizzazione di uomini accusati di ipotetici reati.

Chiunque commetta violenza dimostrata e conclamata dev’essere punito, ma pregiudizi e un clima sociale da “caccia all’uomo” non possono che favorire forme di parzialità nell’opinione pubblica. Si è creato un corto circuito tra i media e l’opinione pubblica, in quanto il sensazionalismo ha preso il posto della notizia accertata e razionalmente trasmessa. Nel caso specifico di un giovane padre di due figli la “mostruosizzazione” denunciata dal calciatore non può che colpire, in quanto, si può supporre, che certi stigmi sociali non possono che comportare la sofferenza della famiglia e ricadere sui più deboli e fragili. Dovremmo riflettere sulla società dell’informazione che spesso diventa società dello spettacolo che ricerca “mostri” al fine di attrarre i lettori e di schierarsi sempre col politicamente corretto.

Tale atteggiamento rischia di esacerbare un clima di violenza già presente. Se si consolida l’automatico pregiudizio non pensato, come tutti i pregiudizi, uomo-violenza, tale meccanica associazione non può che favorire crimini e violenza, in quanto la violenza contro il “mostro” non è percepita come tale. La caccia al mostro non porta giovamento a nessuno, riesce solo a dividere e a insufflare nel corpo sociale un clima di paura e di irrazionalità.

Tale atteggiamento assomiglia sempre più ad una mediatica scomunica che non può che generare e degenerare in un ciclo di violenze. Tutti dovremmo sentire la necessità di proteggere le vittime e di sostenerle, ma nel contempo si dovrebbe assumere una “rilevante cautela” nell’uso delle parole, le quali non scivolano via come acqua su marmo, ma restano e procurano ferite, i cui costi personali e sociali non sono mai sufficientemente valutabili.

La mercificazione delle parole e il loro uso sofistico dev’essere ribaltato nell’analisi delle stesse, in modo da diventare consapevoli dei processi di mistificazione in cui siamo. Una società democratica e che pone al centro l’essere umano e non certo la notizia-merce deve comunicare con parole adeguate i presunti reati senza generare pregiudizi verso alcuna categoria umana, giacché i reati sono personali e per giustizia si deve dare il giusto risalto a colui o a colei che sono stati pubblicamente accusati e dopo sono stati dichiarati innocenti. Le sofferenze di coloro che sono mostruosizzati non si risolvono con l’innocenza giuridica, ma essi porteranno le cicatrici nell’anima e nella psiche per tutta la loro vita. Su questo dovremmo tutti soffermarci, perché le parole non sono flatus vocis, ma possono salvare o dannare per sempre.


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