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Il Bel Paese

Il turismo internazionale, qui nel Bel Paese, sta andando a rotoli. Ci si chiede perché tedeschi, americani e compagnia bella disdegnino da qualche tempo lo stivale e preferiscano ammollarsi i piedi in qualche altro lido...

di lugiamp - martedì 5 settembre 2006 - 3776 letture

Il turismo internazionale, qui nel Bel Paese, sta andando a rotoli. Ci si chiede perché tedeschi, americani e compagnia bella disdegnino da qualche tempo lo stivale e preferiscano ammollarsi i piedi in qualche altro lido, spagnolo, croato o caraibico che sia. Qualcuno dice che è colpa dei prezzi. Qualcun’altro se la prende con i disservizi, con l’indolenza dell’italiota medio e le sue incompetenze. Io non so di chi sia la colpa, ma so che hanno la sacrosanta ragione. Voglio raccontarvi una storiella accadutami giusto ieri, si tratta di un ritorno - incubo dalla Sardegna, dove mi trovavo in vacanza. Vi assicuro, e sarei disposto anche a giurarlo, che quanto mi appresto a raccontarvi è realmente accaduto.

Il ritono a casa è iniziato con le due ore di macchina necessarie per arrivare fino ad Olbia. Sono insieme a Mami, una ragazza cubana che si imbarcherà sul traghetto con me, direzione Civitavecchia. Appena arrivati all’imbarco Mami viene fermata dal controllore. Il suo biglietto non è valido, sembra che sia stata truffata dall’agenzia turistica che le ha venduto il biglietto. Lei, furiosa, si reca alla bigliettera portuale, spende di nuovo i suoi soldi e finalmente ci imbarchiamo.

La nave parte con mezz’ora di ritardo. A bordo non c’è posto, il traghetto vomita gente da tutte le parti. Ci accomodiamo, come tanti altri, allungandoci alla bell’è meglio sulla moquette del ponte. Io mi addormento quasi subito. Arriviamo a Civitavecchia verso le 20.30, fuori è già buio. Ci ammassiamo - saremo cinquecento persone - davanti ai portoni, pronti per lo sbarco. Ma qualcosa non funziona, nessuno apre le porte. In poco tempo l’aria nel ponte diventa irrespirabile, manca l’ossigeno ed è davvero caldo. Qualcuno si sente male, i bambini piangono. Altri si insultano, si litigano uno spazio che non c’è. Io leggo, per rilassarmi. Sudo copiosamente, è chiaro che non sarà possibile resistere altri dieci minuti in quelle condizioni, soprattutto per i bambini, ce ne sono a centinaia. Una voce gracchiante, incomprensibile esce da un megafono. E’ il segnale, stanno per aprire le porte.

La gente appaude, sfinita. Scendiamo tra la ressa, perdo il contatto con Mami. Vorrei salutarla ma la navetta gratuita per la stazione è in partenza e non posso aspettare ancora. Guardo le luci del porto allontanarsi. Le macchine hanno formato un gorgo pazzesco di luci e clacson. La navetta gratuita per la stazione in realtà si ferma ad un chilometro dalla stazione stessa, per uno strano sadismo del conduttore del bus che tutt’ora non riesco a capire. Scendo e comincio a correre verso la stazione, con valigia e zaino al seguito. E’ tardissimo, forse ho già perso il treno per Roma Termini. Arrivo trafelato. Il treno è partito 2 minuti prima. Mi siedo, vicino a un gruppo di punkabbestia assonnati. Asciugo come posso il sudore, sono zuppo dalla testa ai piedi. Una voce annuncia l’arrivo imminente del treno per Roma Termini. Stavolta il ritardo di quindici minuti m’ha tolto le castagne dal fuoco. Sorrido, finalmente un pò di fortuna. Il cane dei punkabbestia cerca di fregarmi le Converse ma son talmente contento che lo lascio fare. L’ora di treno fino a Termini scorre via liscia.

L’Intercity per Foligno è già al binario 6 della stazione Termini ed io ne approfitto per sedermi subito e riposare un pò. Il treno non parte in orario, sembra ci sia una carrozza rotta che va sostituita. Dobbiamo fare una manovra, sganciarla per poi cambiare binario. Va bene. Il treno sferraglia un pò, la stazione si allontana. All’improvviso la carrozza in cui mi trovo si riempie di un fumo acre, denso, un fumo nero che irrita gli occhi e rende la respirazione impossibile. Tutti si mettono a gridare, io corro verso la portiera del vagone, cerco di forzarla ma è stata bloccata dall’esterno per effettuare la manovra. Ho paura. Ricordo d’aver gridato “aiuto” più volte. Apriamo i finestrini, solo pochi si aprono, gli altri sono bloccati. Mi affaccio. Sotto al vagone, in prossimità della coda, ci sono delle fiamme che stanno crescendo, oramai avviluppano la carrozza. Arriva qualcuno con un estintore, dopo vari tentativi spegne il piccolo incendio. Ci tirano fuori. Siamo in mezzo ai binari, sparsi qua e là, a duecento metri dalla stazione. Potrebbe passare benissimo un treno e segarci in due. Rimaniamo in attesa di istruzioni per un’ora e mezza. Nessuno sa niente, nessuno ci dice cosa fare.

Non possiamo andare a piedi verso la stazione, è troppo rischioso. Secondo gli addetti dovremmo rimanere all’interno della carrozza, ma l’aria è irrespirabile. Dopo un tempo indefinito arriva un trattore sul binario accanto. Ci sorpassa, fa un piccolo scarto e viene verso la nostra carrozza. Ci riporta alla stazione. Gli impiegati delle Fs se la vedono brutta. Sono circondati da un centinaio di persone inferocite per l’accaduto. Vola qualche insulto, qualche spintone. Il capotreno non sa più a che santo votarsi. Ci dicono che allestiranno degli autobus per riportarci a casa. L’altoparlante ci dà istruzioni, dobbiamo aspettare nel piazzale antistante la stazione. Usciamo. Formiamo due gruppi, uno per quelli diretti a Terni, l’altro per Foligno.

C’è una ragazza straniera nel nostro gruppo che sta visibilmente male, sembra preda di terribili convulsioni. La fanno accomodare sui gradini di un bus, cercano di calmarla ma non c’è verso, piange ed è terrorizzata da chiunque le si faccia accanto per aiutarla. Attacco di panico o crisi isterica, non so. Trema come una foglia. Ci guarda come se fossimo un branco di lupi pronti a sbranarla. Qualcuno cerca di farla bere, niente da fare, chiamiamo un’ambulanza. Venti minuti. Fortuna che siamo a Roma. La ragazza nel frattempo è peggiorata, è fuori di sè. Gli infermieri la tirano su di peso nell’ambulanza. Io vado a prendere un bicchiere d’acqua, accompagnato da un ragazzo macedone che ho conosciuto in treno. Lascio la valigia accanto al mio gruppo, dicendo agli altri passeggeri di fare attenzione al mio bagaglio. Quando torno la valigia non c’è più. Mi sembra di vivere un incubo.

Comincio a correre per il piazzale della stazione come un folle, chiedo a tutti i presenti se hanno visto qualcuno portare via una valigia rossa, di quelle rigide. Una coppia mi dice d’aver visto uno con la valigia andare verso alcuni alberi, a circa duecento metri dal piazzale. Lì è pieno di rtossici, mi dicono. Corro in quella direzione a perdifiato, affiancato dall’amico macedone. Li vediamo, all’opera. Tre o quattro persone si danno da fare con la mia valigia, cercano di scardinare la chiusura a combinazione con un pezzo di ferro. Ci avviciniamo con circospezione. Ho paura, non so se intervenire, poi una sirena lacera l’aria e rompe tutti gli indugi. Sono arrivati i poliziotti, passavano per un controllo e qualcuno li ha avvertiti dell’accaduto.

I tossici fuggono, si dileguano come calamari nell’ombra. Ne rimane solo uno, mingherlino, talmente fatto da non essersi accorto di nulla. Continua a forzare la mia valigia. Poi il tipo ci vede, realizza con qualche difficoltà e cerca di allontanarsi come può, dato che non si regge in piedi. Io non faccio nulla, sono solo stracontento per aver ritrovato la mia roba. Sto già afferrando la valigia per andarmene quando uno degli sbirri arriva di gran carriera, prende il poveraccio per il collo e lo trascina verso di me con forza. Arretro con spavento, la valigia ben salda in mano. Lo sbirro mi fa, con stretto accento romano, mentre scrolla come uno straccetto il malcapitato:

” Aho! Vedi che l’avemo trovato l’infame! Ecchelo, è tutto tuo! Te lo tengo io, cosi je meni mejo!! Se lo voli corcà de botte nun te fà scrupoli, daje! Tu je meni, te autorizzamo noi! Aho! Questo t’ha voluto inculà! Daje, arrempilo de cazzotti!!!”

Gli altri poliziotti assistono alla scena, s’accendono una sigaretta, sorridenti. Trepidano. Lo sbirro continua:

“Aho! mbè? Che te fai porta per culo così? Daje, spaccheje er muso!”

Il poveraccio, quello che m’ha rubato la valigia, mi guarda con occhi da povero cristo, non si regge in piedi, ciondola come se non avesse spina dorsale. Ha paura, le gambe tremano, si piscia addosso. Il suo incarnato è scuro ed i tratti orientali, indiani, forse è cingalese. Penso che potrei essere io al posto suo, se solo non avessi avuto quel pò di fortuna che ho avuto nella vita. Non provo odio nei suoi confronti, solo una gran pietà. Sento di avere gli occhi lucidi allora mi giro, prendo la valigia e me ne vado. I poliziotti rimangono lì con un palmo di naso, delusi e annoiati. Torno al piazzale. Tutti vogliono sapere cos’è successo, come ho fatto a ritrovare il mio bagaglio, ma non ho voglia di parlarne.

Uno mi dice che se fosse stato al mio posto l’avrebbe picchiato, perchè a lui i drogati non fanno pena. Lo ignoro, disgustato. Non dirò più mezza parola per tutto il viaggio di ritorno su quell’autobus maledetto. Faccio giusto amicizia con un ragazzo di Foligno, anche lui indignato per il comportamento dei poliziotti. Parliamo del più e del meno per una mezz’ora, poi ci salutiamo con la promessa di rincontrarci in giro per la città, che in questi giorni è in festa. Forse ho trovato un amico, di sicuro ho perso quel poco di fiducia che mi rimaneva nei confronti delle istituzioni e dell’Italia intera.


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Il Bel Paese
17 settembre 2006, di : adriano

Parlare delle disfunzioni del pubblico servizio è come sparare sulla crocerossa, purtroppo. Quello che mi ha fatto uscire di testa nella mia vacanza ad Otranto è stato l’atteggiamento degli operatori turistici: neanche Monaco è così cara! Una notte in albergo 120 €, una notte in un agriturismo: stanza 3x2,40 con bagno 1x1 costo 80€. Cena alla locale pizzeria su strada (pubblica....) 20€ a cranio. L’anno prossimo vado alle Maldive, ripsarmio di sicuro!! Opps dimenticavo: ero lì dl 30 agosto al 3 settembre, poi sono fuggito per non restare in mutande! adriano
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