I Viceré di Faenza
"Quando c’erano i Vicerè, i nostri erano Vicerè; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato", è una frase chiave del romanzo, che pur non essendo ripresa nel film, dà comunque il segno della storia.
Odio e potere sono i perni intorno a cui ruota il film I Vicerè di Roberto Faenza, trasposizione filmica della saga scritta da Federico De Roberto e che, mezzo secolo prima di Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo, tracciava, attraverso la storia familiare degli Uzeda, discendenti dei Vicerè di Spagna, un quadro realistico e spiazzante degli intrighi e dei compromessi intorno a cui si compone il vasto affresco dell’Unità d’Italia.
"Quando c’erano i Vicerè, i nostri erano Vicerè; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato", è una frase chiave del romanzo, che pur non essendo ripresa nel film, dà comunque il segno della storia. Una storia feroce che vede il volto del potere e della sopraffazione manifestarsi, prima ancora che nella dimensione sociale, innanzitutto all’interno della cerchia familiare, dove nessun affetto e nessuna pietà riescono a contrastare l’avidità e il cinismo, il valore supremo del "bene del casato", costi quel che costi. Così il padre padrone, il principe Giacomo interpretato con maestria da un Lando Buzzanca tornato ai fasti dei suoi esordi (aveva iniziato da intenso interprete di Pirandello e poi come attore di Germi, Pietrangeli, Lattuada prima di passare alla commedia soft-erotica) procede con indifferenza in un percorso che lascerà una scia di sangue: allontana da casa i figli, trama ai danni del fratello per ampliare il patrimonio, distrugge la vita della devota moglie attratto da nuove nozze, costringe la figlia innamorata del cugino Giovannino a un matrimonio assurdo causando il suicidio del giovane e il suicidio morale della ragazza. Solo alla fine del film apprendiamo che il principe stesso è stato una vittima dell’educazione materna, che lo ha addestrato all’odio, convincendolo che "è l’odio a muovere il mondo, non l’amore".
E’, questo del potere esercitato all’interno della famiglia, un motivo ricorrente in De Roberto; nell’atto unico Il Rosario esso è sviluppato attraverso la figura della madre, la spietata baronessa carceriera e aguzzina delle sue figlie. Ma qui il dramma avveniva nel privato; il microcosmo della famiglia Uzeda è invece immerso nel vasto quadro della storia nel periodo dal 1848 al 1882 (ma nel film il racconto della voce narrante prosegue fino al 1918), un periodo quindi di grandi mutamenti e trasformazioni che tuttavia alla fine non sembrano mutare la sostanza delle cose. Gli ideali risorgimentali e le tensioni etiche finiscono con l’offuscarsi, e si apre la strada ai compromessi , alle abili alchimie , al presentarsi sulla scena di vecchi soggetti politici (nobiltà) o di nuovi e agguerriti rappresentanti del ceto borghese, che, con il loro egoismo e la loro assenza di morale bloccano la storia in "un monotono ripetersi di eventi" dove cambiano solo gli individui che tengono le fila delle cose ma non le cose stesse.
La storia privata e quella corale si fondono nel film senza disturbarsi a vicenda e il regista trova un ammirevole equilibrio nell’accordare personaggi e quadri d’insieme, dando di ognuno una efficace caratterizzazione psicologica , che solo qualche volta rischia l’insidia della macchietta. Particolarmente riuscita la complessa figura di Consalvo, con la sua contraddittorietà tormentata.
Come sempre quando un film riprende un romanzo, iniziano le polemiche su quanto quel romanzo sia stato tradito. Ma a parte l’ovvia considerazione che il linguaggio filmico e quello letterario non possono coincidere, un film ispirato a un romanzo è comunque un’opera nuova, una contaminazione; Roberto Faenza ha semplificato ma non banalizzato, ha cercato non di attualizzare forzando, ma di proporre una tematica che per certi versi risulta ancora attuale.
Certo, "la destra e la sinistra sono uguali" aveva un altro significato detto in quegli anni, prima quindi dei grandi movimenti operai e di altri fenomeni sociali, -anche se non può negarsi che tuttora la diversità dell’idea teorica non sempre si rileva nella pratica dei fatti. Certo,il "Garibaldi che prega" nel comizio di Consalvo che con amaro umorismo mette d’accordo tutto e tutti (in De Roberto è descritto mentre coltiva rose) è un po’ "outré", ma il discorso di fondo e la validità dell’opera rimangono.
Per questo risulta poco comprensibile l’accoglienza fredda e talvolta distruttiva riservata al film da tanta critica, anche quella che talora si "accontenta" rispetto ad opere meno significative; il film è stato escluso dalla Festa del Film di Roma, decisione che ha alimentato in taluno il sospetto che ancora una volta sui Vicerè abbia pesato l’accusa di anticlericalismo; certo le scene della descrizione della vita nel monastero e delle pratiche religiose legate alla superstizione nel film sono pesanti da digerire ma sono comunque bilanciate, a negare il pregiudizio, da personaggi dove la fede è vista nella sua innocenza e autenticità, come ad esempio don Carmelo.
E’ comunque riduttivo vedere il film solo "a una dimensione". I Vicerè oltre al registro realistico/fiction/mélo(che non è necessariamente un demerito) ne contiene uno più metaforico ed euristico; basti pensare all’atmosfera cupa e malata che il film riesce a creare con l’uso delle inquadrature e delle luci; basti pensare alle molte scene in cui i bambini, spettatori innocenti dello squallore e della sopraffazione, spiano non visti-esercitando l’unica loro forma di potere e di controllo-attraverso il gioco di porte appena socchiuse, il buco della serratura, la feritoia di un pavimento sconnesso. Viene in mente la frase ingenerosa di Tomasi di Lampedusa nei confronti di De Roberto, autore a cui egli deve moltissimo essendoglisi ispirato al limite del plagio per ambientazioni e situazioni,(ma mutando completamente il punto di vista: nostalgico e indulgente è Il Gattopardo quanto severo e giudicante I Vicerè):“De Roberto guarda la storia dal buco della serratura”-frase a cui Faenza ha cambiato segno facendone un punto di forza. Costumi, ambientazione, fotografia sono accurati e visivamente avvincenti, tutti straordinariamente bravi gli attori.
Intenso e drammatico, duro e crudele, il film cattura l’attenzione parlando alle emozioni con le vicende personali dei protagonisti, e alla ragione suscitando riflessioni con gli episodi legati alla storia. E lascia dentro un’inquietudine amara ma non rassegnata di fronte alla rappresentazione di una visione del mondo che è ancora quella enunciata dall’Adelchi manzoniano:
"Una feroce forza il mondo possiede e fa nomarsi dritto.../loco a gentile, ad innocente opra non v’è/non resta che far torto o patirlo".
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Film Bellissimo e Impeccabile. Concordo con le osservazioni di Diana.
La figura dello zio religioso e godereccio , è molto simile a Remigio del Nome della Rosa di Eco e comunque è il prodotto di un’educazione inflessibile e crudele che spazza via ogni strada che conduca in un luogo diverso da quello che coincide con l’interesse di un gruppo che voglia rigenerarsi all’infinito, perseverando nell’assurdità di mantenere l’infelicità totale di ogni componente.