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Giorgio Celli e la poesia della scienza

"E’ sul terreno di un confronto con le ascendenze neoavanguardistiche, che la poesia di Celli rivela la propria perentoria originalità e, in pari tempo, le proprie connessioni con il lavoro del pubblicista e del saggista impegnato ad indagare i fondamenti, gli ambiti e i limiti del sapere scientifico..."

di Matteo Veronesi - mercoledì 17 gennaio 2007 - 5825 letture

Riproduco qui la mia postfazione al libro di Giorgio Celli "Stravaganze e irriverenze", edito dalle Grafiche Veronesi ( www.grafvero.it )

Anche in questo nuovo volume la poesia di Celli (espressione non certo marginale della vasta attività di questa eccezionale figura di scienziato-artista) conferma, almeno in parte, i caratteri e le ascendenze che possono ricondurla alla matrice dello sperimentalismo degli anni Sessanta e Settanta (basti qui ricordare l’adesione al Gruppo 63, cui è possibile connettere i Prolegomeni all’uccisione del Minotauro, l’interesse accordato al poeta visivo e teorico dell’avanguardia Adriano Spatola, la collaborazione con Antonio Porta legata all’edizione del crudele ed irriverente Lautréamont).

Assai significativa, sotto questo profilo, la propensione (peraltro mai gratuita o compiaciuta) all bisticcio di parole, al gioco fonico, all’intreccio sapiente di risonanze e di echi: "il giallo che dora e s’indora / colore inodoro / un po’ obeso, un po’ enfatico / e forse un po’ itterico" (per citare il testo d’apertura, l’immaginoso Elogio del giallo, estrosa rivisitazione del grande tema rimbaudiano del "colore delle vocali"); "se la parola rosa / si stinge, è corrosa / e in virtù di una diaspora/ la pensi onerosa" (così leggiamo nell’Elogio della rosa semiologica, testo che, riprendendo e variando in modo originale e spregiudicato motivi simbolici che vanno dal Roman de la rose al Marino al Chiabrera, esplora le vaste potenzialità logiche e stilistiche insite nell’arbitrarietà del segno linguistico).

Ma è proprio qui, sul terreno di un confronto con le ascendenze neoavanguardistiche, che la poesia di Celli rivela la propria perentoria originalità e, in pari tempo, le proprie connessioni con il lavoro del pubblicista e del saggista impegnato ad indagare i fondamenti, gli ambiti e i limiti del sapere scientifico e i suoi possibili legami, al di là di ogni rigida barriera specialistica, con la letteratura, il teatro, le arti figurative - i nessi, per citare Jacques Monod, che congiungono la "scienza della notte" alla "scienza del giorno", le regioni in larga parte oscure ed insondabili dell’intuizione e dell’ispirazione a quelle rese chiare e palesi dalla luce della ragione e della consapevolezza. È anche grazie a quella luce che la poesia di Celli si mantiene immune da certe esasperazioni e da certi esiti estremi a cui rischia di condurre, nella poesia di indole sperimentale e avanguardista, la deriva dei significanti emancipati dal senso e dalla logica, la glossolalia della parola scissa dalla realtà e dal pensiero, che può così finire per non significare altro che se stessa - esprimendo, peraltro, proprio per questa via aspra e tragica, la condizione di un uomo che è ormai, per citare Zanzotto lettore di Hölderlin, "un segno senza significato".

Nella poesia di Celli, al contrario, le parole conservano, e anzi accentuano, pur se coinvolte in un’estrosa e variopinta giostra di giochi sonori, fantasiosi intrecci, ambiguità e slittamenti ironici e divertiti (si pensi ai tre Trittici che, forse con sottile allusione numerologica, campeggiano al centro della raccolta), il loro pieno valore semantico, concettuale, direi quasi etico. Si potrebbe affermare che Celli combina e muove le parole e i versi come un genetista non dogmatico, e immune da cieco scientismo, farebbe con i geni, ottenendo, anche con minime variazioni, improvvise ed abbaglianti accensioni di significato e imprevedibili aperture concettuali. La parola poetica, al pari dello sguardo scientifico, riflette, e insieme illumina, le pieghe segrete del reale e della materia. Basterà leggere, per averne conferma, la splendida Ode al DNA (non indegna, per vigoria di concezione e d’immagini, di stare accanto all’Ode all’atomo di Pablo Neruda), che riesce mirabilmente a stringere, in un disteso e sapiente respiro poetico, una unitaria visione dell’universo e della storia "fatta corpo dalle origini", quasi una sorta di epopea della vita che procede, "battendo le vie dell’improbabile", dal "caso" alla "norma".


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