Iddu - L’ultimo padrino

Un film di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, con Toni Servillo, Elio Germano, Daniela Marra, Barbora Bobulova, Giuseppe Tantillo (Italia, 2024 - 130 minuti)
Iddu è un film di particolari, piazzati dai due registi con la sagacia degna del miglior perfezionismo maniacale di ispirazione hitchcockiana. Sedersi in sala e farsi trascinare dalla narrazione non basta. Occorre di più. È necessario soffermarsi sui particolari, appunto. Appaiono tra una scena e l’altra come dettagli insignificanti, ma contengono i pezzi di un puzzle che racchiude il messaggio che questo film si è prefissato di lanciare, sin dalle prime scene.
Lo stesso puzzle che con pazienza e concentrazione è distribuito sul tavolo presso il quale Matteo, uno dei protagonisti principali interpretato da Elio Germano, ricompone dentro un tempo fermo e monotono, adombrato da una luce fioca che nasconde il mondo esterno.
In questa immagine di immobilità, quasi un fermo immagine, eccetto quei piccoli pezzi che dalla mano vanno ad unirsi agli altri, domina una pendola. Si ha la sensazione che sia messa lì come uno dei tanti oggetti che compongono l’arredamento di quel rifugio segreto, dentro il quale il latitante custodisce i suoi ricordi e attende un contatto con coloro che, attraverso dei foglietti di carta, i famosi pizzini, lo facciano sentire ancora vivo.
Quella pendola non sta lì per caso, segna un orario sempre uguale, le 2 e 20 che non possiamo credere faccia parte di una distrazione narrativa dei registi. È lì a restituire allo spettatore una metafora da interpretare, che sia un blocco temporale o il bisogno del personaggio Matteo di non soffrire il passare del tempo. Quella metafora ci coinvolge a tal punto che, in una scena più avanti, la frase pronunciata dal protagonista che, rivolgendosi al fantasma del padre, la cui morte e il cui funerale sono raccontati nelle prime sequenze del film, in un sognante colloquio col genitore, "faro illuminante di tutta la sua vita" - altra frase ricorrente durante il film, con stizza gli rimprovererà e gli attribuirà la colpa di essere costretto a una vita da topo rinchiuso nel buio di un appartamento, quel significato figurato diventa una considerazione di fallimento che una scelta di vita, legata alla bramosia di potere, pone questo bizzarro personaggio davanti a una cruda realtà.
Un fallimento non molto dissimile da quello dell’altro personaggio chiave del film, Catello detto "il preside", interpretato da Toni Servillo, così soprannominato per il suo livello culturale. Quest’uomo, uscendo dal carcere dove ha scontato sei anni per i suoi legami con la mafia locale in veste di sindaco, da un’accusa di inutilità, lanciata dalla moglie al suo rientro a casa per la sua indole di collezionare una sfilza infinita di "ex", a simbolo di tanti ruoli interpretati, voluti e pretesi da altri e che, nonostante gli appoggi, non lo hanno portato a raccogliere nulla, sarà scelto dai servizi segreti per imbastire un contatto con il latitante.
Il film di Grassadonia e Piazza è incentrato su messaggi punti di riflessione, che non sono rivolti soltanto allo spettatore che, almeno in parte, conosce questa che non è altro che una delle tante storie sporche del nostro Paese. I destinatari di queste, che osiamo definire allegorie didattiche, spaziano tra chi ha creduto nel proprio ruolo di difensore della giustizia, dietro una divisa da carabiniere votato alle regole e alla antica separazione tra buoni e cattivi, per scoprire poi di non sapere più distinguerli con certezza.
Tra questi, il personaggio Rita, interpretato brillantemente da Daniela Marra che, lo diciamo a gran voce, ci regala un’interpretazione sullo stesso livello dei due attori principali. Determinata e risoluta, Rita cerca un riscatto alla propria vita e carriera da servitrice dello Stato, impegnandosi a fondo per la cattura del latitante, finendo con amarezza a prendere coscienza piano piano di una volontà esterna dal suo credo per la giustizia, che la divisa rappresenta, di un’arrendevole rinuncia e scelta di "necessario" equilibrio dei poteri occulti, indispensabile per il mantenimento di uno status quo infinito nel destino italiano, frutto di compromessi indissolubili.
Quelle allegorie didattiche, però, trovano giustificazione anche per coloro che, in piena sintonia con le scelte di vita del latitante Matteo, hanno affidato il proprio futuro a questa sete di potere, sempre più intensa e incontrollabile che snatura l’essere umano, fino a renderlo completamente insensibile a qualsiasi atrocità si possa commettere in un’esistenza intera vissuta nella criminalità.
Servizi segreti, politici collusi, amici fidati disposti a qualsiasi rischio per proteggere un progetto di potere e annientamento di chiunque ostacoli quell’idea di corruzione mentale che diventa un’assurda lotta di sopravvivenza. Una scelta che trova le sue radici nella storia stessa dell’uomo, come un’altra metafora, pronunciata dal personaggio Matteo, metterà in evidenza come un destino dell’umanità al quale sembra impossibile opporsi.
Iddu è un film da vedere, non solo per quanto ci racconta che, nella sostanza, non può veramente dire nulla di nuovo da quello che le cronache hanno riportato nei decenni di ricostruzioni dei rapporti tra mafie, servizi segreti e Stato, ma per la necessità di bloccare davvero quel fermo immagine su quella pendola, perché se è vero che il film riprende l’eredità intellettuale, sempre attuale, che il messaggio più famoso de Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa ci ha lasciato, ossia "che tutto cambia per non cambiare niente", è obbligo nostro continuare a conservare queste testimonianze, che anche un film può contenere, e trasmetterle alle nuove generazioni.
Segnaliamo, inoltre, un piccolo cameo dell’attore Mauro Bologna, scomparso di recente e che nel film appare in una breve scena.
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