Il Kirby di Michela Murgia
Un romanzo che è diario, esperienza. Il Kirby visto da Michela Murgia ne "Il mondo deve sapere".
Un romanzo, una commedia, un’inchiesta. Che diverte, fa tremare e incazzare. Il mondo deve sapere è il diario di un mese in un call center. Per trenta interminabili giorni, l’autrice ha venduto aspirapolvere al telefono a migliaia di casalinghe per la Kirby, una multinazionale americana. Intanto annotava tecniche di persuasione e castighi aziendali, descrivendo un modello lavorativo a metà tra berlusconismo e Scientology. Il mondo deve sapere racconta la precarietà, riuscendo miracolosamente a fare ridere. Fino alle lacrime.
Michela Murgia è nata a Cabras, Oristano, nel 1972. Dopo gli studi teologici è stata webmaster, manager, operatrice in un call center. Questo è il suo primo romanzo.
Da: IsbnEdizioni
cosa è (e cosa non è)
Non è un libro di denuncia.
Non è un libro di sinistra.
Non è un libro di protesta sul precariato.
Non è una sit com sui call center.
Non è un libro per dare addosso alla Kirby.
Non era neanche un libro, in origine. Era il mio blog tematico sul lavoro che facevo.
Certo, se un blog può diventare un libro, può darsi anche che il libro - che non era nessuna di quelle cose elencate - possa poi diventarle tutte. Affidare un testo al lettore è dargli insindacabile diritto di interpretarlo come gli pare e piace.
Per me Il Mondo deve sapere è sempre stato una lettera a Silvia, scritta come gliela avrei raccontata se l’avessi avuta davanti, su quali siano i frutti di un certo modo di pensare la persona, al lavoro o altrove. Alimentare l’equivoco che si tratti di un libro "di sinistra" serve solo ad illudere il 50% degli italiani sul fatto che i libri che parlano di lavoro precario riguardino l’altro 50% della gente.
C’è la denuncia? No, le denunce si fanno ai magistrati con nomi e cognomi, non alle amiche o agli editori. C’è invece il racconto di un mondo che si critica da solo semplicemente esistendo. Se raccontarlo ne mette in luce le assurdità, allora il mio libro è una critica. Se poi c’è la risata, è perchè io amo ridere mentre penso. Pensare a muso duro genera brutte idee, brutte azioni e probabilmente anche brutti libri.
Scegliere di pubblicarlo è stata una delle cose più difficili che ho mai dovuto decidere, perchè scrivere di lavoro dove lavoro non ce n’è non è come scrivere di qualunque altra cosa. E’ una scelta che si paga, tanto più cara quanto più sei vicino alla realtà che racconti. Raccontare quello che ho vissuto in modo sferzante, brutale perchè reale, ha messo in gioco una serie di dinamiche che non ha portato all’aumento del numero dei miei amici. Meno male che quelli che avevo mi sono rimasti.
I miei editori hanno certamente compreso questa tensione quando mi hanno offerto la scelta di pubblicare anonima, ma io non ho accettato, perchè non voglio vergognarmi di raccontare quello che tanti altri non si vergognano di fare. La vera vergogna è che non ci sia abbastanza gente a raccontarla, questa storia silenziosa. Il popolo che parla al telefono per mestiere, fuori dai call center non ha voce alcuna.
Da: MichelaMurgia.Altervista.org
Cronache di una televenditrice a progetto
di Benedetto Vecchi (Il Manifesto)
Un diario di Michela Murgia , dall’inferno di un call-center. Appunti e una bussola per uscire dal deserto della precarietà
Cronaca: Trenta giorni passati davanti a un video con un cornetta tecnologicamente avanzata che consente di parlare ininterrottamente al telefono senza staccare le mani dalla tastiera. Con alle spalle l’occhio scrutatore di una «capetta» che non fa che insultanti e umiliarti di fronte a tutti gli altri.
Non è certo la prima volta che viene pubblicato un «diario» di uno schiavo dei call-center, ma questo di Michela Murgia è scritto con ironia e disincanto, come annuncia l’impegnativo titolo - tt mondo deve sapere (Isbn, pp. 123, euro 10) -, quasi che le sorti del pianeta dipendano, appunto, dalle rivelazioni della protagonista La storia è presto riassunta. Camilla lavora in un call-center di una società che vende un marchingegno multifunzione - dal massaggio all’aspirapolvere - chiamato Kirby. Ogni telefonista riceva una misera paga base a cui si aggiungono tot euro ogni appuntamento strappato, il cui pagamento è però subordinato al fatto che un venditore, chiamato Shark flo squalo) riesca a entrare nella casa del malcapitato. L’impresa è affiliata a una multinazionale yankee con un contratto forse in franchising, il clima dominante è quello della setta: devozione assoluta al prodotto, mentre l’impresa è una comunità che privilegia il merito dei «vincenti», mentre vengono allontanati senza pietà i «perdenti». Ogni telefonista o venditore deve sottostare a continui meeting interni, dove vengono fissati gli obiettivi settimanali e verificata la produttività individuale, mettendo in competizione tutti contro tutti. In questo caso, se l’obbiettivo non è raggiunto si paga pegno (dall’ andare vestiti da donna in un supermercato se sei un maschio al pagare la pizza a tutti). I dipendenti sono tutti dei co.co.pro., che devono superare un rito di iniziazione: vendere i primi Kurby a parenti o strappare i primi appuntamenti alle amiche o agli amici. Il tono del libro è leggero, ma il quadro che emerge ricorda il clima claustrofobico degli sweetshops nel Sud del mondo. Soltanto che siamo in Italia e invece dei vigilantes o dei soldati il comando viene esercitato in un rapporto vis-a-vis e il terrorismo psicologico viene pianificato grazie all’apporto di psicologi anch’essi con un contratto co.co.pro. L’autrice è una giovane cattolica, laureata in teologia, forse una papa-girl, ma questo conta ben poco rispetto al lavoro di denuncia svolto senza nessun vittimismo. C’è, infatti, un passaggio in cui l’autrice scrive a chiare lettere che quando ha firmato il contratto sapeva bene cosa sarebbe andata a fare e quale era il clima che avrebbe trovato nell’impresa. Sapeva inoltre bene che avrebbe turlupinato il prossimo, aiutando a vendere un aggeggio inutile per 3000 euro. Ed è forse per la regola del contrappasso che le telefoniste sono chiamate in questo diario telefucker, cioè persone che ti «fottono» appunto. Ma è altrettanto cosciente che la sua è un’esperienza a tempo, mentre le altre e gli altri devono lavorare come cani per strappare 6-700 euro al mese, n lavoro, infatti, è un girone infernale in cui per resistere devi «fottere» il vicino di video. In questo caso il reddito di cittadinanza sarebbe una misura per garantire un minimo di difesa dall’arbitrio senza scomodare l’etica del lavoro, la piena occupazione o i sacri testi di Karl Marx. Insomma, un piccolo, ma sicuramente utile pamphlet contro la precarietà e gli attuali rapporti sociali di produzione. In primo luogo, la flessibilità e la precarietà sono le regole dominanti. E poco importa se il tempo indeterminato rappresenti la maggioranza della forza-lavoro: la precarietà, in questo caso, serve per governare il mercato del lavoro e creare il clima per modificare i rapporti di forza tra capitale e forza-lavoro. E poi: per chi ancora crede alla favola della piena occupazione, benvenuti nel deserto del «pieno impiego», dove l’intermittenza tra lavoro e non lavoro consente - come d’altronde già capita da decenni negli Stati Uniti - di definire occupato anche chi lavora part-time per due, tre giorni a settimana. E infine: quali sono le caratteristiche principali nell’erogazione della forza-lavoro? Capacità relazionali, attitudine al lavoro di gruppo e messa al lavoro di ciò che un decano della sociologia americana (RobertPutnam) chiama, chissà perché, capitale sociale dei singoli. Senza contare che il punto di forza della multinazionale del Kirby sarà anche il clima da setta, ma quello che conta davvero per esercitare il controllo del ciclo produttivo e della vendita della sua «creatura» è un’attenta politica del marchio, o meglio del logo. Dunque, sì, il mondo deve sapere, ma in primo luogo per conoscere davvero la realtà del precariato devono essere loro, i precari, a raccontarla Come d’altronde fa in questo diario Michela Murgia.
Da: Il Manifesto, in: IsbnEdizioni
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