5. Gli italiani

di Sergej - sabato 12 febbraio 2005 - 3622 letture

L’impronta degli architetti italiani a Praha. L’impronta del turista italiano a Praha.

Gli italiani che vengono a Praha, e che comunque escono fuori dai confini italici, si distinguono per l’assoluta incapacità a prendere sul serio le lingue altrui e per il telefonino che si portano appresso come una zattera cui aggrapparsi. Con tale feticcio annullano ciò che li circonda. Esiste solo la rete dei contatti telefonici. Quello che accade loro attorno è indifferente.

Gridano. Gli italiani non parlano al telefonino, ma gridano. Beati della loro assoluta padronanza del mondo e indisturbati. Capaci di gridare per ore al cellulare chiamando il proprio fidanzato, che si trova esattamente accanto a loro e che cammina al loro fianco ovviamente con il telefonino all’orecchio. Essi non chiedono, ma annunciano: "E tu dove sei!". Seguono ore di discussione attorno a questo "dove sei" finché i due non si sbattono contro, incocciandosi.

Eravamo una sera sotto il Narodni divadlo, il Teatro Nazionale. Davanti a noi la Narodni deserta, silenziosa. Anche i rari trami scivolavano in punta di piedi. E sentiamo una voce roboante. Un napoletano giulivo. Pensiamo a una guida turistica dotata di megafoni, che spiegava a un folto gruppo le bellezze architettoniche circostanti. Cerchiamo di individuare questo folto gruppo e questa conseguente guida con megafono. E invece era solo un singolo, un napoletano che parlava al telefonino in fondo alla Narodni. Lontanissimo. Ma gridava così forte da sembrarci a pochi metri.

Il terzo giorno di permanenza a Praha, il nostro albergo fino ad allora tranquillissimo, ha rischiato di diventare un inferno. Sono arrivati una turba di italiani. Diverse famigliole, accrocchiate da una qualche agenzia charter: cinquantenni e sessantenni in massima parte, qualche sparuto ragazzo con capelli pieni di gel e auricolari al posto delle orecchie. Appena arrivati nella hall dell’albergo, hanno sommerso tutto. Caotici, pieni di bagagli borse borsine sacchi di plastica. La capacità di riempire ogni angolo, intasare tutto lo spazio disponibile. Chiamandosi l’uno con l’altro, impauriti di perdersi in mezzo alla baraonda d loro stessi creata. Gli italiani parlano tutti contemporaneamente e a voce alta, si salutano gridando. Anche se si sono lasciati pochi minuti prima, quando si rincotrano sembra che siano passati secoli dall’ultima volta. Si esaltano, Gridano dei loro casi personali e intimi annunciandoli al mondo. Tornando la sera in albergo, intasavano ancora la reception. Impossibile entrare perché la porta d’ingresso era occupata da loro. Uno di questi, in mezzo a urli e grida, cantava a squarciagola.

Gli italiani all’estero fanno questo, tutto questo. E a differenza di altre razze o popoli o entità aliene, lo fanno da sobri. Senza aver bevuto.

Seduti su uno spiazzo vicino la Petrinska Rozhledna, vediamo un bambino in piedi vicino a una siepe che piange. Ha in mano qualcosa, un giocattolo o un dolce. Da dove siamo non si comprende il motivo del pianto. Piange come farebbe qualsiasi bambino a questo mondo. I capelli biondi corti, maglietta rossa a maniche corte, pantaloncini corti. Due donne vicine armeggiano con una carrozzina.

A questo punto scattano le differenze.

Un bambino italiano piange con molta più veemenza e strepito. Si butta a terra. Si avvinghia al padre o alla madre. Elabora strategie dell’attenzione che risultano immediatamente efficaci. Le sue capacità di urlo sono tali da rintronare interi quartieri, rendere intollerabile l’inquinamento acustico già molto alto delle città italiche. Non sarebbe rimasto da solo in disparte a piagnucolare.

Andiamo alle due donne, impegnate a badare al bambino nella carrozzella. Una cosa inimmaginabile in Italia. Una madre italiana, in compagnia di un’amica o una parente - sono sempre in compagnia di un’amica o una parente, non vanno mai da sole quando debbono portarsi appresso i propri bambini - non darebbe mai la sua attenzione al proprio figlio o figlia. Una vera madre italica si mette a parlare con l’amica o con la parente. Può cadere il mondo, la sua capacità di concentrazione è inamovibile. E’ l’amica, tramite smorfie, e altri segni di comunicazione non verbale, che distrae la madre dai suoi racconti. La madre così si accorge che l’urlo del flgio sta disturbando l’attenzione dell’amica. A questo punto urla anche lei. Il pargolo risponde urlando a squarciagola. La madre minaccia. Lo strattona. Gli promette giocattoli gelati e ritorni a casa. L’amica a questo punto sarebbe intervenuta gridando ipocritamente che poverino lui non ha colpa - un italiano impara fin da piccolo a non avere colpe di nulla - e giù consigli non richiesti su come fare per calmare il bimbo. La madre prende il bimbo urlante, lo agguanta stringendoselo per proteggerlo dalle mire pericolose dell’altra. Quella cosa lì è sua, come si permette quella di dirgli come deve fare. Alla fine, prima che attorno a loro si coalizzi una folla inferocita, la decisione di trascinare via il bimbo urlante.

Niente di tutto questo con il bimbo ceko che, dopo qualche minuto di pianto contenuto, smette volontariamente per cui torna il silenzio tra gli alberi, le api agostane e il ronfo dei turisti di Praha.


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