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Hanno ammazzato Pietrino Vanacore

L’ex portiere di Via Carlo Poma 2 è con molta probabilità la seconda vittima dell’assassino di Simonetta Cesaroni avvenuto il 7 agosto del 1990.

di Stefania Tiezzi - mercoledì 16 settembre 2020 - 9676 letture

Non è mica vero che in Italia non sappiamo fare le indagini e che per questo molti delitti restano insoluti.

Dicono che la severissima polizia inglese congeli subito la scena del crimine facendo partire le indagini dal movente, mentre in Italia la imbrattiamo tutta tirandoci dentro la suocera, il passante curioso e anche Bobi, cercando come prima cosa l’assassino e poi all’ultimo, solo all’ultimo gli si appioppa il movente.

Dobbiamo dire, piuttosto, che in Italia molti casi non vengono risolti nonostante la comprovata efficienza dei nostri bravi investigatori e delle nostre instancabili Forze dell’Ordine.

La realtà, insomma, è che siamo bravissimi ma anche tanto corrotti e corruttibili.

E allora le indagini si fermano, poi ripartono, poi prendono strane strade e volano verso lidi impossibili, tra processi pasticciati, indagati che non c’entrano un tubo e innocenti in galera che non escono più.

Se il delinquente è un tantino potente, spuntano manine e manone a sottrarre carte, insabbiare prove, far saltar le udienze insieme a termini e scadenze. È un elenco infinito, da Enrico Mattei fino al delitto Gambirasio passando per il Mostro di Firenze fino a Sollecito e Amanda Knox.

Ed ecco che l’innocuo sfigato che ama più le ragazzine del pallone finisce in galera, insieme a due analfabeti buontemponi ma sufficientemente laidi da meritar la gattabuia anche se del freddo calcolo del mostro fiorentino non hanno niente, come nessuna prova inchioda Bossetti, ma ’Giustizia è fatta!" per la povera Yara.

E così accade, per una secolare quanto curiosa deformazione culturale tutta italiana dove l’etica viene ribaltata in nome di interessi clientelari, che la Giustizia preferisca passare da incapace, piuttosto che sacrificare l’illustre colpevole sull’altare della Verità e dover così far saltare alleanze, accordi, sacri patti e protezioni. Non sia mai!

A volte in galera non ci finisce nessuno e il caso diventa ’cold’ con annesso suicidio talmente surreale che forse da corrotti siamo diventati anche un po’ creduloni. Come il suicidio impossibile di Pietrino Vanacore.

Dire Pietrino Vanacore è dire via Poma. Pronunci via Poma e ti appare il fantasma di Vanacore: due nomi ormai miscelati come una soluzione chimica dove non puoi pronunciare il primo senza evocare il secondo, come la bava dei cani di Pavlov al suono del campanello.

E Vanacore di questo soffriva. Sapeva che il suo nome era indissolubilmente legato a quell’orrendo omicidio di una ragazzina di nemmeno 21 anni, Simonetta Cesaroni, avvenuto il 7 agosto del 1990 in una stanza dell’ufficio di via Poma a Roma dove la giovane lavorava per poche mila lire al mese.

Su via Poma c’è una letteratura sterminata tra pubblicazioni cartacee e documentari in rete e chi è digiuno del caso potrà farsi una opinione leggendo le centinaia di articoli navigando qua e là tra un sito e l’altro.

Pietrino Vanacore era il portiere di via Poma all’epoca del tragico delitto.

58 anni, diversi acciacchi, schiena compromessa, movimenti bloccati, emorroidi a tediargli la vita. Sguardo altero, quasi cupo, sopracciglia folte a sottolineare gli intensi occhi azzurri, Pietrino non è un brutto uomo, anzi.

Poche parole, riservato, chiuso, impenetrabile: lo abbiamo visto così il 10 agosto 1990 quando, sospettato del delitto (per l’accusa sarebbe stato respinto dalla ragazza durante un approccio sessuale) o almeno del favoreggiamento, verrà arrestato e trattenuto in carcere per 26 giorni con la vana speranza degli inquirenti che la misura, mai più replicata dal sistema giudiziario italiano, lo induca a confessare la sua colpevolezza, se fosse opera sua la ripulitura del sangue uscito dal corpo della povera Simonetta dilaniato da 29 stilettate, e il nome dell’assassino.

Ma Pietrino non parla e ribadisce di non voler parlare e, con la stessa compostezza con cui si era lasciato ammanettare, lascia il carcere.

L’assassino non è lui: le macchie di sangue rinvenute sulla sua tuta sono dello stesso Vanacore che soffre di emorroidi.

Qualche bugia Pietrino su quel pomeriggio la racconta: le piante innaffiate durante l’ora del delitto che invece risultano belle aride in seguito al controllo e l’alibi traballa.

Non ha mai visto Simonetta, non ha visto nessun estraneo entrare nel portone della Scala B che portava all’ufficio di Simonetta: ma allora che portiere è uno che non vede e non sente?

Nel 1995 cade definitivamente l’accusa di favoreggiamento. È libero ma lo tengono d’occhio. Pietrino lo sa e non ne può più, rivuole la sua serenità ma non la ritroverà più perché da quel giorno comincia a morire anche lui.

Pietrino non ha ammazzato Simonetta ma nella melma ci si è infilato dentro fino al collo quando ne ha scoperto, suo malgrado, il corpo senza vita e da quel maledetto ufficio ha fatto qualche telefonata per allertare i boss dell’Aiag, l’associazione degli ostelli della gioventù per cui Simonetta lavorava, coprendo da quel giorno il vero autore del crimine, rimasto ignoto.

La sua croce comincia a portarla dal quel pomeriggio insieme a quel segreto mentre nelle indagini entra ed esce tutta la fauna umana più imbarazzante come una commedia plautina, con le sue maschere fisse a tipizzare il peggio dell’umanità, dal ruffiano al servo, dal parassita all’untuoso.

E mentre le ombre dei sospetti sembrano lambire tutti tranne l’assassino, il solo a giovarsi di questa commedia, rinviano a giudizio il fidanzato della vittima, colpevole di aver lasciato qualche traccia di un incontro d’amore sul corpetto di Simonetta due sere prima del delitto.

Salgono e scendono tutti dalla giostra delle indagini con deposizioni patetiche, palesemente finte, ostentatamente omertose, sfacciatamente mendaci.

Arriva anche il turno della testimonianza di Vanacore, dal 1995 tornato in Puglia nella sua città natale, Marruggio, attesa per il 12 marzo 2010.

Invece Pietrino non testimonierà mai.

Verrà ritrovato annegato nelle acque del litorale Tarantino di Torre Ovo il 9 marzo, tre giorni prima della sua deposizione: un piede legato ad un albero con una corda, il corpo adagiato in pochi centimetri d’acqua. Due cartelli scritti a caratteri cubitali " 20 anni perseguitati senza nessuna colpa", "20 anni di persecuzioni, sono stanco delle angherie" lasciati ben visibili nella sua auto.

Gli inquirenti si affrettano ad archiviare come suicidio la morte dell’ex portiere, sostenendo che, per permettere la perdita di coscienza e lasciarsi affogare in quei pochi centimetri, si sarebbe stordito ingerendo un anticrittogamico.

La notizia si diffonde subito: "Pietrino Vanacore, il primo indagato del delitto di via Poma, si è suicidato. Non avrebbe retto allo stress della imminente testimonianza" e viene metabolizzata da tutti facendo il giro dei media.

Non rimbalza però con altrettanto zelo la rettifica fatta sei mesi dopo sulle analisi autoptiche: non è vero che Vanacore avesse ingerito un veleno per stordirsi; nel suo stomaco solo un caffè e una zeppola, presa come ogni mattina nel suo bar di fiducia: "Era sereno come al solito", dichiarerà l’amico barista.

Non rimbalza nemmeno che il sostituto procuratore di Taranto Maurizio Carbone avesse ordinato una perizia calligrafica su quei cartelli.

Perché l’acrobatico suicidio non convince e l’assenza di veleno in corpo fa cadere la giustificazione dello stordimento per potersi annegare in così poca acqua. Cadono una dopo l’altra le deboli stampelle che reggono la zoppicante tesi del suicidio.

Della perizia calligrafica non si saprà più nulla, del perché legarsi un piede ad un pino per poi lasciarsi scivolare in acqua, nemmeno. Del come si possa annegare in 60cm senza che nessuno ti prema la faccia in acqua, ancora meno.

Quelle enormi scritte sul cartello che motivano il suicidio per esasperazione sembrano tanto un classico dell’ "excusatio non petita, accusatio manifesta" da parte del suo probabile assassino.

Vanacore non era più indagato, non rischiava nulla, non era più sospettato, ma avrebbe solo reso la sua testimonianza. Perché, dunque, ammazzarsi per un processo dove c’era già un preciso accusato? (Il fidanzato di Simonetta verrà poi assolto definitivamente in Cassazione)

Quello che sappiamo per certo è che il peso di quel segreto custodito da venti anni lo aveva minato nel corpo e nell’anima e appare plausibile l’ipotesi di volersene finalmente liberare durante la testimonianza del 12 marzo.

E forse l’assassino di Simonetta di questo era stato messo a conoscenza da Vanacore, forse tra i due era intercorsa una conversazione per concordare cosa dire e l’ex portiere aveva fatto capire di non poterne più e voler vuotare il sacco.

O, più semplicemente, l’assassino, coperto da Vanacore per vent’anni, ha ritenuto più sicuro toglierselo di mezzo per scongiurare cedimenti e fatali confessioni davanti alla batteria di domande incalzanti di avvocati, giudice e del PM, la rigorosa Ilaria Calò.

Supposizioni audaci? Macché. In una intervista rilasciata nell’agosto 2000 per il quotidiano ’Repubblica’ al giornalista Daniele Mastrogiacomo che lo aveva raggiunto nella casa di Torre Ovo, Vanacore aveva rivelato di avere paura e di attendersi prima o poi la visita dell’assassino che "sa dove vivo".

E la testimonianza da rendere il 12 Marzo 2010 è stata l’occasione per farsi vivo davvero e chiudere i conti con un complice divenuto inaffidabile.

Non è mica vero che in Italia non sappiamo fare le indagini, è che mancano il coraggio e la volontà.

Stefania Tiezzi


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