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"Garage". Regia di L. Abrahamson. Miglior film in concorso al Torino Film Festival 2007

di Dario Adamo - mercoledì 22 ottobre 2008 - 4030 letture

L’unica colpa di Josie è quella di essere troppo buono e un po’ ingenuotto. Al garage fa tutto quello gli si dice e se Mr. Gallagher, il suo capo, gli chiede di restare a lavorare anche il fine settimana, lui risponde affermativamente con l’espressione fiera e orgogliosa del dipendente diligente e fidato. Si preoccupa puntigliosamente anche di come deve essere esposto l’olio motore, anche se difficilmente qualcuno ci farà caso. Percorre molta strada a piedi Josie, perché ha un problema alle anche e camminare gli fa bene. A volte arriva fino in città, per bere una birra o comprare qualcosa al negozietto della bella Carmel. Per gli altri del paese è semplicemente lo scemo del villaggio e ogni tanto lo prendono in giro, ma lui, dall’alto della sua supposta cretineria, passa sopra a questi scherzi da “stupidi”. Vive solo Josie, nel retro di questo “Garage” fuori mano e poco frequentato, ma per i fine settimana Mr.Gallagher gli affida un giovane aiutante, un ragazzino di quindici anni, a cui lui dovrà insegnare il mestiere. Presto i due si faranno piacevolmente compagnia, chiacchierando (poco in realtà) e bevendo qualche birra insieme al tramonto. Purtroppo Josie fa qualche errore di calcolo: in un paese così piccolo la gente e parla e le voci girano e anche se lui non ha fatto del male a nessuno si ritrova in un bel guaio. Solo per essere stato gentile o forse solo un po’ ingenuo.

Leonard Abrahamson, regista di questo bello e triste Garage, premiato come miglior film in concorso al Torino Film Festival del 2007, abbandona l’ambientazione metropolitana del suo primo lungometraggio Adam & Paul e si trasferisce insieme al co-sceneggiatore Mark O’Halloran nelle verdi periferie di paese irlandesi, location ideale per raccontare la storia di questo mite personaggio, solo parzialmente inventato. Infatti, così come racconta lo stesso regista, Garage è basato su una storia vera o, per meglio dire, su un’ ingenuo scemo del villaggio realmente esistito e che ha dato vita a questo film.

La maggior parte del lavoro, confessa Abrahamson, è stata fatta prima delle riprese, cioè nel momento della scrittura e in particolare della “costruzione” di Josie, che doveva essere studiato nei minimi dettagli. E così è stato. Merito oltre che dei due sceneggiatori, anche di un grande attore come Pat Shortt, comico di grande fama in Irlanda e che si è prestato magistralmente per questo ruolo drammatico, lavorando moltissimo sulla fisicità meccanica del personaggio (dai gesti all’andatura), ma riuscendo a conferire anche eccezionale emotività. Il Josie che ne esce fuori non è il solito stupido, di cui tanto si parla in questo periodo, soprattutto dopo il recente Burn After Reading dei Cohen, ma un tenero omaccione, un po’ impacciato e tanto buono e altruista. “E’ una persona invisibile che vive in maniera invisibile, un uomo piccolo in un mondo grande” come ci dice Abrahamson richiamandosi anche alla clownesca Giulietta Masina de “La Strada” di Fellini. Soffre (anche d’amore) in silenzio e senza dare disturbo a nessuno e sparisce altrettanto silenziosamente, come un sasso tirato verso il fiume che non fa rumore nell’abissarsi fino ad adagiarsi sul fondale.

Un film caratterizzato da una forte contaminazione di stili, da un accentuato minimalismo bressoniano (il regista non nasconde l’influenza del regista francese) al carattere burlesco un po’ vaudeville e sicuramente non eccessivamente legato al contesto irlandese (non fosse per qualche pinta al pub e il verde del paesaggio non ci accorgeremmo nemmeno che ci troviamo in Iralnda).

Un cinema quello irlandese che ancora sibila e parla a voce bassa, ma che a breve, si spera, riuscirà ad alzare la voce e a farsi sentire da tutti.


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