Sei all'interno di >> :.: Dossier | Pippo Fava |

Giuseppe Fava, 25 anni dopo

Sono trascorsi 25 anni dall’assassinio di Giuseppe Fava.

di Giuseppe Tramontana - lunedì 5 gennaio 2009 - 21508 letture

Se vi è luogo sulla terra,
che rappresenti la desolazione,
lo sterminio, l’inferno stesso,
esso trovasi nelle vicinanze di Catania.

(J. H. barone di Riedesel)


A Catania non fa mai troppo freddo. Dieci-dodici gradi anche a dicembre, anche a gennaio. Anche quando piove. Non ci si intirizzisce come al Nord, come in montagna. Ed i pensieri non si lasciano rinsecchire in stalattiti pendenti dal fondo della scatola cranica. Anche in inverno, a Catania, la brezza marina alita lieve sulla città, sulle sue strade formicolanti assediate di auto, sulle sue chiese barocche scolpite nell’aria, sulle case in stile liberty decorate di palme o sui miserandi quartieri delle periferie offese e dolenti. Una brezza dolce-salata, carica di umori ed odori, odori di mare, di putredine, di infinito ludibrio. Non serve vestirsi pesante, in quelle sere. Basta un giubbotto, una giacca. E una speranza di felicità. Ed il 5 gennaio 1984 una speranza di felicità ce l’aveva Giuseppe Fava, lo scrittore dalla penna acuminata, il giornalista coraggioso, il drammaturgo che aveva messo a soqquadro una città. Aveva attraversato la città sotto un cielo piovigginoso per andare a prendere la nipotina all’uscita dalla recita di Pensaci, Giacomino! di Pirandello al Teatro Verga. Come racconta il figlio, erano già alcuni giorni che lo faceva. Si sa, sotto Natale, le recite dei bambini fanno parte anch’esse della tradizioni. Qualche minuto prima delle 22, si trovava in via dello Stadio Cibali (oggi Via Giuseppe Fava, mentre lo Stadio, ora, si chiama Angelo Massimino). Un commando mafioso lo attendeva. Un killer gli sparò a bruciapelo cinque colpi di pistola 7,65 alla nuca. Alla nuca. Neanche il coraggio di guardarlo negli occhi.

L’Italia tradizionalmente non è terra di intellettuali scomodi. Di intellettuali impegnati sul terreno civile, di quelli che denunciano fatti e persone, corrotti e corruttori, mandanti e galoppini. E soprattutto che si calano nella realtà, tra le miserie quotidiane della gente, che non si limitano a guardare gli uomini e le donne come batteri in vitro, ma che palpitano, partecipano alle loro sofferenze, alle loro disgrazie, scossi da sentimenti di umana pietà. Pasolini fu uno di questi. Come finì? Ammazzato. E Fava fu un altro. Ammazzato, anche lui. Ed a Pasolini si può accostarlo per poliedricità intellettuale e capacità di essere “coscienza civile”. Per la forza stentorea della propria denuncia e per la lucidità – a tratti quasi chiaroveggente – delle analisi. Pochissimi ce ne sono stati prima di lui. Nessuno dopo.

Nato a Palazzolo Acreide, nel siracusano, il 15 settembre 1925, figlio di maestri elementari, si era trasferito a Catania nel 1943 e qui si era laureato in giurisprudenza. Dopo la laurea – come raccontò lui stesso successivamente - cominciò a muovere i primi, incerti passi nel mondo dell’attività giuridica:


Quand’ero giovanissimo, poco più di vent’anni, io feci per qualche tempo l’avvocato. Non fui granché! In campo civile mi tediava la ricerca della giurisprudenza… arrivavo in ritardo alle udienze, mi appassionavo solo alle cause in cui i miei clienti avevano ragione: le altre in cui invece avevano torto mi facevano schifo, tutto ciò era contrario alla professionalità di un buon avvocato il quale deve avere un animo di pietra, né mai valutare il torto e la ragione etica della causa, ma semplicemente la possibilità di vincerla. Nel penale praticamente ero ancora peggio, poiché mi commuovevo. Sceglievo i clienti che fossero soprattutto poveri e innocenti, questa lotta fra la vittima e l’ingiustizia mi dava profonde emozioni, ma non era redditizia, gli innocenti quasi sempre sono ugualmente condannati, e chissà perché sono quasi sempre indigenti, e comunque non pagano. Praticamente feci la fame. La mia avvocatura, dicevo, non fu davvero granché!(1)


Nel 1952 divenne giornalista professionista, iniziando a collaborare con varie testate giornalistiche regionali e nazionali, da Sport Sud a La Domenica del Corriere, da Tuttosport a Tempo illustrato. Nel 1956 fu assunto dall’Espresso sera, di cui divenne caporedattore fino al 1980. Nella seconda metà degli anni Sessanta comincia una collaborazione con La Sicilia, il più importante quotidiano di Catania ed uno dei più diffusi al Sud. E negli anni tra il 1967 e il 1969 pubblica sulla “terza pagina” di questo quotidiano una serie di racconti, che colpiscono “per la violenza e la bellezza moderna dello stile e dei temi”(2) e che poi verranno raccolti in un volume dal titolo Pagine (1969). Fu nel periodo di impegno ad Espresso sera che cominciò a scrivere di teatro. Dapprima con Cronaca di un uomo (1966), opera vincitrice del premio Vallecorsi, portata in scena da Romano Bernardi con Leo Gullotta, Aldo Puglisi, Tuccio Musumeci e Fioretta Mari. Del 1970 è La violenza, che ottenne il Premio IDI e venne portata in tournée in tutta Italia, dopo la prima al Teatro Stabile di Catania. Da quest’opera – com’è noto – due anni dopo venne tratta una trasposizione cinematografica per la regia di Florestano Vancini e la partecipazioni di grandissimi attori come Michele Abruzzo, Riccardo Cucciola, Turi Ferro, Aldo Giuffrè, Ciccio Ingrassia, Mariangela Melato, Gastone Moschin, Enrico Maria Salerno.

L’anno successivo, lo Stabile mise in scena un nuovo testo di Fava: Il Proboviro, un apologo grottesco ed amaro sul degrado civile, morale e politico di una città meridionale. Il testo fu il frutto di quelle inchieste giornalistiche che avevano prodotto, nel 1970, il libro-denuncia Processo alla Sicilia. Interprete della pièce fu un grandissimo Turi Ferro, affiancato dalla validissima maschera di Tuccio Musumeci.

Nella stagione 1974-75 il Teatro Stabile etneo presentò un altro testo di Fava, contenente accuse e riferimenti ancor più polemici contro la ‘casta’ dei giornalisti: Bello bellissimo. E’ un atto d’accusa implacabile contro il consumismo cieco, l’egoismo spicciolo che corrode animi e sentimenti, che sostituisce alla comprensione, alla solidarietà l’ambiguo e vacuo desiderio di emergere, arrivare, scavalcando il prossimo, schiacciandolo, usandolo come infimo strumento per la realizzazione delle proprie brame. L’anno 1975 è anche quello della pubblicazione, da Bompiani, del romanzo Gente di rispetto, da cui verrà tratto un film per la regia di Luigi Zampa, con Franco Nero, James Mason e Jennifer O’ Neil. La stagione 1976-77 vide il remake, nell’inconsueto palcoscenico del Teatro Greco di Taormina, de Il Proboviro, ribattezzata Opera buffa, mentre nello stesso anno 1977, la casa editrice Cappelli pubblicava il suo secondo romanzo, Prima che vi uccidano. Nella stagione 1979-80 venne rappresentata l’opera Delirio, un lavoro dove si sente il soffio della Sicilia pirandelliana. Ma fu il 1980 l’anno delle svolte. Ad Espresso sera sarebbe dovuto arrivare un nuovo direttore. Ci si aspettava che fosse lui il nuovo direttore della seconda testata catanese. Ma non fu così. Troppo indipendente, troppo poco riverente ed acquiescente verso i potenti. L’editore Mario Ciancio Sanfilippo gli preferì qualcun altro. Qualcuno che non rompeva le uova nel paniere delle intricate e remunerative relazioni tra mondo degli affari (puliti o sporchi), mass media e politica. Fava andò via. Si trasferì temporaneamente a Roma, dove condusse Voi e io, una trasmissione radiofonica su Radiorai. Da qui continuò a scrivere collaborando con Il Tempo ed Il Corriere della sera, e soprattutto impegnandosi nella sceneggiatura del film Palermo oder Wolfsburg, regista Werner Schroeter, tratto dal suo romanzo, pubblicato nello stesso 1980, Passione di Michele. Il film vinse l’Orso d’Oro a Berlino, ma in Italia non verrà mai proiettato.

Nel marzo del 1981 fu rappresentata l’opera Foemina ridens, spettacolo che riscosse un inatteso successo. Di questa pièce Fava fu, per la prima volta, anche il regista.

Il 9 novembre 1983 (due mesi prima della morte), il Teatro Stabile di Catania inaugurò la stagione teatrale con la messa in scena dell’ Ultima violenza, un dramma intricato, “dove sono chiamati a comparire i vari cavalieri del lavoro, gli imprenditori, i politici, i procuratori, i saccheggiatori della città e i monopolizzatori degli appalti regionali, tutti personaggi invulnerabili e compromessi”(3). L’opera venne messa in scena grazie alla regia di Lamberto Puggelli, con Turi Ferro ed Ennio Balbo nella parte dei due protagonisti-antagonisti, rispettivamente nel ruolo del potente, ambiguo e inquietante avvocato Bellolampo e del procuratore, suo avversario. Gli altri attori furono Vincenzo Ferro, presidente del tribunale speciale, Ida Carrara, nei panni della moglie del commissario, Maria Tolu, madre del carabiniere ucciso. E poi, Miko Magistro, Giacomo Furia, Marcello Perracchio, Leonardo Marino ed altri ancora. Lo spettacolo fu applauditissimo. Dopo l’omicidio, verrà portato in tournée, da gennaio a maggio 1985, in tutta Italia.

Nell’anno dell’uccisione, il 1984, la cooperativa Alfa propose Mafia-parole e suoni, un’opera già messa in scena nel 1983, ma ripresa dopo la morte dell’autore. Nello stesso anno, la casa editrice Editori Riuniti ripubblicò il libro-inchiesta Mafia. Da Giuliano a Dalla Chiesa, già dato alle stampe nel 1982. Questo volumetto, nella seconda edizione del 1987 sarà arricchito di una postfazione, a cura della redazione de I Siciliani, dal titolo Cronaca di 16 mesi (3 settembre 1982-5 gennaio 1984).

Nel maggio 1988 venne presentata, a Palazzo Bruca a Catania, l’edizione in quattro volumi del Teatro di Fava, contenente anche le opere inedite o mai rappresentate: La rivoluzione (incompiuta), Sinfonie d’amore, America America, Dialoghi futuri imminenti, Il Vangelo secondo Giuda, Paradigma, L’uomo del Nord.

Tra questi, Dialoghi futuri imminenti contiene molti punti di contatto con Ultima violenza. E’ la fase di istruttoria di un processo, durante gli anni del terrorismo. E’ l’affannosa ricerca del perché di tanta violenza, della violenza sull’uomo da parte dell’uomo, dell’accusato e dell’accusatore. Sinfonie d’amore, invece, testo scritto da Fava nel 1979, venne portato sulle scene dalla Cooperativa Alfa. La ‘prima’ si tenne il 28 febbraio 1987 e riproposta nella stagione 1988-89. Si tratta di due stravaganti ‘sinfonie’, d’amore e farsa, due atti unici: Andante e Allegretto. Una sorta di Beckett siciliano, con tanto di mugugni, risate, odori, deliri e suoni più o meno frastornanti. La regia fu di Orazio Torrisi, tra gli interpreti Pippo Pattavina, Guia Jelo e Miko Magistro.


Un osservatorio privilegiato e inatteso: il Giornale del Sud


Per molti anni Catania era stata la “Milano del Sud”. Il simbolo del miracolo economico meridionale. La città ridente, ridanciana a volte, edonistica quasi, che Fava aveva raccontato dalle pagine dei giornali su cui scriveva. Fava aveva raccontato i giorni felici della nuova capitale morale affacciata sullo Jonio. I giorni dell’ascesa di una nuova classe imprenditoriale, di una classe di affaristi che veniva su dal cuore della città dell’Etna, inarrestabile, potente, indomita. Ma ben presto – dopo il suggello del cavalierato riconosciuto dalla Presidenza della Repubblica – avrebbe rivelato il suo volto di Medusa, delle alleanze infide con il mondo politico, delle miserie e degli sprechi, della capacità di controllare tutto, uomini e animi, pubblica amministrazione e politica, giustizia e religione. Se una mattina quella nuova classe politica-imprenditoriale si svegliava comandava al sole di non spuntare su Catania, ebbene il sole non sarebbe spuntato. Impunità, violenza, ricatto. Dietro la parvenza di normalità, di decoro, di una città allegra e spensierata, sfottente e ironica. E una stampa che raccontava tutto inforcando gli occhiali rosa o indossando il guinzaglio che i padroni – che erano quelli che tenevano in mano tutto, a Catania – le stringevano al collo. Beata. Ebete. Insulsa. Serva. Contenta. Questo comitato d’affari aveva conquistato la città non con la violenza, i cannoni o i bazooka, non con assedi ventennali od orge di sangue, ma con i modi affettati, le alleanze coi “giovani turchi” democristiani ed i rampanti socialisti craxiani, le connivenze con il crimine organizzato e il possesso dei mezzi di comunicazione. E Fava, nei confronti della sua città, aveva cominciato a nutrire un misto di amore e rabbia, di devozione e rancore che egli sintetizzava non senza agrodolce ironia così:

Io amo questa città con un rapporto sentimentale preciso: quello che può avere un uomo che si è innamorato perdutamente di una puttana, e non può farci niente, sa che è puttana, è volgare, sporca, traditrice, si concede per denaro a chicchessia, è oscena, menzognera, volgare, prepotente, e però è anche ridente, allegra, violenta, conosce tutti i trucchi e i vizi dell’amore e glieli fa assaporare, poi scappa subito via con un altro; egli dovrebbe prenderla mille volte a calci in faccia, sputarle addosso, ‘Al diavolo, zoccola!’, ma il solo pensiero di abbandonarla gli riempie l’animo di oscurità(4)


Fava accettò di diventare il direttore del neonato Giornale del Sud. Le sue intenzioni, Fava le aveva chiarite subito: giornale libero, impegnato nelle battaglie civili, disposto a rompere il monopolio in città (e non solo) de La Sicilia. Gli editori pensavano evidentemente qualcosa di diverso: un giornale al servizio della politica, uno strumento da usare – come piuma o come clava – in periodi elettorali, nelle battaglie per la conquista di posti di potere e privilegi, un deterrente politico persino. Chi erano? “Il pacchetto editoriale era in mano a un assortito manipolo di personaggi che offrivano una fedele fotografia della città: c’erano tutti, l’assessore regionale, il cavaliere, il politico rampante, l’esattore comunale. I loro nomi, allora, dicevano ben poco: Salvatore Lo Turco, Gaetano Graci, Giuseppe Aleppo, Salvatore Costa. Tipi ambiziosi, astuti, pragmatici. Nient’altro.”(5) Si affidarono a Fava perché era la migliore penna della città e perché, probabilmente, pensavano di poterlo domare, una volta coinvolto nel progetto. Il primo numero del quotidiano uscì il 4 giugno 1980, con una redazione di giovani cronisti (dal figlio Claudio, a Riccardo Orioles, da Michele Gambino ad Antonio Roccuzzo, Elena Brancati e Rosario Lanza, che l’avrebbero seguito nell’esperienza de I Siciliani). Catania cominciò ad essere passata al setaccio, i notabili, i potenti, gli impuniti furono chiamati in causa per nome e cognome. Senza paura, senza genuflessioni. Come ricorda Claudio Fava, “nei primi sei mesi di vita del giornale, Catania contò 41 morti ammazzati: mentre i prudenti articolisti della La Sicilia continuavano a parlare di delinquenza comune e di imprecisati regolamenti di conti, i cronisti del Giornale del Sud furono i primi a parlare di mafia. E a scriverne, con nomi e cognomi: la mappa delle Famiglie vincenti, la loro consistenza ‘militare’, le rotte dei loro traffici, le contiguità politiche.”(6) Catania – come ricorda Salvatore Lupo - invece amava presentarsi ancora come la Milano del Sud, una città commerciale, affaristica, sotto la regia dell’andreottiano di ferro locale, Nino Drago. La criminalità cittadina veniva presentata dalla stampa locale come piccola manovalanza delinquenziale, senza addentellati o collegamenti con la mafia. La mafia stava a Palermo e nella Sicilia occidentale, lo spicchio meno progredito, più arretrato dell’Isola. Eppure i segnali inquietanti non erano mancati, come quello – risalente agli inizia degli anni sessanta – “quando per difendere uno sconosciuto membro della sconosciuta cosca (Franco Ferrera) scende da Roma Giovanni Leone, futuro presidente della Repubblica. La città preferisce specchiarsi nei ‘cavalieri del lavoro’, Costanzo, Graci, Finocchiaro e Rendo, grandi costruttori con interessi nell’edilizia privata e pubblica di scala regionale; essa ignora o vuole ignorare che costoro nel corso dei loro affari in giro per la Sicilia vengono in contatto con gruppi mafiosi, cui secondo l’usuale modello concedono subappalti in cambio di protezione. (…) stando alle confessioni di Antonino Calderone(…), Carmelo Costanzo sin dai suoi esordi quale capo-mastro si lega a Luigi Saitta (vecchio boss catanese, nda) passando poi sotto la protezione di Calderone sr. Nel corso della sua scalata ai ranghi della grande borghesia in periodo milazzista. Sempre secondo il pentito, i mafiosi sia catanesi che trapanesi (della famiglia Minore) ottengono da Costanzo subconcessioni, facilitazioni, pagamenti in denaro. Santapaola si mostra accanto all’imprenditore quando questi gira tra i suoi operai, acquisisce una concessionaria Renault, frequenta i salotti della Catania-bene, entra insomma a far parte dell’establishment. Rimane agli atti un ritratto di città, una fotografia scattata al matrimonio di Giuseppe Costanzo che mostra, uno accanto all’altro, il sindaco di Catania, il presidente della provincia, il segretario provinciale della Dc, l’onorevole socialdemocratico, i nipoti di Costanzo, Nitto Santapaola”(7)

Santapaola era il cocco della Catania ufficiale. Catania città aperta, Catania città solare, comoda, ilare, sarcastica, brancatiana, amante del bel vivere e del saper vivere. Dove la vita si assapora fino in fondo, fino alla goccia ultima che ubriaca. “Catania – scrive Alfio Caruso -è una città senza steccati, spesso priva di coscienza, portata ad un’ambiguità che tutto confonde e tutto corrode.(…) Nessuno immagina che possano esserci alternative al comitato d’affari, alla gestione di un potere capace di ardire operazioni di plastica facciale. (…) Catania si ritiene troppo furba per accettare la Legge o una qualsiasi legge che limiti il proprio libero arbitrio. Non è casuale che nelle liste della P2 rinvenute a Castiglion Fibocchi sia la città meglio rappresentata con centocinquantanove ‘fratelli’.”(8)

Il giornale di Fava, che avrebbe dovuto essere un docile strumento di persuasione e scalate politico-affaristiche, si rivelò ben presto un cavallo pazzo, incontrollabile e libero. Lo scontro con gli editori si accentuò con i missili a Comiso. A Fava non piacevano, ai suoi editori sì. E non mancarono di farglielo presente. Dopo l’ennesimo articolo contro i missili, i padroni gli ricordarono che il quotidiano si muoveva nell’ambito del Patto Atlantico (sic!). Ma Fava non demordeva: pubblicò un articolo ironico e provocatorio contro l’ignavia dei siciliani e la codardia dei loro amministratori(9).

Di fronte all’avanzata della marea delle proteste degli editori, alla loro paura di perdere terreno e denari, di esporsi contro il loro stesso giornale, Fava rivendicò con forza la propria libertà, pubblicando l’11 ottobre 1981 un editoriale che rappresentava il suo ‘contratto’ con i lettori, oltre che il manifesto ideologico e deontologico di un grande giornalista:


Io ho un concetto etico del giornalismo.

Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza, la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente all’erta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo, si fa carico anche di vite umane. Persone uccise in sparatorie che si sarebbero potute evitare se la pubblica verità avesse ricacciato indietro i criminali: ragazzi stroncati da overdose di droga che non sarebbe mai arrivata nelle loro mani se la pubblica verità avesse denunciato l’infame mercato, ammalati che non sarebbero periti se la pubblica verità avesse reso più tempestivo il loro ricovero. Un giornalista incapace – per vigliaccheria o per calcolo - della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento!”10


Ma le cose che il giornale svelava erano molto più preoccupanti. Venivano alla luce i meandri di una città sommersa, i mafiosi impuniti, gli affari al palazzo di giustizia, le connivenze tra mafia e politica. Mafia. Una parola che ancora nessuno osava accostare al nome di Catania. Nessuno. Tranne Fava ed i suoi ragazzi. Poi arrivò l’attentato alla sede della redazione. Pochi danni, nessuna rivendicazione. Si andava avanti. Si scoprì che uno degli editori, Lo Turco, frequentava assiduamente il boss Nitto Santapaola, e che Gaetano Graci andava a caccia con il boss. La goccia che fece traboccare il classico vaso fu però rappresentata dall’arresto a Milano del boss catanese Alfio Ferlito. Mentre Fava era a Roma, un emissario dei padroni del vapore, Alfio Tirrò, entrò in redazione e a brandendo la matita rossa come una mannaia, nel giro di mezz’ora “normalizzò” la prima pagina del giornale che, quel giorno, riportava dettagli, ricostruzioni della vicenda Ferito, comprese le collusioni, gli affari del boss con il mondo imprenditoriale perbene. Tutto venne stravolto, stralciato, addomesticato. Eliminato il riferimento ad una parentela del boss con un consigliere comunale, censurata la parola mafia, via le firme dei cronisti di Fava. Una settimana dopo Fava ebbe il benservito. I giornalisti occuparono la sede del giornale per una settimana, ricevendo pochissimi attestati di stima e solidarietà. Infine, dopo un intervento del sindacato, mollarono. Ormai, tutto era pronto per l’avventura de I Siciliani, compreso il gruppo di giovani talenti che avrebbe costituito la nuova redazione. Il Giornale del Sud cessò semplicemente di esistere dopo un anno. (11)


L’esperienza de I Siciliani: indietro non si torna.


Non era di sicuro un licenziamento a poter fermare Pippo Fava. Con i suoi collaboratori fondò una cooperativa, la Radar. L’obiettivo: il finanziamento di un nuovo, ambizioso progetto editoriale. Erano i mesi in cui erano caduti uno dopo l’altro Cesare Terranova, Boris Giuliano, Gaetano Costa, Bernardo Mattarella, Pio La Torre. Ed il 3 settembre 1982 sarebbe toccato anche al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ed era stato il generale Dalla Chiesa, nella sua famosa intervista a Giorgio bocca del 10 agosto 1982, a dichiarare che “con il consenso della mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?”(12) E fu sull’onda emotiva e giudiziaria della morte del generale che esplose il caso Catania. Come racconterà Claudio Fava, Catania cadde sotto il microscopio della stampa nazionale. Cosa nascondeva questa città? Quale era la vera immagine dei cavalieri del lavoro? “Tutto questo – dirà Claudio Fava - mette Catania al centro dell’attenzione ed è un’occasione che non va persa. E’ un momento in cui si rivela decisiva l’esperienza di mio padre e la sua intuizione che quello è il momento per fare uscire il giornale. (…) ‘I Siciliani’ sarà un giornale condannato a stupire perché andrà oltre l’idea di un buon giornale, racconterà storie che non si sarebbe mai immaginati di poter scrivere su questa città e su questa regione. Un giornale che può, in sostanza, sintetizzare il cambiamento della Sicilia degli anni Ottanta, che non passa solo attraverso il salto di qualità fatto dalla mafia, cioè l’asse imprenditoriale mafiosa che si crea tra la Sicilia occidentale e quella orientale, ma anche attraverso il crollo del mito industriale, la definitiva devastazione ambientale di tutta la Sicilia, la nuclearizzazione dell’isola come discorso culturale di emarginazione dal resto della penisola.”(13)

Nel novembre del 1982, dopo la morte del generale Dalla Chiesa, le trattative, i dibattiti, giunsero al capolinea. Il mensile I Siciliani poteva vedere la luce. Senza una lira, con tante cambiali nei cassetti, ma molte più idee. Così ricordava l’evento la redazione, all’indomani della morte del direttore-fondatore:


Pippo Fava arriva in redazione, schiaccia l’esportazione nel portacenere e fa: ‘Ragazzi, si fa il giornale’. ‘Quando?’ ‘Con quali soldi’. ‘Io faccio il pezzo sulla Procura’ ‘Come lo chiamiamo?’ ‘Io ho un’idea per il pezzo di colore!’ ‘Ma i soldi…’. La vigilia di Natale le Roland sputano una cosa rettangolare con scritto su: I Siciliani… il giornale arriva in edicola alle nove di mattina. A mezzogiorno non ce n’è più (a piazza della Guardia, dicono, due fanno a cazzotti per l’ultima copia: ma onestamente non ne abbiamo le prove). Si brinda nei bicchieri di plastica e si prepara il numero due; nel cassetto, i mazzi di cambiali sembrano meno minacciosi.”(14)


Quella de I Siciliani divenne ben presto un’esperienza decisiva, fondante, per il movimento antimafia. Ma non solo. Fu un pugno allo stomaco per Catania, per i suoi cavalieri e per i suoi impronunciabili segreti. Fu un colpo al cuore per una città in cui, alcuni mesi addietro, una foto scattata all’inaugurazione dello Scimar, una boutique del boss Rosario Romeo, aveva ritratto insieme, sorridenti e beati i seguenti personaggi: Nitto Santapaola, due dei suoi uomini, il sindaco andreottiano Salvatore Coco, il Presidente della Provincia Giacomo Sciuto, il deputato regionale socialdemocratico Salvatore Lo Turco, il segretario provinciale del Psdi Antonello Longo, il dirigente del servizio sanitario della casa circondariale di Catania Franco Guarnera, il medico chirurgo Raimondo Bordonaro, poi arrestato per traffico di droga ed armi, il consigliere comunale Salvatore Di Stefano, i due nipoti del cavaliere del lavoro Carmelo Costanzo – Giuseppe e Vincenzo – e il genero del cavaliere del lavoro Gaetano Graci, Placido Filippo Aiello. Fu un colpo insopportabile per una città in cui i manovratori non venivano mai disturbati e godevano di protezione, assistenza, connivenza e illimitata capacità di comando. Come il cavaliere Mario Rendo, il quale – stando alle sue famose “cartelline” sequestrate nell’’83 a Roma – poteva tranquillamente disporre la promozione di un questore o la rimozione di un colonnello della Guardia di finanza fin troppo zelante, così come poteva “indirizzare”, “promuovere”, “ammorbidire”, “gestire” gli affari dentro il Palazzo di Giustizia catanese. E già, il Palazzo di Giustizia, la Procura. Quella Procura “sulla quale fino allora nessuno ha mai posato lo sguardo ma che la redazione dei ‘Siciliani’ individua da subito, con efficacia anche letteraria, come il riassunto, la sintesi del sistema”(15).

I Siciliani, anno I, n. 1. Cominciò così l’avventura di quel periodico “coraggioso e battagliero, esempio di un giornalismo militante che, tolto il giornale “L’Ora” di Palermo degli anni ’60, non ha avuto equivalenti in Sicilia”(16). Tra gli articoli, il più scottante recava la firma di Pippo Fava: I quattro cavalieri dell’Apocalisse mafiosa si titolava. Scriveva Fava:


Per parlare dei cavalieri di Catania e per capire cosa essi effettivamente siano, protagonisti, comparse, o semplicemente innocui e spaventati spettatori della grande tragedia mafiosa che sta facendo vacillare la Nazione, bisogna prima avere perfettamente chiara la struttura della mafia negli anni ottanta, nei suoi tre livelli: gli uccisori, i pensatori, i politici. E per meglio intendere tutto bisognerà prima capire e identificare le prede della mafia nel nostro tempo. Una breve storia, terribile e però mai annoiante, come su un’immensa ribalta, tutti i personaggi. Ognuno a recitare se stesso (Pirandello è qui di casa) nel gioco delle parti.”


Poi si addentrava nell’analisi del mutamento strategico della mafia, il passaggio dall’ambito più “agrario” a quello del commercio di droga:


La droga ha ammorbato oramai anche alcune istituzioni fondamentali della nostra società, la scuola, lo sport, le carceri, gli ospedali, che si stanno trasformando in luogo di autentico contagio. (…) Da dieci anni la mafia tiene in pugno l’immenso affare. Dapprima nelle grandi capitali del mercato, che erano soprattutto Beirut, Il Cairo, Istambul, la grande plaga del Medioriente, Marsiglia, New York, e ora definitivamente anche in Sicilia. L’isola è nel cuore del Mediterraneo e quindi passaggio obbligato per il cinquanta per cento dei traffici dall’area afroasiatica verso le grandi nazioni dell’occidente. Per qualche tempo la Sicilia si è limitata a controllare questo passaggio, garantendo punti di approdo e reimbarco, sicurezza e rapidità in qualsiasi operazione ed esigendo in cambio una tangente. La Fiat fabbrica automobili e le affida ai concessionari: ebbene la mafia pretende una tangente dai concessionari perché possano svolgere il lavoro senza rischi, ma la mafia non si sogna di sostituirsi alla Fiat per fabbricare automobili. Per anni, incredibilmente, la mafia si comportò allo stesso modo per la droga. (…) Alla fine i calcoli furono perfetti e abbaglianti, e l’ultima ripugnanza venne vinta. La mafia assunse in proprio il traffico, anche in Sicilia, e lo fece alla sua maniera, eliminando qualsiasi concorrente e aggiudicandosi tutto il ciclo completo del mercato.”


E per riciclare i denari della droga servono uomini pronti, caparbi, esperti negli affari. Magari capaci di mettere su qualche banca, come Sindona o il senatore Graziano Verzotto, l’uomo di Castelfranco Veneto:

Quante di queste banche furono inventate da Sindona, con i capitali di Sindona e che Sindona riceveva da imperscrutabili fonti? Un incauto giudice milanese dette incarico a un famoso commercialista, l’avvocato Ambrosoli, di venire a Palermo per indagare, capire. Era un professionista principe ma molto ingenuo. Praticamente lo condannarono a morte. Prima ancora che potesse venire in Sicilia gli fecero la pelle.”


Ma le banche non bastano. Il denaro non può essere nascosto, ripulito e nascosto in eterno. Deve essere reinvestito, deve produrre altro denaro. Pulito fin dall’origine, questa volta:

Accanto alle banche ecco dunque le grandi imprese industriali e commerciali che, opportunamente, saggiamente, prudentemente, garbatamente, silenziosamente, amabilmente finanziate, possono riuscire ad impiegare quei capitali, trasformandoli in opere di sicuro valore economico. E non è detto che non siano opere di mirabile importanza e perfezione civile: un moderno ospedale, un carcere modello, una città-giardino, un complesso sportivo, persino una nuova chiesa. E qui sul palcoscenico avanzano, quasi a passo di danza, i quattro cavalieri catanesi. Dopo quello che è accaduto, vien facile perfino la citazione: ‘I quattro cavalieri dell’Apocalisse’.”(17)


Su I Siciliani del giugno 1983, numero 6, Fava scriveva:


Parlando di potere politico a Palermo si deve subito pensare a Vito Ciancimino, ‘il geometra Ciancimino’; ecco, questa è un’altra piccola storia da raccontare dentro la grande storia di Palermo, e nemmeno tutta la storia dell’uomo, ma solo un minuscolo episodio del personaggio, perché si possa ancora più perfettamente capire Palermo. Vito Ciancimino crollò nell’ultima fase delle indagini dell’Antimafia. Venne accusato, lui, prima di essere assessore all’urbanistica e poi sindaco di Palermo, di aver lasciato sbranare Palermo dalla mafia… Nelle elezioni del ’79, Vito Ciancimino non poteva candidarsi perché era nel limbo, datogli dagli accusatori alla sua politica, ma aveva quarantamila, cinquantamila voti di preferenza sulla piazza di Palermo, un formidabile pacchetto elettorale che poteva manovrare a suo piacimento; manovrando quei cinquantamila voti di preferenza, cioè spostandoli da un candidato all’altro, poteva determinare disfatte e trionfi. Ora si racconta come nella fase pre-elettorale, il ministro Ruffini mandasse segnali di fumo al geometra Ciancimino per esprimere il suo gradimento a quei cinquantamila voti di preferenza… e come il Ciancimino facesse sapere che sì quei voti sarebbero stati suoi purché il ministro Ruffini l’avesse aiutato ad avere finalmente una sentenza assolutoria dai proboviri della D.C.”(18)


Nell’aprile dello stesso anno, veniva pubblicato l’articolo Sindrome Catania, in cui la città etnea è inquadrata ed anatomizzata nei suoi apporti culturali, nelle sue capacità rappresentative e nei suoi rapporti con i potentati mafiosi:


Per sindrome Catania intendo quello stato d’animo per il quale da qualche anno a questa parte, ovunque in Italia, il siciliano viene innanzitutto ritenuto catanese. Ciò perché qualunque cosa sia accaduta in questi ultimi tempi in Sicilia, essa è accaduta a Catania o l’hanno fatta i catanesi. Sono catanesi i cavalieri del lavoro che hanno fatto impazzire mafiologhi ed economisti di mezza Europa, che costruiscono ognuno in ogni parte della Sicilia e dell’Europa, dell’Africa, dell’America del Sud, autostrade, dighe, ponti, grattacieli, chiese, centrali nucleari, chiodi e locomotive. E’ catanese l’uomo che viene braccato sotto l’accusa di avere organizzato e personalmente eseguito con un kalashnikoff l’assassinio del generale dalla Chiesa. E’ catanese la Procura Generale sottoposta a inchiesta dal Consiglio Superiore della Magistratura per accertare le clamorose indagini su evasioni fiscali e collusioni mafiose… E’ catanese l’unico Teatro Stabile del Sud: nemmeno Napoli e Palermo, che hanno maestà e presupponenza di autentiche capitali, ci sono riuscite. E’ catanese altresì quel tipo di siciliano che altri italiani ritengono il più perfettamente siciliano, che non rassomiglia ad alcun altro siciliano, che non è triste, né superbo, né tragico, né lamentoso, ma sempre allegro, sempre sprezzante, sfottente, ridente. Catanese è infine il dialetto siciliano che gli altri italiani conoscono, lingua parlata da Giovanni Grasso, Angelo Musco, Turi Ferro, una maniera di parlare nella quale non si capisce mai se il catanese stia parlando sul serio o da un momento all’altro ti scoppia a ridere in faccia… Dicono che Catania, onde potersi confrontare con Palermo, alla fine si sia inventata la mafia. Per entrare da protagonista negli affari giganteschi della droga, per proteggere politicamente e giudizialmente i crescenti imperi finanziari, e infine per potere eliminare chiunque (leggi dalla Chiesa) avesse in animo di opporsi. La realtà, probabilmente, è un’altra, la realtà è che il catanese è diverso (ecco la sindrome) da ogni altro italiano anche nella criminalità, anzi nella genesi stessa della criminalità.” (19)


Nello stesso numero della rivista, l’atto d’accusa – appena velato dall’ironia consueta – di Fava prendeva di mira uno dei prodotti della mafia e del malgoverno: l’emigrazione dei giovani, delle forze vive, sottratte allo sviluppo della Sicilia, del Meridione in generale, per cercare fortuna altrove:


Parlando di emigrazione, il professore disse sorridendo: ‘I paesi ricchi producono carbone, petrolio e diamanti, ma noi siamo più ricchi’… Ogni anno a Palma di Montechiaro, nascono mille bambini. Più di cinquanta muoiono prima dell’età scolare, cinquanta si ammalano e restano deformi e stupidi, cinquanta resteranno analfabeti e altri cento in media diventeranno delinquenti. Centocinquanta di loro riusciranno a sopravvivere lavorando la terra, altri cento lavorando da muratori, manovali, falegnami, fabbri, maestri elementari, droghieri, avvocati, medici e professori. Altri cinquecento dovranno andare emigranti. Come a Palma di Montechiaro in tanti altri paesi della Sicilia, della Calabria e del napoletano. Ogni anno portano in Italia trecentomila miliardi. Se tornassero tutti in una volta alle loro famiglie, la nazione piomberebbe in uno stato di tragica miseria e sarebbe probabilmente sconvolta da una sanguinosa rivoluzione. La democrazia italiana si regge sulla disperazione e il sacrificio di tre milioni di meridionali emigranti…(20)


Nel numero 7 del luglio 1983, apparve una insolita e intrigante inchiesta: I dieci più potenti della Sicilia. Per Fava si trattava semplicemente di una “scoperta” più che di un’indagine. Era interessato ad indagare, quasi antropologicamente, le qualità umane – di cui pochi uomini dispongono – che permettono di comandare su tutti gli altri, e quindi di tenere in pugno la società:


Nel bene o nel male, ripetiamo, chi sono dunque i dieci siciliani più potenti? La domanda è bella e inquietante. Cerchiamo dunque di fare il discorso più logico e quindi anzitutto di capire cosa effettivamente sia la potenza… Ho raccolto cinque storie esemplari: accadde in una corte d’assise non molto tempo fa. Si celebrava un processo per i delitti di assassinio continuato e strage. Il Procuratore della Repubblica era temerario e spietato. La sua passione per la giustizia talvolta diventava violenza… In mezzo a quella piccola folla si alzò un grande mafioso, con il vestito nero, la cravatta nera, i capelli grigi, la testa grande, di legno, squadrata a colpi d’ascia, levò il dito dritto come un’arma contro il pubblico ministero e disse: Signor Procuratore ora lei è là, su quello scanno, con il mantello nero e sembra il padreterno e io sono chiuso in questa gabbia, però con mezza parola io posso dare un appalto pubblico di cento miliardi a un’impresa invece che ad un’altra… con un semplice gesto, o anche solo uno sguardo, io posso fare uccidere dieci o cento persone… E lei no! Signor Procuratore qualunque cosa accada io sono più potente di lei, quando parla non se lo scordi mai!... Un cavaliere del lavoro, al giudice che lo inquisiva per sospette trame mafiose e per una colossale evasione fiscale, disse invece: ‘Signor giudice, come lei ben dice, io sono mostruosamente ricco, e la mia ricchezza è potenza… Tuttavia io che possiedo tutto, sono qui in piedi e impaurito dinnanzi a lei… e lei che non possiede niente, assolutamente niente o quasi niente, sta dinnanzi a me come un padrone per giudicarmi, infliggermi umiliazione, danno o infelicità! Chi è più potente di noi due?


Ma, indagando più a fondo, quando viene la volta del giornalista, Fava affonda il bisturi nella parte più impalpabile del potere, o meglio del meccanismo di creazione del potere: il consenso. Una lezione, è inutile dirlo, oggi come oggi attualissima:


Amo la mia professione – fa dire al giornalista – come si può amare carnalmente una donna splendida e un po’ bagascia, che ti tradisce con tutti e di cui però non riesci a farne a meno. In questa società comanda soprattutto chi ha la possibilità di convincere le persone ad avere quei tali pensieri sul mondo e quelle tali idee sulla vita. In questa società il padrone è colui il quale ha nelle mani i mass-media, chi possiede o può utilizzare gli strumenti dell’informazione, la televisione, la radio, i giornali, poiché tu racconti una cosa e cinquantamila, cinquecentomila o cinque milioni di persone ti ascoltano e alla fine tu avrai cominciato a modificare i pensieri di costoro. (…) Voglio dire che la vera forza consiste nel numero di persone che ti sono devote, e quindi si fonda sull’amicizia, la riconoscenza, la gentilezza… Ecco, io ho un’anima generosa che si lascia sedurre, che si concede a tutti, chiedendo in cambio piccoli pezzi di affetto e devozione. Questo è la mia grande forza: io ho un’anima puttana! Infine, vi è il grande scrittore del Sud, che ha un sovrano concetto del talento e quindi di se stesso, e che talora maestosamente si concede appunto qualche minuto alla curiosità degli altri, ai convenuti di un salotto intellettuale, dove si dibatteva il tema del genio, disse: ‘Il genio scansa persino la malattia, allontana da sé persino la morte, il genio ama la donna provando un piacere infinitamente maggiore di qualsiasi altro… un libro, un solo libro scritto nel momento giusto, con una giusta storia, può modificare il corso politico di una nazione!’. A chi gli chiedeva quale suo libro avesse modificato il destino politico della nazione, egli rispose con un enigmatico sorriso… Ecco dunque le componenti del potere: il denaro, l’autorità dello Stato, la forza politica, la popolarità e il talento.(21)


Questi stralci piccolissimi dei tanti articoli pubblicati da Fava danno il senso della sua attività. Ma Fava era dell’altro. Come sottolinea Rosalba Cannavò, c’era in lui “un potere della parola, un’autonoma, libera professionalità che gli lasciava grande facoltà d’agire, la sua non controllabilità lo portava a non subire condizionamenti (…). Il suo potere direzionale all’interno del giornale non aveva superiori a cui rispondere e da cui subire condizionamenti. Non c’erano censure, né automatismi o sovrastrutture cui subordinare la sua romantica, ‘aggressiva’, concezione del giornalismo.”(22)

A tutto questo, peraltro, va aggiunta una padronanza eclettica degli strumenti comunicativi decisamente non comuni. Sicché tutto il repertorio del Fava drammaturgo, romanziere, saggista, giornalista e cronista trovava modo di manifestarsi nella sua attività di direzione. Senza paure, senza pause. Tutte le armi a sua disposizione, dal punto di vista tecnico-letterario, venivano impiegate con vivacità ed estroversione, ma soprattutto con libertà. Nel numero dell’ottobre 1983, Fava, fingendo di ritornare agli anni mediocri dell’avvocatura, inventò una sarcastica (ed icastica, a suo modo) difesa di un cavaliere del lavoro mafioso:


Eccellentissimi – concludeva istrionico – io vi chiedo perdono, forse voi appartenete a quella minoranza di imbecilli di questa nazione i quali ancora lottano e credono che nella vita di un uomo si possa affermare il suo reale merito e che ci sia un ideale morale da vivere. In tale ipotesi, chiedendovi di assolvere il qui presente cavaliere, io vi chiedo sinceramente perdono.” (23)


Il 28 dicembre 1983 rilasciò l’ultima intervista a Enzo Biagi per il programma Film-story, trasmessa da Retequattro l’indomani. Mancavano sette giorni al suo assassinio:


Mi rendo conto – disse in quell’occasione Fava - che c’è un’enorme confusione sul problema della mafia. Questo signore (Fava si riferiva ad un precedente intervento, nda) ha avuto a che fare con scassapagghiara, delinquenti da tre soldi. I mafiosi veri stanno in ben altri luoghi, in ben altre assemblee; i mafiosi stanno in Parlamento, a volte sono ministri, a volte sono banchieri, sono quelli ai vertici della Nazione. Se non si chiarisce questo equivoco di fondo… Insomma, non si può definire mafioso il piccolo delinquente che ti impone la piccola taglia sulla tua piccola attività: questa è roba da piccola criminalità che ormai abita in tutte le città italiane ed europee. Il problema della mafia è molto più tragico ed importante, è un problema di vertice nella gestione della Nazione che rischia di portare alla rovina e al decadimento culturale l’Italia.”


Ed alla domanda di Biagi se la mafia attuale fosse uguale o diversa rispetto alla mafia del passato, Fava rispondeva:


Oggi i mafiosi sono… non sono quelli che ammazzano, quelli sono esecutori. Anche al massimo livello. Non so, si fanno i nomi – io non li conosco – i nomi dei fratelli Greco. Si dice che siano i padroni della mafia, quelli delle cosche vincenti, i vicerè. Non è vero, loro sono degli esecutori, sono nell’organizzazione e fanno quello che gli altri… Non lo so, io adesso parlo di persone incensurate, quindi per quello che si presume, secondo l’accusa… Ci sono degli altri a fianco di loro, ci sono degli altri che contano infinitamente di più. Cioè, i fratelli greco, lasciando stare se siano grandi malviventi o grandi innocenti, perché questo lo stabilirà il magistrato, non potrebbero essere dei mafiosi se non ci fosse dietro qualcun altro che consentisse loro di esserlo.”(24)



All’indomani della morte…


L’assassinio del direttore di un piccolo giornale è il primo segno che la libertà di stampa in intere zone del nostro paese non esiste, non può esistere. Dovrebbe essere un monito tremendo per la stampa nazionale, che avrebbe di che sentirsi minacciata nelle sue ragioni più profonde. Ma non è così. Per rendersene conto basta andare ai funerali. La chiesa di santa Maria della Guardia è piena di gente quel mattino. La famiglia Fava – Claudio in jeans e con un giubbotto blu, la sorella Elena con un cappotto pesante – è lì, davanti alla bara di Pippo, obbedendo a una coreografia disperata e ripetitiva che è la più vera, immediata immagine della sostanza del potere in Italia.” (25)


Ucciso Fava, parte l’operazione di smussamento, ridimensionamento, normalizzazione, persino insabbiamento e depistaggio. Già il 7 gennaio il sindaco di Catania Angelo Munzone dichiarava:


La mafia? E’ ormai dovunque, nel mondo: ma qui, a Catania, no. Lo escludo. Davanti al mondo testimonio che mai pressione o intimidazione c’è stata, in questa parte della Sicilia, in questa città storicamente immune dal cancro che mi dite. Polveroni, chissà da chi ispirati…”(26)


Fu un funerale strano, quello di Pippo Fava. Non c’era lo Stato: né un ministro né un sottosegretario. A salutare Fava, morto per il proprio mestiere – ricorda il figlio Claudio – non erano venuti nemmeno i rappresentanti nazionali dei giornalisti. Sarebbero scesi in Sicilia il segretario della Federazione nazionale della stampa Sergio Borsi e il presidente Miriam Mafai, ma solo quindici giorni più tardi: in occasione di un convegno alla memoria(27).

Nei giorni seguenti partì in grande stile l’operazione di normalizzazione. Niente comitati d’affare, tabù la parola mafia. La mafia non esiste, a Catania. Nino Drago, il padrone pressoché incontrastato della politica etnea, aveva fatto le sue dichiarazioni:


Mi auguro che i magistrati chiudano rapidamente questa indagine, per ridare serenità alle attività pubbliche ed alle attività economiche. Altrimenti possono succedere cose gravi. ”


E spiegava cosa intendesse con le parole “cose gravi”:


I cavalieri da tempo sono criminalizzati. Hanno costruito in quarant’ani veri imperi economici, ma hanno dato notevole occasioni di lavoro alla città. Adesso questa gente può dire: ‘Io qui, d’ora in poi, non investo più una lira’. (…) Abbiamo avuto contatti personali. E questo ci hanno detto: che vogliono andarsene.”(28)


Come spesso accade nella terra di Pirandello e Sciascia, le prime indagini patrimoniali (con la prima applicazione della legge Rognoni-La Torre a Catania) vennero compiute sul patrimonio della vittima. Il procuratore aggiunto Di Natale (quello di cui poi si scopriranno collusioni e disonestà) aprì un’inchiesta patrimoniale nei confronti di Fava, della sua famiglia e della sua redazione. “Per sei mesi la Guardia di Finanza e i Carabinieri – periodicamente sollecitati dal giudice Di Natale e dal suo sostituto Rosario Grasso – spesero il loro tempo e i loro uomini a ricostruire inutilmente la storia di tutti gli assegni firmati da Fava negli ultimi otto anni e di tutti i poveri movimenti di denaro che erano transitati attraverso le casse del suo giornale. La legge La Torre, mai applicata a Catania per investigare sui patrimoni dei mafiosi e dei cavalieri, veniva utilizzata per la prima volta contro una vittima della mafia.”(29)

Gli unici sostenitori della pista di mafia erano l’alto commissario antimafia Emanuele De Francesco ed il questore catanese Angelo Conigliaro. Gli altri? Per gli altri, perché Fava era stato ucciso? Qualcuno aveva pronto il primo, subdolo atto dell’insabbiamento, del depistaggio. E chi è stato ad ammazzarlo? E che ne sappiamo! Fava ha rotto le scatole a tanta gente… Certo, a Fava piacevano le donne, aveva anche un’amante, aveva lasciato a moglie… vuoi vedere che, chissà!?, magari un padre geloso gliel’ha fatta pagare? Oppure: Fava aveva debiti. Come mandava avanti quel giornale? Coi debiti, cambiali. Forse qualcuno si è stufato di aspettare… O ancora: non può essere un omicidio di mafia perché l’arma usata non è mai stata impiegata nei delitti di mafia (questo lo assicura l’inviato de Il Giornale di Milano), ma non è vero: la 7,65 è stata usata per uccidere Boris Giuliano, corregge il capo della squadra mobile catanese (ma non corregge Il Giornale). E, si arriva (La Sicilia) ad accostare Fava a Mino Pecorelli, al che la redazione de I Siciliani è costretta a rispondere immediatamente:

Respingiamo accostamenti, come quello con ‘O.P’ che non hanno ragion di essere. Noi che siamo stati vicini a Fava per tanto tempo, sappiamo che non c’erano segreti tra gli appunti di Pippo. Analisi, semmai, del fenomeno mafioso, della sua presenza su tutto il territorio dell’Isola, Catania compresa. Ecco, uccidere Fava per la mafia è stato come per il terrorismo uccidere Casalegno. Nessuno dei due era a conoscenza di segreti, ma entrambi, nel loro settore, denunciavano il fenomeno, la sua gravità, i suoi pericoli per il presente e soprattutto per il futuro.”(30)


In una città dove i cavalieri del lavoro invitavano i boss mafiosi a caccia, i più alti funzionari dello Stato inauguravano i negozi dei mafiosi ed i politici brindavano con loro, era inevitabile che i giornali fossero asserviti e si guardassero bene dal pronunciare il nome triste di mafia. “Se in alcuni casi era sufficiente tacere e omettere – scrive Claudio Fava – spesso occorreva analizzare, giustificare, spendere molte parole per ridimensionare la gravità dei fatti e le loro conseguenze emotive sull’opinione pubblica. (…) Occorreva garantire su tutto: sulla limpidezza della giustizia catanese, sull’onestà dei cavalieri, sulla bontà del sistema politico, sulla sua estraneità alle infiltrazioni mafiose.” Nel dicembre 1984, un blitz ordinato dai giudici di Torino porta in galera, oltre ad un centinaio di presunti mafiosi, anche l’ex comandante del gruppo carabinieri di Catania Serafino Licata, alcuni tra ufficiali e sottufficiali, il presidente della Corte d’Assise Pietro Perracchio e il presidente della Corte d’Appello Rocco Vitale. Cosa fa La Sicilia, il quotidiano di Ciancio? Sviscera tutto l’armamentario scettico-suadente-tranquillizzante del garantismo a senso unico. “Per racchio ha portato a termine centinaia di processi per gravissimi fatti delittuosi (…) ed ha riscosso per molti di essi larghi consensi per il modo in cui aveva curato e definito la loro conclusione sul piano del rispetto della legge” scrive l’articolista Enzo Asciolla. A lui fa eco un altro inviato di punta, Tony Zermo: “Le accuse di un pentito e le mormorazioni possono bastare solo a distruggere un uomo e una carriera” (accuse, mormorazioni? Erano stati arrestati!). “Per quanto si riferisce al presunto intervento del colonnello Licata a favore di Santapaola per il delitto Lipari è da notare che il boss catanese, pur accusato di tanti delitti, quel crimine non può averlo commesso” (è il verdetto de La Sicilia. Errato, peraltro, giacché, per quell’omicidio Santapaola venne condannato all’ergastolo)(31).

Il delitto Fava, per Catania, rappresentò il punto di svolta, la definitiva discesa in campo di due eserciti: uno dell’antimafia, l’altro degli affari; uno degli onesti, l’altro dei gregari, degli opportunisti. Qualcosa si stava sgretolando, però. Una quindicina di giorni dopo l’omicidio, Agostino Sangiorgio, segretario dell’associazione della stampa catanese dichiarava:


La storia dell’informazione a Catania negli ultimi quindici anni è una storia di silenzi. Un blocco di potere estremamente compatto ha dominato e svilito questa città umiliando le intelligenze universitarie, gettando sospetti di connivenze su vari settori della magistratura, degradando il ruolo del politico in quello di amministratore di tangenti… infine abolendo quasi completamente il ruolo del giornalista. C’è una responsabilità indiretta anche della nostra categoria nell’omicidio di Fava.”(32)

Nell’estate del 1984 accadde qualcosa di peggio. Un pentito, Luciano Grasso, voleva raccontare qualcosa su Catania e sull’uccisione di Fava. Voleva parlare anche di un giornalista de La Sicilia, Salvo Barbagallo, che gli aveva commissionato l’omicidio del direttore de I Siciliani. Ma lui, Grasso, non se l’era sentita. Aveva intascato l’anticipo ed era fuggito. Un anno dopo, nel carcere di Belluno, aveva saputo della morte di Fava ed aveva deciso di vuotare il sacco. Il 17 luglio 1984 il sostituto procuratore Giuseppe Torresi partì per il Veneto. La missione era riservata. Dopo di lui, solo il procuratore aggiunto Di Natale (sempre lui) ed il procuratore generale Di Cataldo ne erano a conoscenza. Nessun altro. Ma, il mattino del 18 luglio, quando Torresi entrò nel carcere di Belluno per incontrare il detenuto catanese, costui teneva in mano la coppia de La Sicilia fresca di stampa. C’era la sua foto ed un articolo informatissimo su quattro colonne sotto il titolo: Un detenuto pentito svelerà i nomi degli uccisori di Fava. Firma: Enzo Asciolla. Ancor prima dell’interrogatorio, La Sicilia sapeva tutto. Aveva anticipato le rivelazioni, surclassando persino il magistrato. Incredibile. Non si trattava di fuga di notizie, ma di anticipo di notizie. Scorrettezza giornalistica o tentativo di intimidire il teste? Due anni dopo il giudice Giuseppe Gennaro stabilirà che, se ci fu violazione del segreto d’ufficio, ciò non riguardò né Asciolla né Ciancio, l’editore, ma, caso mai, di chi passò la notizia. E Grasso? Lui confermò ugualmente tutto. Benché i giudici del delitto Fava scelsero di non credergli. Così come non cedettero agli altri quattro pentiti che, negli anni successivi, raccontarono la loro verità sul delitto del giornalista catanese. “Cinque pentiti, cinque frammenti di verità, molti tentativi di depistaggio: nel maggio del 1991 l’inchiesta viene archiviata. Per l’omicidio di Giuseppe Fava non ci sono colpevoli.” (33)

Ma alla fine del 1993 qualcosa si mosse. Durante il processo “Orsa maggiore 3”, il pentito Maurizio Avola confessò di aver partecipato all’omicidio ed accusò il boss Nitto Santapaola ed altri mafiosi di avere ucciso Fava “per fare un favore ai cavalieri”. I tentativi de La Sicilia di screditare il pentito vennero rintuzzati dalla redazione de I Siciliani, la quale denunciò il cronista Tony Zermo (oggi penna di punta del quotidiano tanto da avere una rubrica-filo diretto coi lettori, Zermoposta) per favoreggiamento degli assassini di Fava. Una denuncia senza seguito, tuttavia.

Come sottolinea Alfio Caruso, “a parte l’ipotesi del suicidio, difficile da sostenere anche per le fantasie più fervide, nel caso fava non è esistita deviazione che non sia stata praticata prima di arrendersi, nel ’94, alle rivelazioni dei collaboratori. Fava fu eliminato per rendere un favore a Graci, che giudicava intollerabili le sue denunce. (…) Le campagne del giornalista, che avanzava dubbi molto pesanti sulla correttezza del gruppo (Graci, nda), scatenarono la ritorsione. Per ammazzarlo si mosse il braccio armato della ‘famiglia’: Enzo Santapaola, Maurizio Avola, Marcello D’Agata, Franco Giammusso. A premere il grilletto sarebbe stato Aldo Ercolano, giovanissimo nipote di Santapaola, ancora sconosciuto al grande pubblico, ma già in spolvero all’interno della ‘famiglia’.”(34)

Il 10 luglio 2001 la Corte d’Assise d’Appello di Catania confermò gli ergastoli inflitti in primo grado ai mandanti dell’omicidio, Nitto Santapaola e Aldo Ercolano, assolvendo invece i sicari Marcello D’Agata, Vincenzo Santapaola e Franco Giammusso, già condannati in primo grado. Avola venne condannato a sette anni patteggiati. L’ultimo processo si tenne davanti alla Corte di Cassazione, nel 2003. Confermate tutte le sentenze, gli ergastoli ed i sette anni ad Avola. Nessun seguito ebbero, invece, i riferimenti ai cavalieri, per conto dei quali – secondo Avola (e gli altri cinque pentiti non creduti in precedenza) – l’omicidio era avvenuto. Nessuno venne condannato come mandante. Peraltro, il maggior indiziato, il cavaliere del lavoro Gaetano Graci, era morto il 27 gennaio 1996.

I Siciliani dopo Fava


Una volta mi spiegarono che ciò che è terribile non è morire. È finire. Rassegnarsi, tacere, parlar d’altro. Noi, non lo abbiamo fatto. E’ questo che non ci hanno perdonato. Dicevano: la paura li travolgerà. E se non sarà la paura, sarà il rancore a perderli, la loro giovane colera. Non fu così. Il giornale andò in macchina come lo avevamo pensato insieme a te, dieci giorni dopo la tua morte. Solo, un baffo sotto la testata, accanto al tuo nome. Non più direttore: fondatore. In quelle poche gocce di inchiostro c’era tutto. L’editoriale fu semplice, asciutto. Diceva: ci scusiamo con i lettori per i tre giorni di ritardo. Non ci furono lamentazioni. Solo quell’avviso: noi andiamo avanti. La sofferenza è un fatto privato, il giornale no.(35)


Già nell’ottobre 1983 il cavaliere del lavoro Rendo aveva avanzato un’offerta per l’acquisto del giornale. Era stato pubblicato solo un numero della rivista, quello con l’articolo esplosivo sui quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa, uno dei quali era proprio Rendo. Naturalmente l’offerta venne rifiutata. E venne rifiutata anche l’offerta dell’allora ministro Salvo Andò (PSI) – siamo nell’ottobre dello stesso 1983 – di far gestire a Fava una nuova emittente. Ma i tentativi di mettere le mani sul giornale non si fermarono qui. Dopo la morte di Fava, Rendo ci riprovò: 200 milioni per entrare nella cooperativa che stampava I Siciliani. Ma l’episodio più triste e curioso viene raccontato ancora da Claudio Fava:


Un giorno mi telefonò a casa un tuo vecchio collega, cronista zelante della ‘Sicilia’ (Tony Zermo, come chiarisce lo stesso Fava a pag. 111 del libro), l’uomo a cui era stata affidata la gestione dei punti interrogativi sulla tua storia. Mi disse che aveva un affare da propormi. Per il bene del giornale, naturalmente. Un’edizione in lingua araba di tutti gli articoli che avevamo pubblicato su Comiso. I missili americani, le nostre analisi, le foto, i commenti, i tuoi lunghi editoriali, tutto. Avrebbero pagato cinquecento milioni. Lui, il tuo amico, se ne sarebbe tenuti duecento per aver procacciato l’affare. Il quaranta per cento, un’onesta tangente. Me ne parlava al telefono, con tono ovvio, come d’una buona azione che finalmente s’era deciso a regalarci. Al telefono gli risposi d’andare al diavolo. Una settimana dopo un giornaletto pubblicò l’indiscrezione: ‘I Siciliani’ prendono soldi da Gheddafi. Chissà, c’era scritto, se la Libia c’entra qualcosa con la tua morte. Donne, debiti, ricatti. Anche gli arabi. Tutto, purché non si parlasse di mafia.(36)


L’omicidio di Pippo Fava non impedì al giornale di uscire. Anzi, la sua morte fece avvicinare alla redazione molti cittadini, spontaneamente. Soprattutto giovani, studenti, operai. Claudio Fava divenne il nuovo direttore. Per un breve periodo nacque l’illusione di poter continuare senza aiuti o compromessi, più battaglieri e lucidi di prima. Tanto che venne varata una nuova rivista mensile I Siciliani giovani, destinata ad ospitare contributi, testi, esperienze, aspettative e culture provenienti dal mondo giovanile. Ma già nel 1985 il blocco politico-mafioso inizia la controffensiva. Ed è questo blocco, come scrive Nando dalla Chiesa, che “organizza nuove alleanze, elabora strategiche riguardano la cultura, la politica, la giustizia e l’informazione. Tra l’87 e l’89 se ne vedranno per intero i frutti, nelle parole e nei silenzi dei ministri, nella scelta degli uomini che ricopriranno le posizioni-chiave, nelle campagne giornalistiche”(37). Mancano i soldi. Prima la redazione pagava con assegni di Fava o di Michele Gambino. Adesso quelli di Fava non valgono niente: il direttore è morto. Ma anche quelli di Gambino non trovano accoglienze positive. Non si occupa anche lui di mafia? E Fava non è stato ucciso per questo? E, allora, come accettare gli assegni di uno che domani potrebbe fare la stessa fine del suo direttore? Ci volevano dei garanti. Vennero trovati: Pino Arlacchi, Alfredo Galasso, Guido Neppi Modona, Gianfranco Pasquino, Stefano Rodotà, Nando Dalla Chiesa. “Ma diciamo la verità – afferma lo stesso Dalla Chiesa – i garanti non servono soltanto a offrire una tutela di fronte alla stampa locale o ai cavalieri del lavoro. Servono anche e forse soprattutto per difendere i redattori a sinistra, per spuntare le accuse di irresponsabilità o di inaffidabilità sempre pronte a venire da chi, facendo opposizione politica o sindacale, viene messo in crisi dalla loro ansia di nettezza, dalla loro stanchezza per i compromessi politico-amministrativi o culturali.”(38)

Anche il mondo intellettuale si defilò. Gli unici che restarono accanto ai ragazzi furono i docenti universitari alla Facoltà di Scienze Politiche Franco Cazzola e Graziella Priulla, coniugi, torinesi, vicini al Pci. Altri non si fecero avanti. Non vollero essere implicati. Quando si tentò l’esperimento del settimanale nazionale, i redattori Fava, Gambino, Roccuzzo, Orioles dovettero moltiplicare le loro attività, le loro presenze in giro per l’Italia, dividendosi tra le inchieste in Svizzera e quelle a Palermo, le cronache da Roma, Bologna o Milano e la presentazione del giornale un po’ dappertutto. Solo il compianto Gaetano Scirea, libero della Juve e della nazionale italiana, collaborò con assiduità facendo pervenire regolarmente i suoi pezzi dal Messico, dove si svolgevano i Mondiali del 1986. Ormai il destino del giornale sembrava segnato. E il 5 gennaio 1987, a tre anni dalla morte del direttore-fondatore, i redattori sono costretti ad alzare dignitosamente bandiera bianca:


Già da sei mesi ‘I Siciliani’ sono assenti dalle edicole e, com’è evidente, un giornale che non esce è un giornale virtualmente morto. ‘I Siciliani’ sono infatti sul punto di chiudere. Un destino che aleggiava da anni sul giornale che oggi, in occasione del terzo anniversario dell’assassinio di Giuseppe Fava, rischia di realizzarsi definitivamente. La chiusura de ‘I Siciliani’ sarebbe l’ultima di una lunga serie di sconfitte del movimento antimafioso sorto in Sicilia (…). La chiusura de ‘I Siciliani’sarebbe oggettivamente un ennesimo segnale negativo per la gente che in Sicilia e nel Paese ha creduto in quegli ideali di giustizia e che in questi anni ha letto sulle pagine del giornale la fedele cronaca e i commenti ispirati da essi. I redattori de ‘I Siciliani’ hanno fatto quanto era in loro potere per scongiurare una simile eventualità, ma nessun giornale al mondo può sopravvivere indefinitivamente senza adeguate risorse economiche e senza pubblicità… molte volte, in questi anni, abbiamo chiesto a tutte le forze democratiche di dare un contributo al nostro lavoro. (…) C’è stato un movimento in questi anni, in Sicilia, per la prima volta dopo molti decenni: Un movimento che partendo dalla mafia e dal potere mafioso ha messo in discussione, senza zavorre di ideologie ma con coerenza profonda, gli assetti di società e di potere su cui si basano l’infelicità di questa isola e i mali oscuri dell’intero Paese. Di questo movimento civile, indifferente al Palazzo ma profondamente radicato nella gente che vive fuori, ‘I Siciliani’ sono stati una voce, e forse anzi la voce. Ora non possono più esserlo da soli.”(39)


Nel 1993 si tentò di ripetere l’esperienza con I Siciliani nuovi, direttore Riccardo Orioles. Durerà fino alla metà del 1996, non senza avere ripreso la vecchia combattività e la consueta verve antimafiosa.

L’8 aprile 2002 è nata la Fondazione Giuseppe Fava, istituzione privata con personalità giuridica, presidente Elena Fava, vicepresidente Maria Teresa Ciancio. Da allora, la memoria di Fava, il suo insegnamento, sono stati tenuti vivi da innumerevoli iniziative. Il 5 gennaio 2004, in occasione del ventesimo anniversario dell’omicidio, venne presentato il libro di Giuseppe Fava, Un anno. Il libro, che lo stesso Fava aveva impaginato prima di morire, raccoglie tutti i suoi scritti apparsi sulla rivista I Siciliani ed è stato pubblicato con il patrocinio parziale (€. 7.000) della Regione Siciliana per la distribuzione a scuole, enti pubblici e università. L’anno dopo, venne messa in scena, con il titolo L’istruttoria, la raccolta delle testimonianze più significative rese nel corso del processo per l’assassinio di Fava. Dal 3 all’8 gennaio 2006 il Teatro catanese “Angelo Musco” mise in scena L’istruttoria, atti del processo in morte di Giuseppe Fava di Claudio Fava, per al regia di Ninni Bruschetta, con Claudio Gioè e Donatella Finocchiaro. Questo spettacolo è stato riproposto a Roma, al Teatro Ambra Jovinelli, l’8 gennaio 2008.

Nel corso di un convegno tenuto a Palazzolo Acreide dal 7 al 9 settembre 2006 venne proiettato un documentario, Da Villalba a Palermo, di Vittorio Sindoni, scritto e curato da Giuseppe Fava nel 1978.

Nel 2007 la Fondazione ha istituito un “Premio nazionale Giuseppe Fava”, destinato ai giornalisti che si sono distinti per l’impegno civile ed il coraggio nella denuncia delle ingiustizie. Per il primo anno il premio è andato al giornalista de L’Espresso Fabrizio Gatti. Nel 2008 è stato assegnato al direttore di Libera Informazione e di Raiews24 Roberto Morrione. Lo scrittore (e conduttore) Carlo Lucarelli è stato il vincitore del premio per l’anno 2009.



Su Fava, dopo Fava


Nell’aprile del 1984, tre mesi dopo la morte di Fava, I Siciliani uscirono con un contributo collettaneo, Alcune cronache su un caso di mafia, recante le firme di illustri giuristi, sociologi, giornalisti che si interrogavano sull’aspetto “mafiologico” del delitto e sullo spessore del giornalista Fava, integerrimo e coraggioso. In quell’occasione, Oreste Del Buono scrisse:


Proclamava di aver avuto un privilegio non gradito, quello di notare minuto per minuto l’infiltrazione e l’affermazione della mafia a Catania, tra la disattenzione irresponsabile o la criminale complicità di tanti, troppi. Gridava sempre al lupo. L’ha gridato ancora in palcoscenico nell’Ultima violenza, appena messa in scena nel Teatro Stabile della sua città; l’ha gridato ancora durante la trasmissione di Retequattro moderata da Enzo Biagi. Per molto tempo è stato considerato dai suoi concittadini magari geniale, ma sregolato, intemperante ed eccessivo, uno che diceva spropositi per attirare l’attenzione, un altro dei fautori della leggenda che in Sicilia ci sia la mafia, un cantastorie o un contastorie, anche se di efficacia e di successo. Gli crederanno maggiormente ora che è stato ammazzato a colpi di pistola, non importa neppure da chi? Per qualche giorno si riconoscerà che forse aveva ragione, che il lupo potrebbe esserci. E si parlerà di lui come non se ne è mai parlato. Bene o con enfasi? L’enfasi per garantire che, prima o poi, tutto venga inghiottito nella laboriosa digestione della cattiva coscienza.”(40)


Sono parole dure, amare. Sia nei confronti della città di Catania che di coloro i quali seguivano con interesse il lavoro del giornalista ucciso. Il quale, tra l’altro, non aveva mancato di far presente che non basta guardare ed applaudire, ma bisogna schierarsi, in prima persona, rischiando anche in prima persona: “Chi non si ribella al dolore umano non è innocente!”(41) ebbe a dire.

Certo, Fava aveva capito tanto del fenomeno mafioso. O meglio, aveva capito il giusto, solo che in una realtà come quella italiana (e siciliana o catanese in particolare), quel giusto è tantissimo:


Fava aveva capito troppo? – si chiese Nando dalla Chiesa - Non direi. Fava aveva capito ciò che ormai molti hanno capito. Ossia che le responsabilità prime del fenomeno mafioso, vanno cercate nei luoghi della politica.” (42)


Nello stesso numero collettivo dell’aprile 1984, Guido Neppi Modona invitava I Siciliani a non mollare, riconoscendo al giornale un ruolo strategico nell’elaborazione di una coscienza nazionale antimafiosa:


Bisogna che le cose scritte da ‘I Siciliani’ divengano patrimonio comune di tutta la stampa italiana, per fare in modo che tutti raggiungano livelli di conoscenza sui metodi e sulle finalità del potere mafioso analoghi a quelli che hanno consentito di sconfiggere il terrorismo.”(43)


Al Fava intellettuale e scrittore era stato invece dedicato il numero de I Siciliani di gennaio 1984. Aveva scritto allora Vicenzo Consolo:


La Sicilia è una terra di narrativa, di romanzo. Una storia italiana del romanzo moderno senza Sicilia sarebbe quasi insignificante. Una terra di romanzo, forse perché, se si accetta l’affermazione di Moravia, l’infelicità sociale corrisponde alla felicità del romanzo. E in Sicilia, Catania è per eccellenza la città del romanzo… superbamente ci siamo convinti che nessuna latro linguaggio fosse possibile se non quello letterario, nessuno stile se non quello poetico, per poter parlare in questa città, di questa città: Catania, anche in un momento in cui, dimessa la sua prima e più vera natura, umana, pietosa, tormentata e tragica, assumeva la sua seconda, vitalistica, spregiudicata, levantina, violenza mafiosa. Accadde così che, nel momento in cui un uomo, Pippo Fava, s’era messo a scrivere di Catania, a scrivere del male profondo, grave, urgente di questa città, a scrivere con una passione ed una foga senza precedenti… una morte, la sua, ci ha fatto capire che il linguaggio dei suoi libri, della sua rivista, ‘I Siciliani’, era immediatamente l’unico possibile, il più adeguato, in una città, in una società in cui la violenza ha la forza travolgente di una eruzione vulcanica.”(44)


E sulla tipologia di scrittura di Fava si era soffermato Sebastiano Addamo:


La sua scrittura era… imputatoria e blasfema. Nessuna finalità catartica, né il giuoco estetico l’animava. Lo scrivere, insomma, faceva parte del lavoro di Giuseppe Fava, del suo diverso impegno umano e civile. Romanzo, teatro, cronaca o inchiesta giornalistica, non venivano di volta in volta scelti per una preferenza di genere, ma essenzialmente relativamente all’efficacia, e relativamente ai destinatari. Il romanzo, per Fava, non era che cronaca ma per destinatari i quali non erano in grado di avvertire la immediata tragicità che balza alla cronaca. Non per caso, difatti, i suoi romanzi risultano più letti da Roma in su, e meno in Sicilia. (…) Sperare in un futuro e contemporaneamente disperare di esso. Fra speranza e disperazione si colloca la sua scrittura.”(45)


Fava era indubbiamente vicino ad una certa tradizione veristica, tipicamente siciliana. Un verismo “alla Vittorini” più che “alla Verga”, senza il gusto del compiacimento di quest’ultimo, senza l’attribuzione alla letteratura di alcuna aura consolatrice. Fava partecipa alla realtà che racconta. E vi partecipa in maniera passionale. Questo, anche nelle sue parole, è ciò che lo contraddistingue da un grande scrittore come Leonardo Sciascia (riconosciuto come uno dei più grandi scrittori viventi, l’unico a livello europeo e ciò nonostante definito Alien, Alien Sciascia), il quale allinea le vite degli uomini tratte dai libri o dalle cronache e poi costruisce in vitro una sua umanità ideal-tipologica, un suo siciliano-standard o, meglio, stereotipato. Con scarsa attinenza alla realtà concreta, nella quale lo scrittore non si immette e dalla quale tenta sempre di rifuggire, in nome di uno scientifico distacco da entomologo.(46)

Fava è giornalista e scrittore. Come fa notare Rosalba Cannavò, “non è la prima volta che si opera una simbiosi di giornalismo e letteratura: scrittori come Moravia, Cassola o Buzzati, hanno fatto alto giornalismo senza mai abbandonare la loro indole letteraria. Pippo Fava nasce però come giornalista e, del giornalismo, vuole far risaltare la sua essenza più pura: la cronaca.”(47)

Fava, come Pasolini (e Gadda e Fortini), usa il linguaggio per la denuncia rabbiosa, per la comunicazione della propria visione dolorosa del mondo. Dolorosa, ma combattiva. Mai accomodante, sempre dalla parte dell’uomo offeso, dell’uomo privato della dignità, della vittima dell’ingiustizia, della prepotenza, della sopraffazione. Lottare è essere vivi: “a cosa serve vivere se non si ha il coraggio di lottare…”, scrive(48). E’ lontana da lui – e non lo nasconde mai – qualsiasi concezione tranquillizzante (da passatempo) della letteratura. La sua è una scrittura impegnata, sartrianamente impegnata. In prima fila. Sempre. Fava è uno scrittore che scrive alle soglie del duemila. E’ uno scrittore del suo tempo. Certo, ma ogni tempo condensa in sé tutta la storia (passata e futura) di quel tempo. E gli uomini ed i tipi che indaga nei saggi, nei romanzi, negli articoli, nelle loro sfaccettature, nelle loro pose inquietanti o ridicole, nelle loro vite grame o beffardamente, sfrontatamente crasse, rappresentano il mondo reale, ribollente di ingiustizia e indegnità, di strafottenza e ricerca di felicità. “La storia – dice la Cannavò – è fatta del passato, ma è fatta anche del futuro. Sono convinta che Fava credesse che il futuro della storia siciliana, che è poi la storia del Sud – la Sicilia è Sud per l’Italia e per l’Europa, ma la storia dell’emarginazione e della solitudine è la storia di ogni Sud -, consistesse nella possibilità di affrancare tutti i Sud che esistono sulla faccia della terra da questo loro destino di Sud, da questo loro essere condannati sempre a subire i Nord, il peso di una sorte che dipende da mille fattori geografici, economici ma anche culturali, sempre subiti e mai voluti.”(49) Nei meridionali (e nei siciliani, in particolare) Fava ama il senso di amicizia, il valore dei sentimenti, la solidarietà spontanea. Ma odia lo scetticismo, l’indifferenza, la noia, la capacità di entusiasmarsi per un nonnulla, ma di restare insensibili di fronte a tragedie inaudite. Stigmatizza il senso di impotenza che promana dalle vite degli uomini del Sud, l’accettazione passiva degli accadimenti, la scarsa capacità di ribellarsi al proprio destino, del quale, in fondo, non si ritengono mai responsabili direttamente. Atteggiamento che si riflette anche in quell’ambito in cui più immediatamente il cittadino è chiamato a far valere il proprio senso di responsabilità, soggettivo e comunitario: la politica. Un uomo, un dolore, una gioia, un’infelicità: da qui nasce lo sfondo tematica dei suoi romanzi. E poi c’è la violenza. La violenza che, in Fava, ha mille facce, mille sfumature. Violenza dei gesti, delle parole, degli sguardi, dei sentimenti, ma anche delle scelte, del potere mafioso o di quello dello Stato. Violenza immaginata e reale. Violenza cupa e ostentata. Violenza da esibire platealmente perché atterrisce, incute timore, serve per esercitare il potere, come in Gente di rispetto, o violenza subita, di cui si è vittima e strumento, come il ragazzo della Passione di Michele, emigrato a Wolfsburg, dove diverrà assassino per gelosia. Sono tutti personaggi familiari, vicini al destino di tutti noi, anche se apparentemente distanti. Perché fare o subire ingiustizia, violenza, dolore e infelicità non è prerogativa di nessuno in particolare. Ed il compito dello scrittore, del giornalista, dell’intellettuale è sempre lo stesso: raccontare, per denunciare, raccontare per contribuire a migliorare il mondo, raccontare per capire. Come scrisse una volta lo stesso Fava:


Io mi batterò sempre per cercare la verità in ogni luogo ove ci sia confronto fra violenza e dolore umano. E per capire il perché.” (50)


1

NOTE


1 G. Fava, Nostalgia di una toga, in I Siciliani, I, 9, ottobre 1983, p. 15.

2 R. Cannavò, Pippo Fava, p. 33.

3 R. Cannavò, Pippo Fava, p. 116.

4 G. Fava, I Siciliani, p. 284.

5 C. Fava, La mafia comanda, p. 99.

6 C. Fava, La mafia comanda, p. 101.

7 S. Lupo, Storia della mafia, p. 203. C. Fava, La mafia comanda, pp. 55-70. Come noto e come ricorda anche Nando Dalla Chiesa, all’inaugurazione dell’autosalone di Santapaola intervenne il Prefetto di Catania Abatelli (N. Dalla Chiesa, Storie, p. 8).

8 A. Caruso, Da Cosa, pp. 329-330.

9 G. Fava, Cari figli miei questi “Cruise” saranno vostri, nel Giornale del Sud, 11.8.1981.

10 G. Fava, Lo spirito di un giornale, nel Giornale del Sud, 11.10.1981.

11 La vicenda è raccontata con dovizia di particolari da C. Fava, La mafia comanda, pp. 103-104.

12 Giorgio Bocca, Intervista al generale dalla Chiesa, in La Repubblica, 10.8.1982.

13 Intervista a Claudio Fava, in G. Russo, Editoria e ambiente: il caso della rivista “I Siciliani”, cit. in R. Cannavò, Pippo Fava, pp. 159-160.

14 I Siciliani, edizione straordinaria, 7.1.1984.

15 N. Dalla Chiesa, Storie, p. 9-10. Le vicende relative alla Procura della repubblica catanese sono raccontate da C. Fava, La mafia comanda, pp. 83-96. Il caso era esploso dopo un dossier inviato al CSM dal Prof. Giuseppe D’Urso, docente di urbanistica, in cui si rivelavano abusi inimmaginabili ed illegalità di ogni sorta della Pubblica Amministrazione cittadina, oltre che la connivenza dei giudici etnei. Tra costoro, un posto di merito era riservato al procuratore aggiunto Giulio Cesare Di Natale ed al procuratore Aldo Grassi, segretario , tra l’altro, di Magistratura Indipendente. Il procedimento davanti al CSM si concluse con l’archiviazione (quindici voti contro quindici), ma l’allora Ministro di Grazia e Giustizia aprì un’inchiesta, inviando tre ispettori. Costoro, in una relazione di 356 pagine, dimostrarono il grave stato di degrado in cui versava la giustizia a Catania. Elencarono fatti e vicende a dir poco inquietanti come insabbiare procedimenti per reati dei cavalieri, retrodatare atti per poter rilasciare certificati antimafia ‘puliti’ e non solo. Scrive Fava: “Poi (…) abbiamo saputo. Abbiamo capito. Quel giudice, i denari che intascava, i denari per cui ti aveva venduto. Peggio, i denari per cui aveva a lungo venduto la giustizia. Andavamo a trovarlo, raccontò un giorno un pentito, e lui ci faceva trovare l’elenco degli ordini di cattura preparati dagli altri magistrati. Ci mettevamo a tavolino e cominciavamo a leggere insieme i nomi: questo lo togliamo, questo lo lasciamo, con questo vediamo che cosa si può fare…” (C. Fava, In nome, p. 64). Il giudice cui si accenna è Giulio Cesare Di Natale, nei cui confronti venne disposta l’azione disciplinare da parte del Ministro Martinazzoli, in data 31.7.1984. Di Natale è definito da Claudio Fava, senza mezzi termini, “il più corrotto magistrato siciliano a memoria d’uomo” (C. Fava, Nel nome, pp. 110-111).

16 U. Santino, Storia del movimento antimafia, pp. 257-258.

17 G. Fava, I quattro cavalieri dell’Apocalisse mafiosa, in I Siciliani, I, 1, gennaio 1983.

18 G. Fava, I cento padroni di Palermo, in I Siciliani, I, 6, giugno 1983.

19 G. Fava, Sindrome Catania, in I Siciliani, I, 4, aprile 1983.

20 G. Fava, Vendiamo questi bravi ragazzi, chi li vuole?, in I Siciliani, I, 4, aprile 1983.

21 G. Fava, I dieci più potenti della Sicilia, in I Siciliani, I, 7, luglio 1983.

22 R. Cannavò, Pippo Fava, p. 167.

23 Politicus (pseud. di G. Fava), Arringa in difesa di un cavaliere mafioso, in I Siciliani, I, 9, ottobre 1983.

24 G. Fava, Oggi i mafiosi sono…, in I Siciliani, II, 12, gennaio 1984 (intervista realizzata da Enzo Biagi per il programma di Retequattro “Film-story” e trasmessa il 29 dicembre 1983).

25 N. Dalla Chiesa, Storie, p. 12.

26 Intervista al sindaco Angelo Munzone su “Repubblica” del 9 gennaio 1984. Citata in C. Fava, La mafia comanda, p. 113.

27 C. Fava, La mafia comanda, p. 113.

28 Intervista a Nino Drago, su “L’Unità”, 9 gennaio 1984. Citata in C. Fava, La mafia comanda, p. 114.

29 C. Fava, La mafia comanda, p. 115. Gli stessi episodi sono ricordati da C. Fava nello scritto In nome del padre, pp. 45-49.

30 I Siciliani, edizione straordinaria, 7 gennaio 1984. Val la pena ricordare che collegati al quotidiano La Sicilia, appunto perché di proprietà del medesimo editore, vi sono le tv Antenna Sicilia, Telecolor, Video 3 e Radio Sis. Inoltre, le tipografie di ciancio sfornano l’edizione siciliana di Repubblica.

31 Cfr. C. Fava, La mafia comanda, pp. 119-120.

32 Autocritica con rabbia, in L’Ora, 21 gennaio 1984. Citato in C. Fava, La mafia comanda, p. 121.

33 C. Fava, La mafia comanda, p. 123.

34 A. Caruso, Da cosa, p. 404.

35 C. Fava, Nel nome del padre, pp. 24-25.

36 C. Fava, Nel nome del padre, pp. 48-49.

37 N. Dalla Chiesa, Storie, p. 19.

38 N. Dalla Chiesa, Storie, p. 15.

39 Volantino distribuito dalla redazione de I Siciliani in occasione della chiusura del giornale. Citato in R. Cannavò, Pippo Fava, pp. 185-186

40 AA.VV., Alcune cronache su un caso di mafia, in I Siciliani, II, 15, aprile 1984, intervento di O. De Buono.

41 G. Fava, Foemina ridens, in Teatro, vol. II, p. 270.

42 AA.VV., Alcune cronache su un caso di mafia, in I Siciliani, II, 15, aprile 1984, intervento di Nando Dalla Chiesa.

34 AA.VV., Alcune cronache su un caso di mafia, in I Siciliani, II, 15, aprile 1984, intervento di Guido Neppi Modona.

44 Vincenzo Consolo, Un fastidioso e rumoroso estraneo, in I Siciliani, II, 12, gennaio 1984.

45 S. Addamo, La cronaca come letteratura, in I Siciliani, II, 12, gennaio 1984.

46 Cfr. G. Fava, Alien Sciascia, in I Siciliani, I, 5, maggio 1983.

47 R. Cannavò, Pippo Fava, p. 63.

48 G. Fava, Foemina ridens, in Teatro, vol. II, p. 270. Questa frase la si ritrova, come epigrafe, sulla sua tomba nel cimitero di Palazzolo Acreide, oltre che come esergo alla home page della Fondazione che porta il suo nome.

49 R. Cannavò, Pippo Fava, pp. 74-75.

50 G. Fava, Prefazione al Teatro, vol. I, p. 8.



BIBLIOGRAFIA


Opere di Giuseppe Fava


Romanzi, racconti opere teatrali:

- Pagine, ITES, Catania, 1969;

- Gente di rispetto, Bompiani, Milano, 1975;

- Prima che vi uccidano, Bompiani, Milano, 1977;

- Passione di Michele, Cappelli, Firenze, 1980;

- Teatro, Tringale, Catania, 1988.

- La ragazza di luglio, Il Girasole edizioni, 2003.


I libri-inchiesta:

- Processo alla Sicilia, ITES, Catania, 1967;

- I Siciliani, Cappelli, Firenze, 1980;

- Mafia. Da Giuliano a Dalla Chiesa, Siciliani Editori, 1982; II edizione Editori Riuniti, 1984;

- Un anno, Fondazione Fava, 2004.


Opere teatrali rappresentate:

- Vortice- Le vie della gloria, commedia, Palazzolo A., 1947;

- La qualcosa, commedia, Catania, 1960;

- Cronaca di un uomo, commedia, Catania, 1967;

- La violenza, commedia, Catania, 1970;

- Il proboviro, commedia, Catania, 1972;

- Bello bellissimo, commedia, Catania, 1974;

- Opera buffa, Taormina, 1977;

- Delirio, commedia, Catania, 1979;

- Foemina ridens, commedia, Catania, 1981;

- Ultima violenza, dramma, Catania, 1983;

- Mafia. Parole e suoni, commedia, Catania, 1984;

- Sinfonie d’amore, commedia, Catania, 1987.


Opere teatrali non ancora rappresentate:

- La rivoluzione, dramma;

- America America, musical;

- Dialoghi futuri imminenti, dramma;

- Il Vangelo secondo Giuda, commedia;

- Paradigma, dramma;

- L’Uomo del Nord, commedia (incompiuta).


Libri e cataloghi di pittura

- Donna, editrice O.B.I. (Orizzonti Bibliofilia Italiana), Roma, 1975.


Personali di pittuta

- Roma, Galleria S. Marco, 1966;

- Catania, Galleria La Fenice, 1975;

- Roma, Galleria Il Gabbiano, 1975;

- Catania, Centro Culturale Incontri, 1987;

-Taormina, Chiesa del Carmine, 2001;


Film tratti da opere di Giuseppe Fava:

- La violenza: quinto potere, Regia di Florestano Vancini - Sceneggiatura: Massimo Felisatti, Fabio Pittorru, Florestano Vancini - Cast: Michele Abruzzo, Mario Adorf, Riccardo Cucciola, Turi Fero, Aldo Giuffrè, Ciccio Ingrassia, Mariangela Melato, Gastone Moschin, Enrico Maria Salerno, 1972.

- Gente di rispetto, Regia di Luigi Zampa - Sceneggiatura: Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Giuseppe Fava, Luigi Zampa - Cast: Claudio Gora, James Mason, Orazio Orlando, Franco Nero, Jennifer O’Neil, Aldo Giuffrè, Carla Calò – Musiche: Ennio Morricone, 1975.

- Palermo oder Wolfsburg, Regia di Werner Schroter – Scneggiatura: Giuseppe Fava, Werner Schroeter, Klaus Dethloff, Orazio Torrisi – Cast: Ida Di Benedetto, Gisela Hahn, Antonio Orlando, Calogero Comparato, Tamara Kafka, Nicola Zarbo, Brigitte Tolg, Otto Sander, Magdalena Montezuma, 1980.

- Documentario Da Villalba a Palermo, regia di Vittorio Sindoni, su recedente progetto di Giuseppe Fava, 2006.


Bibliografia


- Cannavò, Rosalba, Pippo Fava. Cronaca di un uomo libero, CUECM, Catania, 1990;

- Caruso, Alfio, Da cosa nasce cosa. Storia della mafia dal 1943 a oggi, Longanesi, Milano, 2008;

- Cazzola, Franco, Della corruzione. Fisiologia e patologia di un sistema politico, Il Mulino, Bologna, 1988;

- Cipriani, Antonio, Mafia. Il riciclaggio del denaro sporco, Napoleone, Roma, 1989;

- Dalla Chiesa, Nando, Storie di boss ministri tribunali giornali intellettuali cittadini, Einaudi, Torino, 1990;

- Fava, Claudio, La mafia comanda a Catania, Laterza, Bari-Roma, 1991;

- Fava, Claudio, Catania: la città dei “cavalieri”, in Antimafia, n. 2, anno 1992, Palermo, pp. 37-38.

- Fava, Claudio, Nel nome de padre, Baldini & Castoldi, Milano, 1996;

- Lupo, Salvatore, Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, Donzelli, Roma, 1993.

- Perconti, Pietro, La mafia dei giornali, in Antimafia, n. 0, anno 1989, Palermo, pp. 11-16.

- Santino, Umberto, Storia del movimento antimafia, Editori Riuniti, Roma, 2000;

- Tocci, Walter, Per una critica del potere politico, in Democrazia e diritto, 3, luglio- settembre 1992, pp. 57-103.

- Turone, Sergio, Corrotti e corruttori. Dall’Unità d’Italia alla P2, Laterza, Bari-Roma, 1984;

- Turone, Sergio, Corrotti e corruttori. Dalla P2 alla droga, Laterza, Bari-Roma, 1987.


Film su Giuseppe Fava


- Giuseppe Fava: siciliano come me, Regia di Vittorio Sindoni, Cast: Ida Di Benedetto, Leo Gullotta, Corrado Gaipa, Mariella Lo Giudice, Giuseppe Lo Presti, Miko Magistro, Anna Malvica, Ignazio Buttitta, 1984.

- La trasmissione “La storia siamo noi” di Giovanni Minoli ha dedicato una puntata all’omicidio Fava.


Sitografia



- Ci sono 0 contributi al forum. - Policy sui Forum -