Gulliermo
"Il dolore è il 4 o il 1 dito del piede", era l’unica cosa che avevo scritto fino a quel momento: due scarpe da tennis e Gulliermo che era morto a 25 km da quella città, la giornata stava finendo e io invece ce l’avevo quasi fatta.
A Gulliermo Watt pellegrino tedesco morto all’età di 69 anni "volato in cielo a Cristo" ad un giorno da Santiago, il 25 agosto 1993. Queste parole sono scritte su una lapide che si incontra camminando verso Pedrouzo, al di sopra sono raffigurate -in una lega di non so quale metallo- due scarpe da tennis, una, se ricordo bene slacciata: una sorta di scultura alla memoria. Incuriosisce e tutti si fermano. Ho scritto il testo allontanandomi una decina di metri, mi vergognavo, era gia così morboso… quel luogo, quella figura e l’immagine che ne scaturiva. "Il dolore è il 4 o il 1 dito del piede", era l’unica cosa che avevo scritto fino a quel momento: due scarpe da tennis e Gulliermo che era morto a 25 km da quella città, la giornata stava finendo e io invece ce l’avevo quasi fatta.
Ieri sera al telefono l’ho chiamata ultima giornata di lavoro ed è stata anche la prima cosa che ho pensato svegliandomi, ci siamo messi in strada col sole che colpiva mezza faccia sfumando nell’oro metà di quello che vedevamo, abbiamo dovuto camminare 8 chilometri prima di poter fare colazione, una salumeria, appena fuori Boente. Già tanti pellegrini in giro e chi non era fuori stava davanti al bancone della salumeria, aspettando che dal retrobottega arrivassero panini con la marmellata e caffé.
Poi abbiamo ripreso a camminare, ma molto lentamente. La testa da giorni ormai, approfittando delle soste aveva cominciato ad andare avanti ed era gia arrivata a Santiago, lasciandosi dietro lo zaino pesante da fare e disfare sempre, i chilometri ancora da macinare. Ed io potevo sentirla, ormai estranea, lì a godersi il meritato riposo, ma quaggiù, mancavano ancora 50 chilometri a Santiago e tutto era diventato più lento: mettere un piede davanti all’altro, il mutare del paesaggio, alzarsi da una sedia. Persino ricordare i nomi, una gran confusione, come si chiamava dove eravamo ieri? In qualche modo si iniziavano a pagare i conti, "oggi è l’ultimo giorno di lavoro" ogni tanto pensavo.
La pausa pranzo, quella si, sembrava essere arrivata velocemente. Il paesaggio era cambiato, Ale era andato avanti e Luigi era rimasto indietro. Il percorso si era isolato dalle strade larghe, le macchine veloci e paesini di faccendieri e ora sbucava su una stradina secondaria che si lasciava racchiudere da bassi muri di pietre, fra rovi e alberi, moltissimi alberi. La strada zigzagava salendo e scendendo da verdi colline e spesso tagliava per la campagna, come tracciata da un ubriaco. Un panorama solitario, ogni tanto una villa, qualche automobile ma ferma, un piccolo bar accanto ad un cimitero ma tutto così tranquillo e perfetto da credere che facessero parte del paesaggio e crescessero lì come ci crescono gli alberi e l’erba.
Scendendo da una collina ho sentito chiamare il mio nome. Alessandro stava seduto in un prato fra querce e pini nani, ho scavalcato il muro di pietre e l’ho raggiunto. Dopo un po’ è passato anche Luigi. Abbiamo aperto gli zaini e tirato fuori il pane e le scatolette, consumando lì il nostro ultimo pranzo sul Cammino.
Ma quello che fa… sta cagando? fa Luigi ad un tratto, guardando dall’altra parte della strada dove uno di quei pellegrini degli "ultimi 100 chilometri" se ne stava acquattato dietro il muro. Ma poi invece passano due ragazze lui si alza di scatto, sale sul muro e fa bu!
Coglione.
Testa di cazzo.
Facc’i minchia.
Le ragazze hanno urlato e riso e ancora spaventate hanno tenuto una mano sul collo, poi tutti e tre insieme si sono riavviati, scendendo giù per la strada fino a sparire.
Dopo pranzo ognuno ha trovato il suo posto sotto un’ombra, sdraiato con la testa sullo zaino sono rimasto fermo a guardarmi intorno dalla stessa altezza di un filo d’erba. Il sole da dietro i rami mi colpiva la bocca con i suoi raggi, oggi caldissimi. Riscaldavano i nostri piedi, sottratti per qualche minuto al buio e alla stretta morsa delle scarpe. Che cosa avevano fatto questi piedi. Un’impresa, roba da non crederci e di cui andare fieri in qualche modo. Alessandro già dormiva. Quando stavo per farlo anch’io qualcosa si è mosso nell’erba facendomi sobbalzare. Ma poi sono tornato a sdraiarmi. "Non mi piace stare senza scarpe ed è meglio se non mi addormento", ricordavo di aver pensato, dopo, quando mi sono svegliato. Luigi non c’era più, Alessandro stava dormendo ancora. Il sole ormai era venuto allo scoperto e mi bruciava la faccia. Ho rimesso le scarpe e richiuso lo zaino, ho salutato Ale che non ha risposto, ho scavalcato il muro di pietre e mi sono avviato giù per la strada finendo anch’io per sparire.
Finite le colline il percorso è tornato a coincidere con la strada nazionale, ormai prossimo ai grandi centri abitati, preannunciati da fabbriche messe in fila una dietro l’altra che parcheggi vuoti, vista l’ormai tarda ora del pomeriggio, facevano apparire ancora più enormi e desolate. Sul percorso vi erano posti dei pannelli in metallo con nomi e nomi incisi sopra, erano tantissimi, appartenenti ad organizzazioni o ordini che fanno riferimento al Camino. Cerco di capirci qualcosa ma non ci riesco e rinuncio, si tratta di qualcosa che a che fare con la fede, la devozione. Sulla strada passano pullman carichi di pellegrini, suonano il clacson verso me e altri, da dentro tutti salutano con la mano, li guardo finire dietro una collina dove li porta una curva, poi guardo in alto e spero di vedere sollevare una nuvola di fumo e fiamme ma non arriva mai e non riesco a vedere nemmeno quello che ci sia dietro quella curva perché il percorso devia nuovamente.
Seguo la via e mi lascio guidare dalle frecce gialle ma decido di accontentare ogni capriccio. In un bar pieno di poster e sciarpe di squadre di calcio prendo un gelato e mi concedo una lunga fumata. Voglio restare il più possibile in strada, oggi non importa arrivare prima, non importa che ci sia o no l’acqua calda, il rifugio farà comunque schifo ma ormai è fatta e conta solo questo. Mi rimetto in marcia e torno a badare alla frecce gialle, solo loro, fanculo le colonnine ogni 500 metri e la distanza mancante: cammino, cammino e cammino fino a quando una pellegrina che mi viene incontro dalla direzione opposta alla mia mi chiede se vado a Pedrouzo. Rispondo di si. Allora lei mi dice che sto sbagliando strada e che lo ho appena superato, poi mi indica la direzione giusta e la strada da fare per arrivare al rifugio.
Una scivola e un prato portano a questo ultimo albergue. Davanti ci sono un centinaio di persone. Cerco le loro facce perché voglio trovarne qualcuna di conosciuta ma non ne trovo nessuna. Sono facce che non ho mai visto, per lo più di ragazzi e ragazze che se ne stanno sdraiati a godersi questo ultimo scampolo di sole prima del tramonto, parlano ridono e non badono a me che vengo da lontano. L’hospitalera non ne sa niente di altri due italiani, mi dice solo che devo considerarmi fortunato se riesce a trovarmi un letto. Il letto lo trovo e trovo anche Alessandro girovagando tra gli stanzoni. Ma manca ancora Luigi, Ale pensa che si sia perso e ne ha parlato anche a due poliziotti. E proprio loro lo trovano 4 chilometri dopo Pedrouzo, anche lui senza accorgersene aveva superato il paese e continuava ad andare come un cavallo scosso. I poliziotti lo hanno rimesso nella direzione giusta, il che ha significato comunque altri 4 chilometri per tornare indietro. Quando è arrivato era completamente stremato ma era tempo di felicitazioni.
Ci siamo stretti in cerchio tutti e tre ripetendoci quanto siamo stati bravi, un siparietto comico che ogni tanto veniva fuori anche nel corso della serata, con pacche, strette di mano. Ci sentivamo semplicemente invincibili, sovrani a quegli estranei che ci stavano intorno, ma anche a tutto quello che ci aspettava domani. Avevamo cominciato dall’inizio e giunti sin lì ognuno pensava d’essere arrivato primo nel proprio cammino ed era felice che gli altri due fossero stati presenti. La parte migliore era finita, quella di domani sarebbe stata una passerella. Avevamo camminato tanto per raggiungere una città che avevamo anche paura di nominare ed io, ora che l’avevo quasi davanti, avevo la sensazione di andarci a sbattere contro, non pareva affatto piacevole. Sarebbe stato bello saltarla e continuare, ma ero contento che fosse quasi finita. Davvero. Tante cose avevo fatto in questo viaggio e altrettante no, soprattutto quelle che mi ero ripromesso, ma il bilancio era da considerarsi ottimo. Per come tentavo di vederla era comunque malinconia che rimbalzava da un versante all’altro.
La mia guida descrive l’ultima notte sul Cammino, come una notte magica, di vigilia e di veglia. Ma a me non sembra diversa dalle altre. Attorno è buio e tutti sembrano dormire, l’aria ha il solito odore pungente di pomata. C’è solo la porta del bagno che sbatte di continuo. Col pensiero per un attimo, chissà come, torno a Gulliermo, a quella lapide … la scultura con le scarpe da ginnastica, il particolare del laccio sciolto, mi viene da ridere, quanto può essere cinica la vita. E che gran comica è. Mi dispiace Gulliermo che tu non ce l’abbia fatta. "Siamo a 20 chilometri da Santiago - Stiamo per andare in vacanza". Questa è l’ultima cosa che scrivo nei miei appunti prima d’addormentarmi.
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