I fratelli Karamazov: "Se Dio è morto, tutto è permesso"
Ne “Il Sipario” Milan Kundera enuncia la regola generale, secondo la quale “la portata esistenziale di un fenomeno sociale si percepisce con la massima intensità non nel momento della sua espansione, ma quando è agli inizi, incomparabilmente più debole di quanto non sarà in futuro” (Milan Kundera, Il Sipario, Adelphi, 2005, pagg. 133 – 134). Solo la prima percezione della nuova realtà fornisce l’impressione più netta, distinta, prima che l’abitudine tolga la consapevolezza dello sguardo originario, perché, sempre secondo Kundera, “il pensiero, di fronte alla ripetizione della realtà, finisce sempre per tacere” (idem, pag. 134).
Così, l’ultimo romanzo di Dostoevskij, “I fratelli Karamazov”, scritto negli anni 1879 – 1880, riflette in maniera lucida la condizione esistenziale dell’uomo moderno, precorrendo la letteratura novecentesca sulla crisi dell’individuo.
L’Illuminismo segna il trionfo della Ragione, spinge il processo di secolarizzazione e di razionalizzazione della modernità verso quello che Max Weber nelle sue opere definisce il “disincanto del mondo”. L’individuo, emancipato dalla ragione, si ritrova padrone di una libertà, il cui esercizio critico si rivolge contro ogni fede tradizionale, avvertita come oscurantismo.
Il primo idolo a farne le spese è l’idea di Dio.
Ne “La Gaia Scienza” (1882) un folle annuncia che “Dio è morto” (passo 125). Nietzsche, contemporaneo di Dostoevskij, spirito profetico come il suo Zarathustra, avverte come con la morte di Dio venga a mancare all’uomo il presupposto fondamentale di un qualsiasi sistema di valori, l’ancoraggio fermo di ogni ordine morale, di ogni visione metafisica. La morte di Dio apre la stagione del nichilismo, in cui tutti i valori si spogliano di assolutezza, rivelano la loro fragile base umana, concedendo spiragli ad un pericoloso relativismo etico.
Ivan Karamazov si fa carico delle implicazioni morali del tramonto della fede nel soprannaturale. Per il personaggio dostoevskijano non è grazie ad una legge naturale che l’amore è stato coltivato dagli uomini, ma semplicemente perché essi hanno creduto nella loro immortalità: se, dunque, nell’uomo cessa la fede nella propria immortalità, “subito si inaridirà in lui non solo l’amore, ma anche qualsiasi forza vitale capace di perpetuare la vita nel mondo” e “allora non ci sarà più niente di immorale, tutto sarà permesso, perfino l’antropofagia”; per il singolo individuo che non creda né in Dio né nella propria immortalità, “la legge morale naturale deve trasformarsi subito nel perfetto opposto dell’antica legge religiosa, e l’egoismo, portato anche fino al delitto, deve essere non solo permesso all’uomo, ma addirittura riconosciuto come la soluzione necessaria, la più ragionevole, e direi la più nobile, nelle sue condizioni” (“I fratelli Karamazov”, Bur Rizzoli I Classici Blu, Terza edizione marzo 2005, traduzione di Pina Maiani e Laura Satta Boschian, pag. 95). È il celebre paradosso passato alla storia nella semplificazione dell’enunciato “Se Dio è morto, tutto è permesso”.
La caduta dell’idea di Dio porta con sé il crollo di un universo morale, costruito attorno ad una divinità legislatrice e giudice, che detta le regole e sanziona le infrazioni, proiettando castighi e premi nell’aldilà. Il nuovo orizzonte nichilistico, chiuso alla dimensione sovrasensibile, offrendo all’uomo l’impunità oltremondana, legittima l’egoistico accaparramento dei beni della vita nella prospettiva di una morte oltre la quale è il nulla. La mortalità senza rimedio diventa la condizione per godere di un’esistenza transeunte al di sopra di ogni regola morale, nell’attimo fuggente del desiderio appagato, ma costituisce soprattutto il preludio ad un discorso nuovo sulla libertà dell’uomo.
Il folle della “Gaia Scienza” di Nietzsche si chiede se la grandezza della morte di Dio non sia troppo grande per gli uomini, se addirittura gli uomini non dovrebbero diventare divinità per essere degni di un simile evento.
Invero, l’umanità che sopravvive alla morte di Dio è posta di fronte all’improbo compito di trovare un nuovo fondamento ai valori umani, ha sulle spalle il peso di una libertà al tempo stesso esaltante e spaventosa. Piuttosto che chiedersi da che cosa si è liberi, diventa vitale interrogarsi per che cosa si è liberi.
“Crearsi la libertà per una nuova creazione” – quella di “creare valori nuovi” - è l’impegno che Nietzsche affida all’uomo nel paragrafo “Delle tre metamorfosi” in “Così parlò Zarathustra” (Adelphi Edizioni, Quattordicesima edizione marzo 1989, versione e appendici M. Montanari, nota introduttiva G. Colli, pagg. 23 – 25).
Ma il dare senso è missione sovrumana e angosciosa, al punto che sarà necessaria la comparsa di un Superuomo, capace di compiere la “trasvalutazione di tutti i valori”.
Ad Oreste è succeduto nel frattempo Amleto. Ne “Il Fu Mattia Pascal” di Pirandello, Anselmo Paleari, appassionato dilettante teosofo, fa risiedere tutta la differenza tra la tragedia antica e la moderna in uno “strappo nel cielo di carta”: quel buco nel cielo, scoperto da Oreste nel momento in cui vendica la morte del padre, lo farebbe diventare Amleto. Oreste poteva compiere sicuro il suo gesto contro Egisto e la madre Clitemnestra perchè confortato da un cielo senza strappi, popolato da dei amici e protettivi. Oreste aveva dalla sua parte una religione e un universo di valori in cui rintracciare la regola di condotta da seguire. Amleto, per contro, inizia a vivere il dramma moderno della umanità liberata ma vittima del dubbio cartesiano, consapevole della relatività di ogni norma.
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