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Giuseppe "Pippo" Fava giornalista

Fava era stato costretto ad allontanarsi da un’avventura giornalistica che aveva cercato, di fatto riuscendovi, di ribadire come fosse menzognero e illusorio ritenere Catania una realtà esente dalla mafia, alla pari del resto della Sicilia orientale.

di francoplat - mercoledì 17 gennaio 2024 - 783 letture

Quando, il 5 gennaio 1984, ormai quarant’anni fa, cinque colpi di pistola strappavano Giuseppe “Pippo” Fava alla vita e al giornalismo etico – come si dirà più avanti – ci si trovava in uno dei momenti più caldi della vicenda mafiosa siciliana. Da anni ormai, era chiaro a tanti che gli omicidi eccellenti, da Mattarella a Costa, da Chinnici a Dalla Chiesa, da Pio La Torre a Impastato, da Boris Giuliano a Ciaccio Montalto, e via discorrendo, rivelavano non solo il volto spietato dell’organizzazione criminale locale, ma anche, e soprattutto, che la «mafia è dovunque, in tutta la società italiana, a Palermo e Catania, come a Milano, Napoli o Roma, annidata in tutte le strutture come un inguaribile cancro, per cui l’ordine di uccidere Dalla Chiesa può essere partito da un piccolo bunker mafioso di Catania, o da una delle imperscrutabili stanze politiche della capitale».

Così, lo stesso Pippo Fava vergava nell’editoriale che apriva la sua nuova avventura giornalistica, “I Siciliani” (gennaio 1983), dopo la sua forzata esclusione dal “Giornale del Sud”, testata che aveva diretto dalla primavera 1980 all’autunno dell’anno successivo, con grande successo, ma con una sostanziale divergenza rispetto agli intendimenti della proprietà. Quantomeno se si fa riferimento a quella proprietà parallela a quella ufficiale rappresentata da uno dei cavalieri del lavoro di Catania e da due politici, un democristiano e un socialdemocratico, per i quali la rivista avrebbe dovuto rappresentare uno strumento efficace in vista delle elezioni del 1981 e Fava una penna prestigiosa da tenere sotto controllo. Di fatto, Pippo Fava non era un intellettuale comodo, come dimostrò sin dall’articolo di apertura del “Giornale del Sud”, nel quale precisava che il suo giornalismo pensava al popolo come l’insieme di coloro i quali «per difetto di nascita o malizia della società patiscono dolore e violenza», alla giustizia come qualcosa «fatta da coloro che hanno il potere e dunque fanno sempre la legge secondo il loro interesse» e, infine, alla verità come una realtà «nascosta fra le cento pieghe ostili della società, camuffata in mille modi, deformata da una infinità di interessi, menzogne, corruzioni» (“Con amore collera e speranza”, 4 giugno 1980).

Fava era stato costretto ad allontanarsi da un’avventura giornalistica che aveva cercato, di fatto riuscendovi, di ribadire come fosse menzognero e illusorio ritenere Catania una realtà esente dalla mafia, alla pari del resto della Sicilia orientale. Nell’agosto 1980, con quella straordinaria vena ironica che sosteneva la sua arguzia giornalistica e la sua chiarezza argomentativa, a proposito della presunta immunità di Catania dalla mafia, scriveva: «praticamente si verrebbe a determinare questo incredibile fenomeno storico; che la mafia, capace di stravolgere, corrompere, insanguinare tutte le grandi città del mondo da New York a Milano, da Los Angeles a Marsiglia e Napoli, arrivata sulla sponda sassosa del fiume Imera, lungo la vallata fra Caltanissetta ed Enna, si ferma. Continuamente e vittoriosamente respinta dalla incoercibile onestà di siracusani, ragusani, messinesi, capitanati intrepidamente da quei fior di galantuomini che da sempre furono i catanesi» (“Chi ha detto che a Catania non c’è mafia?”).

Da queste citazioni, appare evidente come alla sua intelligenza fossero chiari tutti i meccanismi che, prima di allora e ancora oggi, rendevano e rendono le mafie un personaggio ineludibile della vicenda del potere in questo Paese, ossia i loro inossidabili rapporti con i salotti buoni della politica, dell’economia, della cultura stessa. La cultura addomesticata, s’intende. Perché questo intellettuale poco abituato alle manette mentali, poco disposto al silenzio o alla parola prezzolata, coglieva lucidamente quali sguardi si appuntassero sulle sue esperienze editoriali, quali riprovazioni e condanne, quale scetticismo. «La gente è convinta che ci debba essere sempre un padrone da qualche parte, per qualsiasi cosa. Figurati un giornale in Sicilia! […] Se menzioni la parola cultura sei addirittura perduto […]; cosa diavolo è questa cultura, chi ha mai stabilito che un giornale debba fare cultura? Un giornale deve avere anzitutto un padrone che è soltanto colui il quale mette i soldi, cupo, avido, ignorante, infallibilmente disonesto, finanzia un giornale solo per garantirsi le sue malandrinerie e commetterne altre più ignobili. Con i soldi si può comperare tutto: non si capisce perché con i soldi si possano comprare amicizie di politici, complicità di dirigenti, acquiescenza di ministri, e non anche la coscienza di un giornalista» (“Il giornale, la giustizia, la libertà e gli imbecilli”, 26 settembre 1980).

Eppure e a dispetto della sua stessa esperienza drasticamente recisa al “Giornale del Sud”, ci credeva nel giornalismo libero e militante, nel giornalismo “etico”, come egli stesso ebbe a scrivere nell’ultimo suo articolo sul “Giornale del Sud” (“Lo spirito di un giornale”, 11 ottobre 1981). È un articolo noto, nel quale l’autore sottolinea come, a suo giudizio, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società, di una società che voglia dirsi democratica e libera, perché il giornalismo etico «impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo».

A mano a mano che le sue parole tornano a galla e che volutamente sono così largamente riprodotte in questo scritto, l’attività intellettuale di Fava – uomo di cultura a tutto tondo, non solo giornalista militante, ma scrittore, drammaturgo, sceneggiatore, saggista, pittore – si delinea in tutta la sua potente capacità analitica e, come spesso accade, in tutto il suo visionario idealismo quasi donchisciottesco. Non può non esserci una certa dose di follia in chi non accetta il disincanto della rozza legge della società che Fava stesso aveva colto in tutta la sua tenace violenza, quella del denaro e del potere, quella della sopraffazione e dell’ipocrisia, quella grottesca e infame in base alla quale, come disse a Biagi nell’ultima sua intervista del 28 dicembre 1983, «molto spesso gli assassini [delle personalità eccellenti] erano sul palco delle autorità».

Quando, con una narrazione icastica e non priva di una vena comica e sbeffeggiante, aveva inchiodato i “quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, i quattro cavalieri del lavoro catanesi (Costanzo, Rendo, Finocchiaro e Graci), sulla croce di un articolo potente per l’analisi dei meccanismi politico-mafiosi, imprenditoriali, bancari, non aveva omesso di sottolineare che, «ancora oggi, negli anni ottanta, al vertice di ogni livello di mafia stia immobile e inalterabile una parte del potere politico. Il potere politico che è misterioso sempre e mai perfettamente identificabile; spesso nemmeno perseguibile dalla giustizia, che nelle mani tutti gli strumenti positivi e negativi della potenza: dovrebbe proteggere ecologicamente un territorio e invece lo abbandona alla morte chimica o alla speculazione selvaggia; […] dovrebbe emarginare gli uomini corrotti, ignoranti, violenti e viceversa li induce talvolta in Parlamento e gli affida gli uffici ministeriali onnipotenti; dovrebbe garantire la regolarità dei concorsi pubblici e invece assedia le commissioni d’esami con raccomandazioni e violenze morali; […] dovrebbe smantellare determinati uffici di Procura e invece li abbandona nelle mani di giudici inerti» (“I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, gennaio 1983).

Come può non appare simile, Giuseppe “Pippo” Fava, al folle hidalgo don Chisciotte? Lui, che aveva sottolineato, in quello stesso articolo, la debolezza del generale Dalla Chiesa, ossia aver lottato apertamente contro un avversario larvato, sotterraneo, «un gelido, sinistro groviglio di serpenti che potevano essere dovunque, in ogni momento, sotto i suoi piedi, che potevano sedere accanto a lui sul palco di una festa nazionale, stringergli la mano, fargli auguri e congratulazioni» e, poi, accompagnarlo con una lacrima posticcia al suo funerale; bene, come poteva pensare che la sua stessa lotta aperta, non paludata, la sua esigenza di una verità che non arrivava sul tavolo della scrivania, ma andava stanata, cercata, inseguita, potesse non costargli la vita? Lo sapeva, sicuramente lo sapeva. Tuttavia, questa consapevolezza andava bilanciata con un contrappeso etico: «un giornalista incapace – per vigliaccheria o calcolo – della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare […]. Il suo stesso fallimento».

Così scrisse nel sopra richiamato articolo sullo “spirito di un giornale” e, così come impose a sé stesso una forma di coerenza morale che agli occhi dei più deboli o violenti è follia, chiese ai suoi stessi concittadini e corregionali di crescere e maturare culturalmente, di non accettare più l’idea, ingannevole, di essere stati colonizzati: «non è vero che siano stati gli altri (l’abominevole continente) a riduci in coloni. Questo è il vecchio e ignobile inganno che noi proponiamo a noi stessi […] per giustificare quello che non si è fatto mai». Le dighe non costruite, l’agricoltura riarsa, i programmi industriali falliti, i paesi senza acqua, senza scuole, senza ospedali e fogni, «i quartieri fetidi dove i bambini vivono come topi». Un richiamo etico, un richiamo alla responsabilità, perché accanto all’avidità e all’imbecillità, ai suoi occhi, campeggiava un altro male: «c’è la strafottenza politica di noi siciliani, popolo, siciliano intendo, cinque milioni di esseri umani che continuano a delegare il loro destino ai meno capaci. Cioè cinque milioni di esseri umani intelligenti (come sono tentato qui di citare Verga, Pirandello, Brancati, Quasimodo, Sciascia, ma mi taglierei la mano pur di non cadere nella trappola) i quali potrebbero essere al centro della civiltà mediterranea e non riescono nemmeno a organizzare il loro destino».

Quant’era scomodo, questo intellettuale. Né poteva essere diversamente, né poteva pretendere di nuotare nella verità evitando la risacca delle ondate puteolente, quelle meno accettabili, a partire dal riconoscimento delle responsabilità individuali e collettive nella vicenda del potere criminale e del potere tout court della sua Sicilia. Che, a dirla tutta, sono le stesse responsabilità del Paese Italia, perché, com’egli stesso aveva osservato, la storia delle miserie siciliane era ed è la storia delle miserie nazionali: «quello che accade nel Meridione e in Sicilia, il bene e il male, la paura, il dolore, la povertà, la violenza, la bellezza, la cultura, la speranza, i sogni, appartiene a tutta la Nazione» (“I Siciliani perché”, gennaio 1983).

Un suo noto amico e collega, Riccardo Orioles, ha detto che Fava «sapeva descrivere come nessun altro al mondo, puntava la luce sulla normalità». È la qualità dei giornalisti di vaglia, riportare la realtà laddove qualcuno intende tenerla fuori, manometterla, deformarla, strumentalizzarla, nebulizzarla, offuscarla, censurarla. Oggi più che mai la lezione di Fava sarebbe opportuna. Perché alle tradizionali millanterie del potere, alle sue millenarie distorsioni propagandistiche, si accompagna una strumentazione tecnologica capace di affossare per sempre il confine, già incerto, tra verità e menzogna e con lo stesso fine. Provo a immaginare Pippo Fava alle prese con le fake news, con i telegiornali paludati, unificati, con il giornalismo copia e incolla, con le coscienze ovattate e chiuse nel guscio di un certo agio non privo di scotti, con le mafie silenti e i proclami sgraziati e falsi della loro sconfitta, con i nuovi poveri e i divari crescenti tra Paperoni e figli della serva, con l’arroganza ignorante del potere, con la democrazia svuotata di significato, con il perdurante mantra della superiorità dell’Occidente – proprio mentre sta tirando le cuoia – e la paura collettiva che ci rende famelici e opportunisti.

Penso a Fava e mi domando cosa chiederebbe oggi al Paese, a quei connazionali che il potere non lo controllano, semmai lo blandiscono o subiscono. Francamente, non lo so, non so cosa chiederebbe o cosa direbbe. Credo, però, che, guardando all’oggi, trarrebbe conforto dal fatto di essere vissuto in un’età spietata, ma non priva di utopie, di fiducia dialettica e non banalmente ottimistica nel futuro. Lui, Giuseppe Pippo Fava, il futuro era ancora in grado di immaginarlo, perché non disperava del presente, per quanto ne aborrisse tanti aspetti. Per certo, la sua funzione, Fava, l’ha svolta sino in fondo, senza risparmiarsi nulla, la verità e lo schianto che quella verità, a volte, porta con sé. Tra i frutti della sua lezione vi è questa stessa rivista, “Girodivite”, nata nel 1994 come supplemento a “I Siciliani”. Per tale ragione, scrivere di Giuseppe Fava chiede che lo si faccia con grande rispetto, in punta di penna, cercando di evitare la melensaggine celebrativa, gli orpelli retorici, le parole che non siano sostenute dalla consapevolezza che animava quell’uomo, ossia che, anche noi come lui, «viviamo in un paese sporcato dal sangue, dalla imbecillità e dalla violenza del potere» (“Con amore collera e speranza”, 4 giugno 1980).


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