Galleria del Novecento

di Pina La Villa - giovedì 6 dicembre 2007 - 9378 letture

Marguerite Durand "Portava un lunghissimo filo di perle. Se lo tolse, andò al banco dei pegni e, con i soldi ricavati, aprì un giornale: La Fronde. Il primo quotidiano interamente dedicato e, soprattutto, fatto da donne. Accadeva nel 1897, a Parigi. Marguerite Durand, ex attrice alla Comedie Française, sposata e divorziata, aveva lavorato alcuni anni nella redazione del quotidiano Le Figaro, dove curava una rubrica di corrispondenza. Un posto che le sta stretto e che abbandona nel 1896, dopo aver assistito, come inviata, a un congresso internazionale femminista. Durand decide che questa sarà la strada da seguire. Ha 32 anni.

"Un grande successo che inizia già dal primo numero, tirato in 200.000 copie. Marguerite la sera stessa dà una grande festa nella sede del giornale, un appuntamento che rinnoverà ogni anniversario, ogni 9 dicembre". "Come poteva mai farcela a sopravvivere, nonostante il consistente aiuto di due grandi ammiratori innamorati di Marguerite, due signori che si chiamano Alphonse e Gustave de Rothschild?

L’ha poi ammesso la stessa Durand: "Tutto è stato un bluff formidabile. Il mio giornale non ha mai avuto abbastanza abbonamenti per garantirgli la sussistenza per più di quindici giorni". Un bluff che è durato sei anni." Stoffa di grande direttrice nello scegliere le collaboratrici, giornaliste professioniste, nel volere inchieste e cronaca oltre all’agitare posizioni e rivendicazioni femministe, nell’organizzare lo stesso "Sindacato delle donne tipografe" perché alle donne non era permesso lavorare di notte.


Rita Majerotti

(1876-1960)

(Da Lapis 30, pp.56-57 Graziella Bonansea, Tra politica e sentimento- Nuove immagini del femminile nella storia di una maestra di primo Novecento )

Veneta, di estrazione piccolo-borghese, Rita Majerotti, scrive Il romanzo di una maestra, EDIESSE pubblicato a puntate su "La Difesa delle lavoratrici" dal I° settembre 1913 al 6 Giugno 1915 con il titolo Pagine di vita. Dalla ricostruzione che ne fa la nipote Anna Tonon ad un convegno del 1990, conosciamo il padre Eugenio, generazioni di insegnanti, garibaldino, precettore di quella che poi divenne sua moglie (e madre di Rita); la madre, Elvira de Mori, famiglia aristocratica, entourage austro-ungarico, donna raffinatissima, dolce e pia, riservava ad Anna un’ora della sua giornata per leggerle e commentarle "una pagina al giorno" di morale e comportamento cristiano".

Rita si sposò due volte. "la prima con Giuseppe Tonon, figlio di una famiglia "bene" trevigiana. Era la "pecora nera" che, non avendo voluto studiare più di tanto, dovette adattarsi a fare l’ufficiale del Dazio. Di lui nonna parla molto nel romanzo. La fece soffrire molto, morì alcolizzato a soli 38 anni, lasciandola vedova con due bimbi piccoli, il primo di quattro e l’altra di tre anni. La seconda vola si sposò nel 1916 [nel 1918 secondo fonti documentarie, n.d.c.] con Filippo D’Agostino, di nove anni circa più giovane di lei. Fu un lungo sodalizio, caratterizzato da un’assoluta comunione di ideali politici, di lotte, di lavoro e di persecuzioni. Vissero insieme fino all’8 novembre 1943, giorno in cui, - a seguito di un attentato a Roma - nonno Filippo venne arrestato e, il 4 gennaio1944, deportato a Mathausen, dove morì il 14 luglio dello stesso anno".

Ebbe tre figli, di cui la prima, Elvira, morì a un anno, e Arturo, processato dal tribunale fascista e lungamente perseguitato. "In una società ove la parola è detta spesso per nascondere il pensiero, ove si pesa per vedere quale sia di tornaconto maggiore, di miglior interesse prossimo o remoto, ove il sussiego si chiama dignità, ove gelosamente si nascondono i fremiti del corpo e i palpiti del cuore, ove la verità è delitto, ove il verbo - convenire - è quello che regola ogni azione, ove la realtà è nulla e l’apparenza tutto , questa spontaneità è …la regina delle virtù e il più grave, il più atroce, il più insensato dei difetti".

Gira varie scuole , sedi disagiate che spesso non le consentono di avere con sé i suoi figli. Determinante la conoscenza di Angelica Balabanoff. Rita scriveva su "La Fiamma", periodico settimanale, organo delle Federazioni socialiste del collegio di Lugo e su "Su compagne", giornale di propaganda socialista fra le lavoratrici. ("Scrivevo spesso ormai sul settimanale socialista, ma non sapevo che vi fosse un partito socialista"), e fu invitata a sentirla parlare a Conegliano perché un compagno temeva che nessuna donna avrebbe osato essere presente a quell’incontro. Le sue osservazioni sullo sfruttamento delle operaie delle cartiera da parte del padrone e delle monache. Il suo anticlericalismo le crea parecchi problemi nella comunità e nella scuola. "Fin dai primi anni, la sua attività di maestra nelle scuole rurali del Trevigiano, del Mantovano e del Milanese sarà accompagnata dalla passione per la politica. Nel periodo della prima guerra mondiale svolge un ruolo di primo piano nel contesto rivoluzionario pugliese, da cui verrà emarginata per le sue posizioni pacifiste….

Antifascista per elezione, lascia l’Italia nel 1926 insieme al secondo marito, ed è attiva nell’organizzazione dei fuorusciti italiani prima in Belgio e poi in Francia. Partecipa alla resistenza e, nel dopoguerra, è tra le fondatrici dell’UDI continuando così la sua militanza politica e sociale." L’articolo parla de "Il romanzo di una maestra" curato da Lucia Motti e dei due saggi di Maria Teresa Sega e Maria Antonietta Serci , che "aprono entrambi direzioni di studio per la scrittura storico-biografica". "Per Rita Majerotti l’etica stessa si radica nel sentimento, in contrasto con tutte le forme di pensiero che sostengono la necessità del controllo da parte della morale sul sentimento. Dunque non la medietà delle emozioni di cui ci parla Max Weber, fondamento delle società moderne, ma la passione, unica forma di superamento della divisione tra individuo e stato e delle barriere sociali, costituisce per Rita il dato di senso che sostiene il suo rapporto con la fede politica"[…]

Studiose come Simonetta Soldani, che hanno lavorato a lungo sull’identità delle maestre fra fine Ottocento e primo Novecento, hanno sottolineato che le maestre si trovano a svolgere in questo periodo l’unica professione intellettuale accessibile in forma generalizzata alle donne, e che, grazie a quest’attività, possono sperimentare modelli di emancipazione che avranno profonde ripercussioni nelle trasformazioni della modernità. Esonerate dal ruolo produttivo, le maestre si trovano ad esercitare una funzione di maternage sociale, potenzialmente affrancata dalle limitazioni della maternità biologica. E’ in questo spazio che le maestre possono far nascere nuove relazioni fondate sulla forza della parola".


Lidia Rolfi

(1925-1996)

Piemontese, di famiglia contadina, a diciotto anni entrò nella Resistenza come staffetta della XV brigata Garibaldi "Saluzzo". Arrestata nell’aprile del ’44, fu deportata due mesi dopo nel campo di sterminio di Ravensbruck. Lidia frequenta la scuola fino al diploma magistrale ottenuto nel ’43. Sono tutti gli anni trenta. E’ innamorata della patria, di Mussolini, della guerra. Riceve il primo e ultimo ceffone dal padre quando, all’entrata in guerra dell’Italia torna a casa dicendo "Viva la guerra". Ma poi la guerra presenta il conto e il velo cade. Lidia diventa staffetta, ma per poco.

La deportano, insieme ad altre 12 donne , a Ravensbruck. Sono le prime italiane. E’ un campo di lavoro, fatto costruire dai primi deportati nel 1939. La guerra è finita, Lidia ha la fortuna di ritornare. Nelle sue memorie il benvenuta è il colloquio col provveditore che è lo stesso di prima della guerra eche le nega il posto perché la circolare non parla di deportate. Il ritorno sono le allusioni dei colleghi, le difficoltà del lavoro e le incomprensioni dell’ambiente: la difficile ricostruzione, la continuità col passato: "I programmi erano cambiati in fretta e furia e in fretta e furia avevano stampato i libri di lettura. Buttati al macero "libro e moschetto, balilla perfetto" ora le letture erano infarcite di racconti edificanti, di bambini orfani, tristi, lavoratori, poveri, tutti buoni, tutti generosi. Le storie dei Santi si sprecavano, i miracoli della Madonna, le poesie sulla Madonna, i disegni della Madonna, i piloni della Madonna riempivano le pagine. Messi alla porta gli eroici balilla ora l’educazione dei pargoli si basava tutta su chiesa, casa, famiglia, sulle mani callose dei contadini e dei lavoratori. Mi preoccupai di insegnare a leggere e a scrivere senza errori"p.135 (corsivo mio).

I libri: Lidia Beccaria Rolfi-Anna Maria Bruzzone, "Le donne di Ravensbruck- Testimonianze di deportate politiche italiane", Einaudi; Lidia Beccaria Rolfi, "L’esile filo della memoria. Ravensbruck 1945: un drammatico ritorno alla libertà",1968 Einaudi; "Il futuro spezzato. I nazisti contro i bambini", Giuntina, Firenze, 1996, di Lidia Rolfi e Bruno Maida.


Edith Bruck

E’ nata in un villaggio ungherese ai confini dell’Ucraina da una famiglia di ebrei poverissimi. Sopravvissuta ai campi di sterminio dov’era stata condotta bambina, si è stabilita in Italia nel 1954. Opere pubblicate da Lerici, Guanda, Longanesi, Marsilio, Bompiani. "Ridotta davvero all’osso, allo scheletro di se stessa, modellata - si direbbe - più sui vuoti che sui pieni, più sul passivo che sull’attivo dell’esistenza, la poesia di Edith Bruck comunica tuttavia al lettore un senso di singolare e struggente letizia […]. Semplicemente, le mancanze intorno alle quali la Bruck costruisce (così come si costruisce una forma solida a partire dalla cavità di uno stampo) il suo piccolo canzoniere non ci appaiono mai subite, e nemmeno accettate (e tanto meno masochisticamente esibite), ma sempre in qualche modo conquistate, cioè, in ultima analisi, trasformate in valori, non importa (o importa moltissimo, invece…) quanto sofferti e dolorosi, quanto "pagati cari". Ed ecco, allora, che quella che potrebbe essere una patetica cantilena di rimpianti e di offese si muta, per via di sottili vibrazioni, di quasi impercettibili soprassalti della voce, in un sommesso, amaro, dissonante inno alla gioia: la gioia di essere sola e viva con la propria pena, con la propria divorante, eccitante nostalgia, con l’orrore e la tenerezza dei propri ricordi. (dalla quarta di copertina del libro di Edith Bruck, "In difesa del padre", Guanda,1980).

C’è chi colleziona farfalle / e chi colleziona medaglie / chi denaro chi francobolli / c’è chi costruisce armi / chi le usa / chi lavora se c’è lavoro / c’è chi si perde dietro un amore / vincendo una vita.

C’è il mare / c’è la montagna / l’aria sa di ginestra / le stanze di pulito / c’è di tutto / e tutto è tuo / non sei mai stata / tanto ricca / e così sola.

Nascere per caso / nascere donna / nascere povera / nascere ebrea / è troppo / in una sola vita.

Che mi vengano pure malattie e sciagure / che i giorni non siano meno faticosi / che esistano pure le brutture / che guadagnare il tozzo di pane / non sia più facile / tutto va bene / purché iddio che non c’è / (ho sempre meno paura a dirlo) / mi conservi fino alla fine / la nostalgia di te.

Vivere qui o altrove / è lo stesso / quello che conta / quello che tiene in vita / non è legato a un luogo / un paese vale l’altro. / Gli amici non mancano / perché non ci sono / i pochi rimasti / sono presi nel vortice / dell’infelicità propria.

Il potere non s’addice / alla donna / la imbruttisce / la deforma / la maschilizza / la ingoffa / la rende feroce / da far paura.

Crescono come selvaggi dicevi / senza Dio / senza un padre come si deve / senza un tozzo di pane / senza istruzione / senza futuro / povere figlie mie, / se sarete oneste ubbidienti / buone e pure / troverete qualcuno / che non bada alla dote / siete belle / siete più belle / delle figlie / del commerciante in legname / anche di quelle grasse / di Roth il riccone, / se non sarete schizzinose / e non pretenderete di scegliere / perché non ve lo potete permettere / la speranza di sistemarvi c’è.

A occhi asciutti / a stomaco pieno / in una casa di proprietà / con un lavoro autonomo / tra donne che gridano forte / tra uomini spaventati / è la mia ora / e non so più viverla.


Simone Weil

(Parigi, 1909- Ashford, Kent, 1943)

Liceo, fabbrica, guerra civile spagnola. Nel 1940 abbandona Parigi, fa parte dell’organizzazione "France Libre" Opere, tutte postume: L’ombra e la grazia (1947); La prima radice (1949); La conoscenza soprannaturale (1950); Lettere a un religioso (1951); La condizione operaia(1951). Contro la filosofia necessitaristica della storia, la Weil riafferma l’esigenza etica. Critica al marxismo e ritrovamento di Platone in nome della priorità del momento etico . Gnosi cristiana imperniata sul concetto di decreazione.

OPERE (postume):L’ombra e la grazia,1947; La prima radice,1949; La conoscenza soprannaturale,1950; Lettere a un religioso,1951; La condizione operaia,1951. "Quando penso che i grandi Bolscevichi pretendevano di creare una classe operaia libera e che di sicuro nessuno di loro - Trockij, no di certo, e nemmeno Lenin credo - aveva mai messo piede in un’officina e quindi non aveva la più pallida idea delle condizioni reali che determinano la servitù o la libertà operaia, vedo la politica come una lugubre buffonata" (Lettera ad Albertine Thévenon del 1934,poi in "Condizione operaia")

C’è per la Weil una componente di necessità nel lavoro operaio, che corrisponde ad un elemento di "subordinazione" a forze naturali e sociali oggettive, che è propria dell’essenza stessa dell’uomo, della sua dolorosa umanità e che non può essere trascesa nella realtà. L’unica possibilità per l’uomo è quella di ridurre il livello di oppressione presente in una data società, ridurre quell’elemento di arbitrio e di inaccettabile prevaricazione che la "lotta per la potenza" innesta nei già subordinati rapporti sociali ed economici. E ciò lo si può ottenere solo umanizzando, favorendo la cooperazione fra i lavoratori, creando "rapporti sociali modellati sull’organizzazione del lavoro". Il lavoro è un "valore umano"... non un qualcosa di cui l’umanità possa sbarazzarsi. Qui ha origine il male oscuro che ha colpito, secondo la Weil, il Movimento operaio di fronte al totalitarismo: aver determinato lo stesso male, essersi proposto un fine del tutto immaginario e aver generato, con Lenin, una società che ha oppresso "nella speranza di liberare". E’ da una tale visione del lavoro come simbolo dell’umanità e materialità dell’uomo e come segno della sua condizione di metafisica e strutturale alienazione che scaturisce il bisogno religioso.

Bibliografia "Sulla germania totalitaria"Adelphi,milano,1990; "La Grecia e le intuizioni precristiane", Borla, torino,1967


Maria Luisa Bombal

(1910-1980)

Scrittrice cilena vissuta fra Parigi, Buenos Aires e New York, molto apprezzata da Borges, ha scritto solo due romanzi brevi e cinque racconti presenti in un libro pubblicato da Sellerio nel 1997, "L’ultima nebbia" (ed. orig. 1935-46 trad. dallo spagnolo di Angelo Morino).

"Proprio negli anni in cui Marìa Luisa Bombal si formava alla scrittura, nel contesto letterario cileno predominava una sorta di progetto nazionalista retto da una visione positivista del mondo che, in sostanza, si traduceva nell’iperbole di un machismo che sul dominio della natura e di tutto quello che appare passivo - donna compresa naturalmente - fondava la liceità del caudillismo politico. Un sistema simile non poteva non proiettarsi sulla sfera sessuale, dove la donna si configurava come simbolo della forza tellurica da dominare e dava luogo al binomio natura vs cultura, che alimentò per lungo tempo le radici della cultura latino-americana. Ora, Marìa Luisa Bombal, in un simile contesto, non poteva che apparire una figura stravagante e trasgressiva, dato che la sua vita privata aveva a tratti assunto toni scandalosi: un tentativo di suicidio, l’omicidio - fallito - dell’uomo amato e la dipendenza dall’alcool…

Ma, soprattutto era la scrittura di questa donna misteriosa e tragica - come le sue eroine - ad apparire impertinente: Marìa Luisa Bombal è infatti la prima scrittrice latinoamericana a descrivere l’atto sessuale secondo una prospettiva femminile. Non solo, le figure maschili, nella sua narrativa, sono sempre figure di sfondo, e addirittura vagamente femminilizzate, là dove in primo piano si stagliano sensazioni, spazi ed eventi relativi a un mondo di donne che puntualmente profanano il modello simboleggiato dall’asessuata Maria Vergine. Anzi, l’esperienza sessuale appare - ad esempio in "Avvolta nel sudario" - come una fase iniziatica nella traiettoria di vita della protagonista.

Quale emerge dalle narrazioni della Bombal, il corpo femminile, ricettacolo e agente del piacere, è al contempo inserito nei ritmi e nei cicli della natura, integrato in un processo che trascende la civiltà e la cultura create dall’uomo: la donna possiede, così, i misteri ancestrali dell’acqua e della terra, come in "Segreti", o non invecchia, ed emerge nei contorni di una creatura selvaggia e sfuggente, come Yolanda, sorta di moderna Medusa, protagonista del racconto "Le isole nuove", in cui, inspiegabilmente, lingue melmose di terra sorgono e scompaiono sui laghi beffando i tentativi degli uomini che vorrebbero esplorarle… flusso indifferenziato di fango, alghe e meduse, le "isole nuove", insieme alla protagonista, rappresentano tutto ciò che è preedipico, vale a dire tutto ciò che precede l’entrata nell’ordine simbolico. La scoperta, da parte della donna, del proprio corpo e del piacere erotico, associato alla consapevolezza delle proprie potenzialità primigenie, rimanda pericolosamente a quella di un’identità autonoma e sfuggente rispetto alle maglie dell’egemonia patriarcale, sebbene ancora priva di un linguaggio con cui nominarsi […].

Da un’intervista all’autrice del 1940: "Tutto ciò che è mistero mi attrae. Penso che il mondo dimentichi fino a che punto si vive poggiando sull’ignoto. Abbiamo organizzato un’esistenza logica sopra un pozzo di misteri. Abbiamo accettato di ignorare la parte primordiale della vita, vale a dire la morte. Tutto ciò che è mistero rappresenta per me un mondo in cui mi è grato accedere, sia pure soltanto con il pensiero e con l’immaginazione".


Lalla Romano

Lalla (Graziella) Romano nasce a Demonte (Cuneo) l’11 novembre del 1906. Il padre, geometra, capo dell’ufficio tecnico comunale, è un appassionato fotografo. La madre è nipote di Giuseppe Peano, grande logico-matematico. "I miei genitori erano, stranamente, non provinciali" Lalla frequenta le elementari a Demonte, il liceo classico a Cuneo, l’Università a Torino. Studia Lettere. E’ amica di Pavese e Soldati. Tra i suoi maestri , il filosofo Annibale Pastore, il francesista Ferdinando Neri, il critico d’arte Lionello Venturi. Studia anche pittura, allieva di Felice Casorati. Nel ’29 incontra Innocenzo Monti, impiegato di banca, suo futuro marito: "Parlò di Modigliani con ammirazione, in tono grave, serio. E non sapeva che "ammirare Modigliani" (quello che significava) era proprio quanto contava nella vita per me". Si sposano nel ’32. Nel ’37 nasce il loro unico figlio, Piero.

Nel ’41 Lalla pubblica il primo libro di poesie, Fiore. Traduce per Einaudi i Trois contes di Flaubert . Lavora come insegnante e bibliotecaria. Dal ’47 vive a Milano. Lascia la pittura (e, nel ’59, anche l’insegnamento) per la scrittura. Ha pubblicato una ventina di opere di narrativa, quasi tutte da Einaudi. Tra le più famose: Tetto murato(1957), Le parole tra noi leggere (premio Strega 1969), Una giovinezza inventata (1979), Romanzo di figure (1986, brevi testi poetici a commento delle fotografie del padre), Nei mari estremi (1987), in memoria del marito)

Gli scritti di Lalla Romano sono raccolti nel due volumi delle Opere , curati da Cesare Cases per i "meridiani" Mondadori. (Da "Poesia" febbraio ’98, n.114, p.50)


Maria Luisa Berneri

Nata ad Arezzo il primo marzo del 1918, ad appena otto anni era fuggita con la famiglia alle persecuzioni fasciste a Parigi (era figlia dell’anarchico Berneri ucciso in Spagna su istigazione di Togliatti). Dal 1937 al 1949, vive a Londra col compagno Vernon Richards. In una foto appare il suo bel viso chiaro, i capelli castani e morbidi, la bocca carnosa e gli occhi infantili, ardenti. Muore nel 1949, a Londra.

Scrive "Viaggio attraverso utopia", edizione a cura del Movimento Anarchico Italiano, Carrara, 1981. Prima edizione, in inglese, nel ’50. Il libro inizia con "La nostra è un’epoca di compromessi, di mezze misure, di male minore. I visionari vengono derisi o disprezzati e gli uomini pratici governano la nostra vita. Non cerchiamo più soluzioni radicali ai mali della società, ma miglioramenti…" E lei quindi ripercorre nel libro tutte le utopie di cui è conoscenza, da Platone a Johann Valentin Andreas che inventò nel 1619 la città di Christianopolis, all’abbazia di Telème di Rabelais, a Foigny, al libro di Eugene Richter "Immagini del futuro socialista". Nella convinzione che il progresso dipende dal "grado di differenziazione all’interno di una società", dalla sua capacità di rafforzare la forza e la vita e la gioia dell’io.

Mumford dirà che quello della Berneri è lo studio più esauriente di "quella terra ideale".

(Notizie e citazioni da La Repubblica, 4 giugno 1998, Geminello Alvi, rubrica "Libri fuori corso")


bell hooks

bell hooks, "Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale", a cura di Maria Nadotti, (Feltrinelli, Milano 1998, pp.160, Lit.32.000).

Il suo primo libro è del 1981 "Ain’t I a Woman: Black Woman and Feminism". Questa è la prima raccolta di saggi pubblicata in Italia. "Nei dieci testi riuniti in questa antologia, tratti da alcuni dei suoi libri più recenti, bell hooks si interroga sul complesso articolarsi delle agende politiche del femminismo e del movimento dei neri e sull’intersecarsi delle rappresentazioni culturali della razza con quelle del sesso.

Prendendo spunto indifferentemente da fatti di cronaca e film, video musicali e avvenimenti quotidiani, libri e ricordi, trasmissioni televisive e servizi fotografici, bell hooks descrive sempre lo stesso meccanismo: da un lato il manifestarsi della "pervasiva politica suprematista bianca", sessista e razzista, dall’altro i tentativi di resistenza e opposizione delle donne nere." (Norman Gobetti, da "L’Indice", giugno 1998, p. 6).


Amelia Rosselli

"Amelia Rosselli nasce a Parigi nel 1930 da Marion Cave e Carlo Rosselli, che viene ucciso nel 1937 insieme al fratello Nello in un attentato organizzato dai servizi segreti fascisti. Nel 1940 si trasferisce con la madre e i fratelli a Londra, e poi negli Stati Uniti. Studia New York e, nel Vermont, frequenta gli ambienti quaccheri e lavora in campagna. Nel 1946 rientra in Italia e trascorre alcuni mesi a Firenze, presso la nonna paterna, ma sceglie poi di tornare a Londra, dove inizia a studiare musica e composizione. Nel 1948 è di nuovo a Firenze, presso la nonna paterna, e qui apprende la notizia della morte della madre, restata a Londra. Trova lavoro come traduttrice presso le edizioni di Comunità e si trasferisce a Roma. Qui stringe nuove amicizie (Rocco Scotellaro, Carlo Levi, Niccolò Gallo, Renato Guttuso…) e si dedica allo studio (letteratura, filosifia, matematica) e alla ricerca musicologica, pubblicando saggi su "Diapason", "Civiltà delle macchine", "Il Verri". Intanto scrive poesie - tra cui, nel 1958, il lungo poemetto "La libellula" (che pubblicherà solo nel 1983 da Se). Nel 1963 Pier Paolo Pasolini ne presenta alcune su "Menabò". L’anno seguente esce da Garzanti la sua prima raccolta poetica: "Variazioni belliche". Seguiranno "Serie ospedaliera" (Il Saggiatore, 1969), "Documento 1966-1973 (Garzanti, 1976), "Appunti sparsi e persi 1966-1977" (Aelia Laelia, 1983) , "Diario ottuso 1954-1968 (ibn,1990) e "Sleep. Poesie in inglese"(Garzanti,1992). Nel 1979 cura l’"Epistolario familiare" del padre, nel 1980 raccoglie per Guanda i propri "Primi scritti 1952-1963, nel 1981 pubblica il poemetto "Improntu" (Edizioni San Marco dei Giustiniani) e nekl 1987, da Garzanti, una scelta delle sue poesie, "Antologia poetica2. Per tutta la vita soffre di gravi disturbi pscichici. Muore suicida nel 1996.

Eraldo Affinati, in "Campo di sangue" (Mondadori, 1997, pp.121-122), ha scritto: "L’11 febbraio 1996, lo stesso giorno di Sylvia Plath, Amelia rosselli si getta dalla finestra della sua vecchia casa di via del Corallo, nel centro di Roma: il suo corpo sfonda una chiostrina e finisce nella parte dell’edificio raggiungibile solo attraverso i negozi che, essendo domenica, sono chiusi. Dopo diverse ore, i vigili del fuoco ne recuperano la salma. Poeti e narratori, pur evocando il silenzio, lavorano sul linguaggio: assomigliano a negromanti, in bilico fra vita e ignoto, il cui gesto espressivo ottunde tale distinzione. Ogni loro parola si trascina ancora dietro il vuoto dal quale, per contrapposizione vitalistica, deriva. Il progresso scientifico del ventesimo secolo, moltiplicando le possibilità dell’esistenza, sembra lasciar brancolare nel buio che, come lo scrittore, abita nel discrimine, alla frontiera della finitudine". "Difficile la collocazione della poesia della R. nel panorama italiano: una scrittura piena di "errori", neologismi, barbarismi, francesismi e anglismi, dà vita a una "lingua del privato", funzionale a ritrarre il fluire continuo dell’esistenza, da cui si isolano ricordi, emozioni, associazioni mentali imprevedibili, figure oniriche e sentimenti quotidiani" [el g]


Amelia Rosselli

(Venezia 1870-Firenze 1953) scrittrice italiana. Madre di Carlo e Nello Rosselli. Fu autrice di commedie in lingua (Anima, 1898) e in dialetto veneziano (El rèfolo,1912), di novelle (Gente oscura 1903) e di libri per bambini (Topinino,1905).


Francesca Spada

Protagonista del bel libro di Ermanno Rea, Mistero napoletano (Einaudi), biografia di una donna e di un’epoca. Napoli, anni cinquanta, il PCI degli anni della guerra fredda e del moralismo togliattiano. Quando ha quattro anni e del padre ufficiale si sono perse le tracce (altro mistero), con la madre si trasferisce a Napoli. Dopo qualche anno la madre si risposa e Francesca non va d’accordo con l’uomo scelto dalla madre. Sta bene solo nei lunghi pomeriggio passati con la cugina Miriam, dove si reca per le lezioni di musica che lo zio impartisce ad entrambe. Si definiscono in questi pomeriggi le rispettive inclinazioni e si immagina il futuro. Miriam eccelle (eccellerà) nella musica, mentre Francesca vede per sé un futuro di scrittrice.

Probabilmente per il disaccordo con la madre si sposa molto presto e presto, anche attraverso esperienze "mistiche" con un gruppo napoletano (?), scopre l’errore. Fatto sta che tradisce il marito e ha due figli da un altro uomo. ( Di fatto lei risulta sposata con x e i figli vengono riconosciuti, e assumono il cognome di y). Scopre con l’8 settembre, a Latina, la passione politica e la scelta del PCI. Il marito sceglie Salò. Non unico motivo della definitiva separazione. Il dopoguerra la vede a Napoli, amica degli intellettuali di punta del PCI o di area comunista (Renato Caccioppoli, il matematico morto suicida nel 1960).

A bazzicare la redazione napoletana dell’"Unità" (si occupa di critica musicale, poi si occuperà della cronaca, "l’anticamera della letteratura" secondo quanto scrive la stessa Francesca nel suo diario). La sua personalità, la sua cultura, il suo passato, la rendono personalità affascinante (ma probabilmente non presa in considerazione sul piano politico e comunque accettata perché eccentrica e tenuta a distanza per lo stesso motivo).


Maria Soledad Rosas

Anarchica suicidatasi la mattina di Sabato 11 luglio 1998 a Benevagienna, una comunità collegata al gruppo Abele in cui scontava gli arresti domiciliari, essendo sotto inchiesta con l’accusa di ecoterrorismo, per episodi sugli attentati in Val di Susa ai cantieri dell’Alta Velocità. Lei e il suo ragazzo, Edoardo Massari, suicidatosi in carcere lo scorso 28 marzo, erano sotto inchiesta soprattutto per due episodi: il lancio di una molotov nei pressi del nuovo palazzo di giustizia; il furto e l’incendio nel Municipio di Caprie, un paese della bassa valle. "Episodi che non sono in rapporto con i 15 attentati ma che fanno scattare, nella notte tra il 3 e il 4 marzo, l’irruzione nel centro sociale di Collegno dove Pellissero [dei tre l’unico vivo], Rosas e Massari vengono arrestati"

"Maria Soledad Rosas, figlia di un ricco commerciante di Buenos Aires, era giunta in Italia all’inizio del ’97 ed aveva lavorato in un albergo di Novara. A fine estate aveva conosciuto Edoardo Massari e nell’autunno aveva cominciato a frequentare i centri sociali torinesi. Anche per il breve periodo di permanenza in Italia non poteva essere certo lei la responsabile della catena di attentati in Val Susa. I magistrati torinesi infatti l’accusavano solo di alcuni episodi minori ma ipotizzavano che il gruppo dei tre anarchici fosse in qualche modo collegato alla sigla dei "Lupi grigi" che aveva firmato due delle quindici azioni nella valle. Il collegamento era dovuto al ritrovamento, sull’auto di Pellissero, di un pacco di volantini inneggianti alla fantomatica organizzazione"

"Si è suicidata la mattina di un sabato, come Edoardo, con un cappio al collo. L’hanno trovata alle 6,30 di ieri appesa al un lenzuolo nel bagno della cascina di Benevagienna[…] Come Edoardo Massari non ha lasciato messaggi scritti. Ha lasciato la sua disperata protesta: un corpo senza vita" Lunedi scorso la procura della repubblica di Torino aveva chiesto il suo rinvio a giudizio per i due episodi minori, provvedimento che le era stato notificato nella cascina "Ma ancora Martedi scorso la ragazza aveva incontrato don Luigi Ciotti, il fondatore del gruppo Abele: ’Mi aveva chiesto […] se era possibile trovare un lavoro fuori dalla cascina. Mi sembrava una persona che avesse voglia di vivere e lottare" "chi aveva incontrato la ragazza recentemente racconta di una persona estremamente sicura di sé, forse troppo. Forse, raccontano era una facciata, una maschera per farsi coraggio. Non resta che spulciare negli archivi per rinvenire spezzoni di spiegazione. Come quella frase che Soledad avrebbe detto il giorno dei funerali di Edoardo: "Ci rivedremo presto" (Da "Il manifesto" p.13, domenica 12 luglio, articolo di Paolo Griseri dal titolo "Morte di un’anarchica- Maria Soledad si è uccisa").


Constance Markieviwicz

"L’indipendenza nazionale era il sogno di Constance Markiewicz, contessa irlandese con un nome polacco quasi impossibile da pronunciare, figlia primogenita di ricchi proprietari terrieri trasformata dalla storia nella "madame" del quartiere operaio di Dublino. Maggiore dell’Ira e comandante di settore nella tragica insurrezione del 1916, braccata dai Black and Tan e pluricarcerata, fu la prima donna eletta in parlamento e ministro del Lavoro nel governo di De Valera. Vera "figlia d’Irlanda" e fondatrice dell’organizzazione giovanile Fianna, aveva un’idea di indipendenza nazionale del tutto anomala: refrattaria al monolinguismo e a qualsiasi identità etnica, svincolata da ogni credo religioso e con una forte venatura femminista.

Lottò per i diritti civili e sociali, per l’emancipazione delle donne e dei lavoratori, sempre fedele alla sua idea di nazione anche quando la carta dell’irlandesità contro il nemico inglese venne giocata imponendo precisi canoni linguistici e lasciando spazio alla censura ecclesiastica e il clima culturale si fece così soffocante da spingere all’emigrazione molti intellettuali. Constance morì nel 1927 all’ospedale dei poveri come una semplice "pauper". E forse non è retorico augurarsi, come fece De Valera nell’orazione funebre, "Gura fada buan a saothar", possano durare a lungo i frutti del suo lavoro. Per quella terra d’Irlanda che ancora oggi non trova pace" (Cristiana Acquati sul Sole24ore di domenica 12 luglio 1998, recensendo, col titolo "Il sogno di Constance" il libro di Marta Petrusewicz, "Un sogno irlandese. La storia di Constance Markieviwicz comandante dell’Ira", edizioni manifestolibri, Roma 1998, pagg.156, L.26.000)


Martha Nussbaum

Nussbaum insegna Diritto ed Etica all’Università di Chicago, ha scritto diversi libri pressoché assenti nelle librerie ma recensiti spesso dalla rivista "Il sole24ore". I miei appunti sono tratti da alcune di queste recensioni. A proposito del libro Terapia del desiderio, Vita e pensiero, recensito da Giovanni reale nel numero del 26 luglio ’98, scopriamo il metodo di indagine filosofica e il periodo che interessa all’autrice. Siamo in epoca ellenistica e l’indagine, al contrario di altri studiosi del periodo - "che puntano su un rigore e una precisione di carattere "esoterico" - cerca invece "di riportare in vita il costume seguito dagli stessi filosofi dell’età ellenistica" perché Nussbaum "ritiene che il rigore e la precisione siano sì necessari, ma non sufficienti. In effetti, dice giustamente l’autrice, ’rigore e precisione innestati su un linguaggio accademico arido, pedante o appesantito dagli usi gergali’ non aiutano certamente a comunicare a largo raggio i messaggi e inoltre non aiutano a risolvere i problemi della vita e a rispondere alle esigenze più profonde dell’uomo. Con un metodo assai raffinato, la Nussbaum scrive numerose pagine che comunicano chiari messaggi a tutti gli uomini di cultura, ben al di là della élite degli "addetti ai lavori". Marta Nussbaum sceglie allora una figura di donna come protagonista presentandola in cerca della pace dello spirito . Si tenga però presente che perfino in Atene la libertà di frequentare scuole filosofiche non era concessa alle donne in generale; in particolare solo certe etere, che avevano rotto con le regole della società, ma erano dotate di intelligenza, di sensibilità e soprattutto del desiderio di fare ordine nel proprio animo, entravano nei circoli filosofici. Diogene Laerzio ci informa che insieme con Epicuro e Metrodoro "vivevano molte etere e fra queste c’era Mammario, Edia, Erozio,e Nikidion"[piccola vittoria]. E come dramatis persona la Nussbaum sceglie proprio quest’ultima. Nella scuola dei peripatetici non erano ammessi se non uomini e di un certo rango; e, allora, Nikidion, per potervi entrare, non avrà altra scelta se non quella di travestirsi da uomo e, vedremo, con quali conseguenze. La scuola peripatetica non le insegnerà nulla mentre dalle altre e soprattutto dagli stoici imparerà l’arte di vivere che cercava nella comprensione di "quali siano i limiti dell’aspirazione umana alla virtù perfetta. Scopre l’umiltà e la giusta misura, l’approccio razionale alla vita. In un opera che miscela narrazione e meditazioni a discussioni rigorose e dettagliate scopriamo quindi che la filosofia ellenistica è attualissima, soprattutto quando, o perché, si presenta come cura dell’anima.

Martha Nussbaum, "Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea", Carocci, Roma 1999, pagg.338, L. 34.000 Da "il Sole24ore" di Domenica 6 giugno 1999 , recensione di Armando Massarenti Le Humanities americane meritano solo in parte le critiche che vengono loro rivolte. Non promuovono relativismo culturale, ma impediscono che lo studio superiore consista solo in una lista predefinita di classici del pensiero occidentale. Promuovono invece il dialogo fra diverse etnie. "In Coltivare l’umanità la Nussbaum continua la sua riflessione sulla cittadinanza concentrandosi in particolare su Socrate (con la sua idea di una "vita esaminata" costantemente aperta alla critica e all’autocritica) e sullo stoicismo antico: Cicerone e Seneca, in particolare, antesignani di una nozione allargata e cosmopolita di umanità, capace di guardare oltre, senza però svalutarle, la tradizione e la patria in cui casualmente ci è capitati di nascere. Il terzo elemento di questa nuova nozione di cittadinanza (già esemplificato in Il giudizio del poeta, Feltrinelli) è quello che lei chiama "immaginazione narrativa": ’la capacità di immaginarsi nei panni di un’altra persona, di capire la sua storia personale, di intuire le sue emozioni, i suoi desideri e le sue speranze’. Certo Nussbaum non nasconde i rischi , anche nell’attuale mondo accademico, del celebrare la differenza in maniera acritica. Per questo occorre coltivare l’umanità. "Presto noi tutti moriremo. Intanto, mentre viviamo , facciamo in modo di coltivare la nostra umanità" (Seneca)

Un altro articolo apparso sul Sole24ore del 17 ottobre 1999, è dedicato a Martha Nussbaum, di Francesca Rigotti, col bel titolo "Se la tradizione viola i diritti". Si parla dell’ultimo libro della filosofa di Chicago ( vi insegna Diritto ed Etica all’Università), non in traduzione italiana, dal titolo Sex and Social Justice, Oxford University Press, New York-Oxford 1999, pagg. 476, $ 35. "Che cosa hanno a che spartire l’amor platonico e la legislazione del Colorado? Basta leggere l’omonimo saggio ( Platonic Love and Colorado Law) di Martha C. Nussbaum, contenuto in questo libro, per scoprire che la filosofia greca classica può contribuire costruttivamente al moderno dibattito sull’omosessualità, anzi sulla "queer theory", come viene chiamata negli USA la discussione sulla sessualità non eterosessuale. La lettura dei classici della filosofia e della tragedia greca può portarci per esempio a capire - secondo Martha Nussbaum - che le relazioni tra lo stesso sesso non portano necessariamente all’erosione dell’edificio sociale e nemmeno al crollo della civiltà. Anzi, incoraggiare relazioni tra partner dello stesso sesso, come avviene nel Simposio e nel Fedro di Platone, può diventare un metodo valido per per rafforzare le strutture sociali perché tali coppie di amanti, grazie alla loro devozione al coraggio, alla lealtà e alla libertà politica, "rendono" molto di più insieme che separatamente. Proprio in base a questi argomenti il tentativo di alcuni cittadini dello stato del Colorado di togliere i diritti politici agli omosessuali fu, grazie a Platone e a Nussbaum, scongiurato. Questo è solo un esempio del modo di procedere e di argomentare della filosofa nordamericana Martha Nussbaum in questo libro che porta il titolo di Sex and Social Justice ma non riguarda affatto la giusta ripartizione del sesso, che diversamente dal buon senso di Cartesio, è forse la cosa peggio distribuita al mondo. Si tratta di una raccolta di 15 saggi, scritti negli anni 90 e riscritti poi per la pubblicazione in volume, che spaziano dallo sfruttamento delle donne in Bangladesh all’introspezione della sig.ra Ramsey in Gita al faro di Virginia Woolf. Già la scelta del termine Sex in prima posizione nel titolo rivela la scelta di Nussbaum di distanziarsi dagli studi di "gender". Questo benché ella citi e difenda le femministe più "arrabbiate" della scena nordamericana, Andrea Dworkin e Catharine MacKinnon, e benché dichiari di partire dal femminismo, purché questo rispetti determinate caratteristiche come l’internazionalismo, l’umanesimo, il liberalismo, l’impegno per la ricerca di preferenze e desideri e, infine, l’interesse a una conoscenza simpatetica. Il suo è piuttosto un appello a difesa di un universo di eguaglianza e mutualità per la situazione delle donne e degli omosessuali, anzi, a difesa di tutti gli esseri umani e delle donne viste come esseri pienamente umani. Insomma un appello per il rispetto generale della dignità umana e dei diritti umani anche quando la loro protezione venga a collidere con alcuni elementi del discorso e della pratica tradizionale, per esempio religiosa: in questo caso è la tradizione che deve soccombere, non i diritti. Nussbaum prende chiaramente posizione contro coloro che difendono pratiche tradizionali di umiliazione in nome appunto della tradizione, sostenendo che regimi settari intolleranti come quelli dell’Iran, del Sudan, del Pakistan e, sotto certi aspetti, di Israele, sono inaccettabili. Il libro è scritto con lo stile e la padronanza della materia tipici di Martha Nussbaum, una delle menti più creative, profonde e brillanti dello scenario filosofico attuale. Bisogna inoltre aggiungere che Nussbaum, professore di diritto ed Etica all’Università di Chicago, ha anche lavorato per alcuni anni a un progetto delle Nazioni Unite di analisi comparata dei diversi modi di vivere sul pianeta. Questo le ha dato l’occasione per conoscere e trattare diversi casi empirici, che vengono introdotti e discussi con vivacità nel dibattito teorico, conferendogli un aspetto particolare. Come il caso di Fauziya Kassindja, una ragazza di 19 anni che fugge dal Togo nel 1997 per sottrarsi alla mutilazione genitale e che vede infine riconosciuto il diritto d’asilo negli Stati Uniti. Il carattere dei saggi è eterogeneo. Vi sono recensioni di libri , una delle quali, Sex, Truth,and Solitude, in lode di Sir Kenneth Dover, apre degli squarci indimenticabili sulla vita e sull’opera del grande studioso dell’antichità classica, facendoci solo sognare di essere un giorno anche noi invitati nella sua casa di St. Andrew, Scozia, come è capitato a Nussbaum. Vi sono saggi militanti, come quello contro le pratiche di mutilazione genitale femminile, ove la tesi culturale, quella che dice che tali pratiche rispecchiano culture locali accettate e che stanno al mondo africano e orientale (non tutto fortunatamente) come le diete dimagranti stanno al mondo occidentale, è discussa con finezza. Discussa ma poi respinta in quanto i due eventi vengono dichiarati imparagonabili, benché pure le diete alimentari e le ginnastiche dimagranti possano essere imposte dall’ambiente e produrre risultati devastanti sul fisico delle donne. Vi sono saggi teorici, tra i quali quello che propone l’"approccio secondo le possibilità": in parziale accordo con Amartya Sen, l’economista-filosofo premio Nobel 1999, Nussbaum vi sostiene che lo scopo centrale della progettazione pubblica dovrebbe essere lo sviluppo delle possibilità dei cittadini di svolgere diverse funzioni vitali importanti. L’elenco di queste possibilità contiene quelle di vivere una vita di lunghezza normale e degna di essere vissuta, di conservare l’integrità e la salute fisica, di usare i sensi, il pensiero, la ragione in modo pienamente umano, di esprimere sentimenti e stringere amicizie, di vivere in sintonia con la natura, di avere controllo sull’ambiente, di giocare e divertirsi. Recentemente si parlava in queste pagine di Kymlicka e del suo approccio liberale al multiculturalismo (vedi il sole24Ore del 22 agosto): ebbene, Nussbaum non risparmia neppure il filosofo canadese, accusato di non far rientrare la negazione dei diritti legali e politici alle donne fra le violazioni "gravi e sistematiche" dei diritti umani E neppure è risparmiata la sua definizione di "gruppo": se un gruppo infatti non fa parlare i suoi membri più deboli, tra cui quasi sempre le donne, ma solo gli esponenti maschili più potenti, non andrà considerato rappresentativo degli interessi e dei bisogni generali, come pare invece ritenerlo Kymlicka. Interloquendo con Aristotele, Seneca e gli stoici, John Stuart Mill, Immanuel Kant e John Rawls e rendendo comprensibile anche al lettore comune ciò che questi autori hanno da dire sullo sfruttamento e l’umiliazione nel mondo contemporaneo, Martha Nussbaum ha insomma svolto ancora una volta un intelligente esercizio di scrittura colta e impegnata mostrando come argomenti all’apparenza disparati possano essere tenuti insieme dall’unità di stile e di scopi."

Nel nuovo libro di Martha Nussbaum un approccio alla Amartya Sen sulla questione femminile Sesso, diritti e capacità Di Francesca Rigotti Il lavoro filosofico di Martha Nussbaum è abbastanza noto al lettore specialistico. Nel suo nuovo libro però la filosofa americana si propone di indirizzarsi anche al pubblico dei non specialisti. Oggetto del suo studio è il problema del pieno dispiegamento del potenziale umano, femminile e maschile, nel mondo che ci aspetta. Per avvicinare il lettore meno abituato al linguaggio teorico, Nussbaum ha incluso nel lavoro la narrazione di casi concreti (in particolare quelli di due donne indiane, Vasanti e Jayamma) e materiale pratico filtrato dalla sua esperienza empirica e di osservazione sul campo.

L’impianto teorico del lavoro parte dalla posizione della donna nei Paesi del Terzo mondo, in base all’assunto che la disuguaglianza di "genere" è strettamente correlata alla povertà. La prospettiva adottata permette di non compromettersi con le questioni di casa ma consente allo stesso tempo di lanciare uno sguardo lungo al fenomeno della subordinazione femminile in posti lontani, per ritirarlo magari fino a luoghi a noi più vicini.

La tesi forte di Martha Nussbaum è che per arrivare a una soglia minima di rispetto della dignità umana (femminile e maschile) l’approccio migliore risulti quello fondato sulle capacità umane, anzi sul principio delle capacità di ogni persona, basato a sua volta sul principio di considerare ogni persona un fine in sé. Nonostante questa enunciazione chiaramente kantiana, non è Kant il referente della Nussbaum, o meglio non il Kant assertore di una concezione non cognitiva delle passioni e dei sentimenti, che Nussbaum non approva; né lo sono Rawls e Habermas, che sulla scia di Kant ignorano il peso degli "strong feelings" nei loro modelli procedurali di scelta politica. L’approccio secondo le capacità difeso da Martha Nussbaum infatti non solo dà un posto preminente all’immaginazione e ai sentimenti ma fa anche affidamento su di essi sul piano metodologico. Il referente principale della teoria del "capability approach" è l’idea marxiano-aristotelica del pieno dispiegarsi delle capacità e delle funzioni umane. Quel che le interessa è la soglia più alta di questo dispiegamento, quella raggiunta la quale la persona diventa un essere "veramente umano", degno di essere tale (Marx). L’idea centrale che Nussbaum accoglie è quindi il principio marxiano dell’essere umano in quanto essere libero e dignitoso che modella la propria vita in cooperazione e reciprocità con gli altri, invece di essere guidato o spinto per il mondo come l’animale di un gregge. È un vero peccato che l’autrice non sviluppi questo punto, che mi sembra di grande interesse. Ella invece preferisce solo accennare al suo debito marxiano-aristotelico per poi dedicarsi a spiegare minuziosamente in che cosa il suo approccio differisca da quello di Amartya Sen, che per primo lo ha introdotto in economia e che ne fornisce una trattazione completa nel suo recente "Development as Freedom" (ora pubblicato da Mondadori), e poi nello specificarne i caratteri. Noi ci chiediamo, dice Nussbaum sottolineando la propria specificità e originalità, che cosa le persone sanno o non sanno fare e le invitiamo a pretendere dai loro governi dei principi costituzionali che garantiscano un livello minimo di capacità. L’elenco delle capacità umane principali è lungo: vita, integrità fisica, libertà di pensiero, rapporto libero con le altre specie, svago, gioco... ed è diretto agli esseri umani in generale, con particolare attenzione al mondo delle donne. In molti Paesi del mondo per esempio le bambine non vengono incoraggiate a giocare: indirizzate come sono ai lavori domestici e alla sedentarietà, non sanno nemmeno come si fa. Diventeranno, se ricche, quelle matrone dalle curve morbide e dai gesti posati, non abituate a muoversi all’aperto, a cui il fisico magro e slanciato di Martha Nussbaum appare quasi peccaminoso. È chiaro a tutti a questo punto che le capacità di cui parla Nussbaum prendono nella sua teoria il posto dei diritti: sono imprescrittibili né possono mai venire eluse a favore di altri tipi di vantaggi sociali. Se noi guardiamo a ogni persona come a un fine in sé e non come a uno strumento per soddisfare bisogni altrui, questa concezione acquista corpo e spessore. È una prospettiva che può aiutare le donne a uscire dalla "logica del sacrificio", quella che chiede loro di porre il soddisfacimento dei bisogni dei familiari davanti alla realizzazione del proprio sé. In India, racconta Martha Nussbaum, lo zucchero costa molto meno del latte, così che le donne indiane povere mettono il latte nella tazza di té dei figli e del marito e lo zucchero nella propria. Eppure, mi viene da commentare, non sono gesti che facciamo tutti, che fanno tutti i genitori, madri e padri, per un tradizionale amore familiare che non mi sentirei di condannare, e che peraltro anche l´autrice esalta come condizione per il pieno fiorire del reciproco rispetto e dello sviluppo delle capacità umane. L’approccio secondo le capacità presenta comunque, ella spiega, dei vantaggi rispetto all’approccio secondo i diritti: non rischia di essere considerato di importazione occidentale perché non è legato a una cultura particolare o a una tradizione storica delimitata: se noi parliamo di ciò che le persone sono di fatto in grado di fare e di non fare, non diamo infatti nessun privilegio a un’idea occidentale, perché le idee di attività e capacità si trovano in qualsiasi cultura. Questo approccio inoltre salvaguarda il valore della diversità dei costumi senza preservare la brutalità di alcune pratiche: la violenza domestica, la monarchia assoluta o la mutilazione genitale. Ancora una volta, se la tradizione viola i diritti - o comunque vogliamo chiamarli - è la tradizione che deve soccombere, non i diritti (vedi "Se la tradizione viola i diritti", "Il Sole-24 Ore-Domenica", 17 ottobre 1999).

L’approccio secondo le capacità è universalistico, come lo sono la tolleranza religiosa, la libertà di associazione e le altre libertà maggiori, come lo è il principio di considerare ogni persona come un fine, ma la strategia migliore è quella di formulare norme e diritti universali come un insieme di capacità ("set of capabilities") per il pieno dispiegamento della persona umana e per la protezione delle sue sfere di libertà. - Martha C. Nussbaum, "Woman and Human Development. The Capabilities Approach", Cambridge University Press, Cambridge 2000, pagg. 304. - Amartya Sen, "Lo sviluppo è libertà", Mondadori, Milano 2000, pagg. 356, L. 35.000.


Tina Pizzardo

Cesare Pavese nel suo diario ne parla malissimo, lo ha fatto molto soffrire. Il questore di Ancona la descrive come una "donna molto pericolosa specie per la sua cultura e condizione sociale". Ma questa Tina di cui parlano frequentemente i documenti delle questure e delle prefetture di mezza Italia ha, oltre che un nome, anche un cognome che le restituisce - finalmente - una identità compiutamente definita, quella di Tina Pizzardo, antifascista, arrestata il I° settembre 1927 quale "fiduciaria del partito Comunista nella provincia di Grosseto", condannata dal tribunale Speciale il 28 Luglio 1928 a un anno di reclusione e tre di vigilanza speciale, scarcerata il 13 settembre 1928 e diffidata, di nuovo arrestata il 15 maggio 1935, scarcerata il 12 luglio 1935 e sottoposta ai vincoli dell’ammonizione fino al 10 maggio 1936" (Giovanni De Luna, Donne in oggetto, Bollati Borighieri, 1995, pp.274-275)

"Battistina (Tina) Pizzardo era nata a Torino il 5 febbraio 1903" da una famiglia di impiegati e di preti e badesse. Tutta la mia vita - ha scritto - quella che è veramente vita, il tempo delle scelte, il tempo dell’amore, è stata condizionata dalla prima scelta - non meditata, istintiva, inevitabile - di essere antifascista (…) e di restarlo a prezzo di miseria e di mia e altrui infelicità, sempre." (Memorie) (Memorie remote. Tina vi rinvia nel suo memoriale. "Il documento, dattiloscritto, conta 288 pagine e una nota in calce lo data "Luserna S. Giovanni, estate 1962". Si presenta come una vera e propria autobiografia, destinata anche a una eventuale pubblicazione, frutto però di successive stesure, alcune delle quali, come quelle relative alle pagine sul carcere, facilmente identificabili grazie alle annotazioni della stessa Tina) (n. p.407 De Luna) A nove anni le muore la madre e lei, insieme alla sorella minore, finisce in un collegio di suore dove rimane per otto anni. Un’esperienza che le tornerà utile nei periodi in carcere "Mi pareva di essere tornata in collegio - ricordava a proposito del suo arrivo nel carcere delle Mantellate a Roma, il 29 ottobre 1927, - dove l’attesa della libertà - a data incerta, adesso - dava, con un senso di provvisorio, la propensione a vivere alla giornata tra chiacchiere, monellerie, risate (…) ogni giorno dovevo trovare il modo di fare la doccia sotto l’unico rubinetto della sezione e, sdegnando il bugliolo, di servirmi solo del cesso. Altro tempo, e altre astuzie, per intrufolarmi in varie sezioni, specie in lavanderia, centro d’incontri, di notizie, di scambi"(Memorie)

L’altro fatto notevole della sua vita è la decisione del padre di iscriverla all’Università, fatto strano per l’epoca e la loro condizione sociale, che scaturì da una vincita al lotto di poche centinaia di lire. Nell’autunno del 1920 si iscrive, dopo la licenza magistrale e l’anno integrativo, alla facoltà di matematica e Fisica. Iniziando un periodo intenso che alle sue coetanee era per lo più precluso, fatto di buone letture (Stendhal) arte (i futuristi) poesia, discussioni. Ma soprattutto gli anni dell’Università sono gli anni in cui intraprende il rapporto con gli uomini e la militanza "In un ambiente ossessivamente maschile, degli uomini conobbe rapidamente tutta la vasta gamma degli approcci nei confronti delle donne" (De Luna 277p.) "lui [l’insegnante] che con voce monotona e viso impassibile spiega qualcosa e intanto allunga una mano sotto la tavola e mi accarezza le gambe, io che, non osando dir parola, di scatto, sposto la sedia per sfuggire, lui che senza interrompersi di scatto sposta la sua per avvicinarsi. A venti lire all’ora facciamo a scatti più volte il giro della tavola che è rotonda" (Memorie). Il suo primo amore è uno studente in legge, un amore segretissimo "che finì con un abbandono, la promessa di una rappresaglia (’mi ripromisi di baciare cento uomini in un anno’), e un impegno solennemente preso con se stessa: ’Mi sentii rinnovata, adulta; ora sapevo che l’amore viene e passa, l’accetto quando viene, ne trovo un altro quando passa. "Per sempre" non lo avrei detto più’"(De Luna, p.277)

Per quanto riguarda la scelta politica: "Dopo la marcia su Roma l’intransigenza nei confronti dei nuovi potenti fu il metro con cui cominciò a distinguere tra ’chi accettava la svolta storica per trarne profitto; chi si rassegnava a una silenziosa inerme attesa; chi non si arrendeva e voleva lottare’. Tina scelse di stare con questi ultimi, cioè, in maniera allora quasi assiomatica, con i comunisti." Tina diventa comunista per la scelta antifascista, come la maggior parte all’epoca, ed è antifascista per una scelta etica. Ma la scelta di essere comunista è anche la scelta di distanza rispetto ai modelli piccolo-borghesi, di rifiuto anzi radicale di essi. Il senso di questo rifiuto e della militanza lo vediamo nel ricordo compiaciuto delle rinunce: ’Ieri sera mi sono permessa un grande scarto dalla mia vita monacale che conduco di solito: sono stata all’operetta (…). L’operetta non mi piace, non sono più abituata ad andare in palco, la compagnia, la vista di questa grassa borghesia mi annoia. Ho giurato di non andarci più. Sono piena di rimorsi per la sera perduta - scriveva ad Altiero Spinelli il 26 maggio 1927."

"All’amore furtivo e clandestino con il suo primo ragazzo sostituì il rapporto d’amore con Liuben [lo studente che l’aveva indirizzata nel sua scelta della militanza comunista], fieramente ostentato, quasi esibito: ’Noi, liberati dalle convenzioni borghesi, giriamo la città, la collina, tenendoci per mano, guardandoci perdutamente negli occhi’. Una nuova scala di valori interveniva ora a dettare i suoi comportamenti: ’Contava anzitutto la lotta (…) e di conseguenza la solidarietà coi compagni; poi l’amicizia, che non mi poneva problemi perché non avevo amici nell’altro campo. Successo di prestigio, di denaro, di professione, di matrimonio, ecc. (…) non ci pensavo, e non ci ho mai pensato. Morale cristiana corretta - a buon senso, senza metodo - da morale comunista valeva per tutto il resto salvo l’amore. Salvo l’amore, dove non c’è morale che tenga, tutto è permesso senza esclusione di colpi e non piangere se ti pestano che te lo sei voluto’ Si iscrive quindi al PCI nel luglio 1926. Un anno prima si era laureata. Nel marzo del 1926 partecipa al concorso per l’insegnamento nelle scuole superiori ,vintolo, il 19 ottobre si trasferisce a Grosseto, insegnante di matematica e Fisica al Liceo Classico Carducci-Ricasoli. Qui assume il ruolo di "fiduciaria del partito" con la sensazione di "riattraversare, almeno parzialmente, il febbrile attivismo della militanza torinese: la distribuzione della stampa illegale, la raccolta di fondi e sottoscrizioni, l’impegno per il "soccorso rosso", la costruzione delle cellule" E’ entrata nella dimensione di vita della clandestinità caratterizzata, allora e per tutto il ventennio, dall’attesa del carcere che condizionava i ritmi e i progetti di vita, ma anche gli incubi: ’Stanotte non ho fatto altro che sognare il tuo arresto - scriveva Tina ad Altiero Spinelli, il 25 maggio 1927.- Ti portavano via, eri condannato a 60 anni di galera ( e Velio a 30), io assistevo senza una lacrima, perché non vuoi che pianga, disperata di non poter far nulla, di non poterti parlare’. E arrivò il momento anche per lei:19 giugno ’27: scoperta degli elenchi dei fiduciari a Bologna; 12 luglio, denunciata, 13 luglio, sospesa dall’incarico e 26 agosto, richiesta del Tribunale Speciale di avere in visione le lettere di Altiero Spinelli sequestrate in casa di Tina, a Grosseto: furono l’elemento decisivo, il I° settembre 1927 fu arrestata.

Ancora una volta le lettere d’amore vengono utilizzate dall’accusa ’piacevano molto le lettere d’amore ai poliziotti. Sghignazzando si leggevano l’un l’altro i brani di loro gusto: - Ma lei è pericolosa per gli uomini, non per il governo!’ La storia d’amore tra Tina e Altiero Spinelli dura pochi mesi intensi, poi vive nove anni di intenso epistolario con lui in carcere. Da questo epistolario e dalle loro rispettive memorie emerge una relazione di cui è possibile fare un "racconto storico unitario, in grado di restituircela con una forte carica di rappresentatività rispetto all’universo politico-esistenziale che ne costituiva lo sfondo. Si conobbero nel marzo 1926, a Roma, dove Tina si era recata per il concorso e si rividero in giugno, quando lei restò dieci giorni nella capitale per sostenere gli esami orali. Tra Luglio e Agosto fu Altiero a recarsi a Torino. Poi, dopo il trasferimento di Tina a Grosseto, si incontrarono ancora in sei-sette occasioni fino ai primi di giugno del 1927, quando Altiero fu arrestato. L’ultima volta fu, anzi, proprio la sera del 21 aprile, quando a Milano consumarono "la loro prima volta". "confronto tra due personalità in grado di declinare le proprie appartenenze al maschile e al femminile con pari intensità". Uniti nella scelta politica la loro diversità irriducibile sta nel tipo di rapporto che instaurano con la politica: "per Altiero l’impegno politico era stato subito indissolubilmente legato a una prospettiva di potere, era cioè diventato comunista ’come si diventa prete, con la consapevolezza di assumere un dovere e un diritto totale, di accettare la dura scuola dell’obbedienza e dell’abnegazione per apprendere bene l’arte ancora più dura del comando’. Per Tina le cose stanno in maniera diversa, lo vediamo sia dal giudizio che ne da Altiero, sia dal confronto che lei istituisce con Veniero, fratello minore di Altiero: ’era consapevole di quel che c’era di serio nella sua adesione al partito, ma era ben decisa a conservare per sé la parte più personale del proprio animo, le amicizie, le letture di romanzi francesi e dei poeti, il gusto delle cose belle’;(Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio)’ ’ Io so dov’è il disaccordo con Veniero. Lui è un uomo di azione, ha certi scopi ben determinati e si dirige senza indugi verso di essi. Non sogna. Tutto ciò che pensa si traduce in azione. Non ha scrupoli (…). Io sono ancora troppo civile, se riesco a pensare mi piace pensare e non sempre il pensiero anima immediatamente un’azione.’(lettera di Tina ad Altiero del 24-3-’33).

Questa diversa concezione della politica rese diversi i loro percorsi. Altiero a 18 anni era segretario della federazione giovanile laziale, nel ’268a 19 anni) diventa segretario interregionale per l’Italia centrale e poi, cambiando posto con Secchia, andò al Nord a dirigere il movimento giovanile comunista. A tina si apriva la strada di "moglie di funzionario" ’Ma a Milano che ci faccio io? La solita moglie-serva del compagno. Anzi non potendo tirare avanti in due con i pochi soldi che gli dà il partito, finisce che mettono anche me a fare il corriere. Moglie serva e funzionaria di partito. Funzionaria io, negata all’obbedienza cieca?’ Fra l’altro Altiero si portava dietro tutti gli stereotipi della sua educazione borghese e soprattutto il suo atteggiamento pedagogico, che contribuiva a respingere Tina (almeno nella ricostruzione che lei ne fa successivamente: ’Ricordo che quando parlavo per dire la mia (…) lui non mi guardava. Ascoltava attento, gli occhi accesi e un lieve sorriso, come chi spera di ghermire la preda (…) sta per cascarci? Un lampo di trionfo, c’è cascata! Invano mi dibattevo con rettifiche, spiegazioni, nuovi argomenti: ancora una volta era riuscito a farmi dire ciò che - per il suo settarismo, la sua preparazione marxista - era una sciocchezza. Pago della vittoria, mi tirava stretta al suo fianco, si faceva gentile, indulgente: (…) ero "una cara bambina", col tempo sarei diventata una "buona compagna". Quest’atteggiamento si accentuò con le lettere dal carcere: "Il carcere aveva determinato due solitudini. Quella di Altiero, racchiusa nelle mura di una prigione ma alimentata da certezze granitiche e sorretta da una grande fiducia in se stesso e nel proprio destino individuale; quella di Tina, affollata di dubbi, di pulsioni contrastanti, di slanci vitalistici destinati a entrare in una permanente rotta di collisione con il suo ruolo di compagna di un detenuto politico: ’Io avevo 24 anni e dovevo respirare, vivere (…). Aiutarlo durante la reclusione con lettere, libri, visite era un dovere che sentivo (…) mi piaceva volergli bene, ma anche avere amici con cui discutere, imparare, ridere e poteva anche piacere scherzare con il fuoco’ "Nel settembre 1929, dopo aver avuto la sospensione della vigilanza, attraverso un’altra sua amica ottenne l’incarico di direttrice della Colonia Marina dei fasci femminili milanesi a Rimini (Igea Marina). Una sorta di complicità tra donne l’aiutò a mantenere quel posto senza iscriversi al PNF.

Vicende di lavoro e familiari la riportano a Torino e qui a riprendere i contatti con l’antifascismo giellista (Leone Ginzburg, Paola Lombroso Carrara) e sono contatti più amicali che politici ma realizzano un distacco: ’I Carrara mi davano il primo, confortante esempio di gente che pur desiderando salvare - col socialismo - l’umanità, sa amarla al dettaglio, nei suoi singoli componenti". Questa scelta le costò la solitudine ’e ieri ho sentito che fra loro e me c’è un abisso. Dapprima ascoltavano sorridenti, un po’ scandalizzati un po’ divertiti, le mie franche, eretiche parole. Poi mi hanno isolata e ieri, pare, addirittura rinnegata. Un giudizio spiccio, non sono stata interrogata, ma giudicata in camera segreta. Finito. Non ci saluteremo più. Non ci conosciamo più. I nuovi amici mi sono cari, ma ai vecchi volevo bene. Solitudine’. Nel 1933 incontra Cesare Pavese e il giovane polacco Henek Rieser. Con entrambi, ma soprattutto col primo ha relazioni burrascose. Il 15 maggio 1935, "Tina fu di nuovo arrestata nella grande retata che portò all’azzeramento definitivo della "cospirazionealla luce del sole." Fu a Torino alle "Nuove". Questa nuova esperienza carceraria, durata solo qualche mese, fu più traumatica e determinante per le sue scelte future. "Qualcosa si ruppe nell’ottimismo e nello slancio vitale di Tina; ora era veramente "stanca di guerra". In maniera assai significativa e paradossale furono proprio i giudici ad aiutarla a mettere ordine nella sua burrascosa vita sentimentale.

"Così di Tina ora sapevano tutto [i giudici del Tribunale avevano messo le mani su tutta la sua corrispondenza e avevano indagato a fondo sulla rete di amicizie e di rapporti che legava gli antifascisti torinesi], anche quello che lei stentava a confessare a se stessa. In questo senso il giudice istruttore le parlò con cognizione di causa, emettendo una "sentenza" che, se non c’entra niente con il procedimento penale avviato dopo l’arresto, per Tina fu come una sorta di rivelazione di cose che lei confusamente aveva sempre saputo: ’il giudice (…) mi diede qualche consiglio. Pavese era da scartare; un presuntuoso, uno che non sapeva vivere se aveva scritto a casa - e mi lesse il pezzo che suonava all’incirca così: "qui giudici e carcerieri, tutti terra da pipe, potete immaginare come andiamo d’accordo" - Maffi deve essere un gran bravo figliolo, ma ha troppa voglia di ridere e giocare, e non ha una posizione. L’unico serio che dà affidamento è il terzo: un gentiluomo’. Tina decide di sposarlo, è Henek, il polacco, perché così, sposando un ebreo di nazionalità polacca, potrà eventualmente divorziare.


Irene Brin

(Maria Rossi)(1914-1969)

"Un pomeriggio del 1950 portava un tailleur di Fabiani con un cappello di fath in Park Avenue a New York, "dove l’ha preso, di chi è?", le chiese un’anziana donna-feticcio fermandola, con vera indiscrezione americana: ma era Diana Vreeland direttrice di Harper’s Bazaar, e così cominciarono le fortune della moda italiana negli Stati Uniti e la collaborazione di Irene Brin a quella rivista i cui altri collaboratori erano Truman Capote e Carson McCullers, Brassai e Cartier Bresson, la cui influenza era decisiva per la mescolanza di alta moda e avanguardia culturale, tra costume elitario dei ricchi e innovazione anticonformista dei ricchi".

Cattolica praticante, socialista, appassionata divorzista, leggeva almeno un libro al giorno "con la voglia di identificare l’aria del proprio tempo nelle cose marginali o mediocri che sono esperienza di tutti più che negli eventi storici che sono teatro dei leaders". Arroganza e allegria la sua divisa. Conosceva diverse lingue, viaggiò molto seguendo anche il marito nella guerra in Jugoslavia e sotto il bombardamento della Sicilia. Omnibus, Fronte, Il Mediterraneo - quando la censura fascista chiuse Omnibus. Galleria romana la Margherita. Obelisco in via Sistina, attirava le avanguardie culturali del momento, ma era anche bersaglio delle retroguardie, nei Cinquanta democristiani. "Lo stile di Irene Brin diventava famoso, deplorato dal moralismo marxista, irriso dal populismo d’epoca, imitato negli anni sessanta della sprovincializzazione italiana: uno stile asciutto, condensato, esatto, e insieme brillante, eccentrico, spiritoso; una scrittura chiara, bella, nervosa, e insieme riferimenti culturali precisi […] una informazione non provinciale, cosmopolita […] uno sguardo analitico capace di cogliere nelle persone e nei dettagli l’eloquente esemplarità del tempo, di conservare il costume per la Storia". Prima di morire un viaggio a Strasburgo per una mostra di Diaghilev.

Irene Brin è lo pseudonimo di Maria Rossi. Datole da Leo Longanesi all’inizio della sua collaborazione con la rivista Omnibus, divenne quasi il suo vero nome, la sua identità. Elegante, eccentrica, aristocratica, grande lettrice, lavoratrice instancabile preferì i giornali (scrisse poi sul Fronte e su Il Mediterraneo) alla letteratura, "al narcisismo egotista della letteratura il servizio altruista del giornalismo, alla presunzione d’immortalità la certezza di contemporaneità, all’espressione romanzesca di sé il romanzo dei personaggi della realtà". Oltre ai suoi articoli su Omnibus, scrisse però "Usi e costumi, 1920-1940", pubblicato nel 1944, ispirato a quegli articoli. Scrisse poi "Olga a Belgrado" e la raccolta di racconti "Le visite".

"Usi e costumi" raccoglie come in un dizionario, sotto le voci più varie, le sue annotazioni sul costume di quegli anni con uno stile veloce, ironico, e osservazioni puntuali, capaci di illuminare un’epoca. "Le ragazze" è una delle voci: "Davvero un malinconico furore di vita animò le adolescenti 1920, in una confusione dove il coraggio delle Crocerossine, la futilità delle madrine, l’indipendenza delle americane guidatrici di ambulanze, la frivolezza o la desolazione delle madri, si accordavano per creare inquietudini dense di fretta, di insolenza, di offerta […]. Un impiego possibilmente pittoresco, segretaria di attore cinematografico, giornalista, disegnatrice di figurini, manichina, grafologa, rappresentante di commercio, ballerina, anche; una stanza con ingresso sulla scala, e possibilmente a Parigi, o a Londra, o a Nuova York, con bagno e cucinino confinati negli armadi: un’automobile o una moto, utilitarie; la possibilità di bere dello champagne appiccicoso e del whisky di legno, ogni sera, in qualche locale notturno frequentato da negri e tempestato di palline in cotone, e di coriandoli; ecco tutto, e solo per fraterna tenerezza non nominiamo le illusioni d’amore che completavano questo sogno di ragazza moderna […]. Le mode eccessive le trovavano pronte all’imitazione e all’esagerazione, ebbero il sarcasmo facile, e la riflessione difficile. Marie-Claire, loro organo ufficiale, diffondeva, inutilmente, esortazioni alle marmellate, o al ricamo: anzi le provviste in scatola di latta ed i collettini di organdi in serie furono parte principale dei loro sogni, e i film americani accrescevano la falsità di un costume sproporzionato tra le apparenze, e le realtà delle vita quotidiana […]".

Irene presenta anche lei nel libro una galleria di donne, sotto il titolo "Le protagoniste". Si tratta di donne dell’alta società, eccentriche, ricche, per lo più, donne di cui si parlava allora, l’equivalente delle attuali attrici e attricette, che in fondo incarnavano i miti delle ragazze di cui si è parlato prima: La Regina di Rumenia, Lady Mendl, la contessa Dorothy Dentice di Frasso (pigmaliona - se si può dire - di Gary Cooper), Amalia Guglielminetti (poetessa), madame Martinez de Hoz, Lucienne Boyer, Greta Garbo, Odette Pannetier (giornalista di Candide), Anna De Noailles "di grande famiglia quasi orientale per nascita, di grande famiglia francese per matrimonio, scandalizzò deliziosamente il Faubourg, dimenticando le sue sottovesti, e apparendo splendida fra i tulle trasparenti; citava Platone invece di dire buongiorno. Un’estasi piacevolmente comprensibile raggiava da lei, dai suoi amori dalla sua poesia. Faceva l’amore, faceva i sonetti: il primo, sembra, le importò meglio dei secondi, ed incontrando un giorno un’amica, davanti all’ascensore di casa, le chiese, con gravità: "que ferons-nous, ma bonne, lorsque nous ne pourrons plus faire l’amour? C’est bien simple, nous ferons kara-kiri", e in ascensore si librò pronta verso il cielo. Ma purtroppo non fece kara-kiri: divenne cavaliere della legion d’onore, divenne vecchia, ed ansiosa di giovinezza: lasciò decorare il suo castello di lettucci sospesi in ferro, di seggiole a tubo, si tagliò i capelli, scrisse, morì" (Usi e costumi, pp.62-63).

Marta Palmer, Marie Laurencin, Mariette Lydis, Paola di Ostheim, principessa di Sassonia Weimar (scrittrice, conobbe D’Annunzio), Chanel, Marta Abba, Gertrude Stein, Elsa Maxwell, Andrée Caron (Odette), Muriel Philipps Pawley, Clara Bow: "Nei suoi film impersonava sempre una ragazza piacente anche troppo,e, per colpa dei suoi capelli e del suo sorriso, costretta a difendersi dalle insidie di vilains temibili. Alla fine la virtù tronfava sempre, e si supponeva che la sua vita privata, nonostante i divorzi, le fughe, gli abiti audaci, avesse sempre conclusioni rassicuranti. Invece la sua segretaria, per ricattarla, pubblicò lettere, diari e documenti che la rivelarono interamente corrotta. Ninfomane, lesbica, alcolizzata: dovette intervenire Hearst, il custode del Buon Costume Americano, per imporre il silenzio, e Clara, ufficialmente salvata e coperta, finì la sua carriera di attrice. Ebbe naturalmente la domestica a mezzo servizio, negra, le piatte bottiglie di whisky falsificato, la miseria, grassa, cardiaca, solitaria". Amy Mollison "la dattilografa volante, vinse una quantità di primati, e sposò un aviatore. Ma dovette divorziare, quando ebbe battuto anche un record di suo marito, che non le perdonò di aver compiuto il raid Londra-Città del Capo in tempo minore. Divenne poi collaudatrice di apparecchi militari, e, durante la seconda guerra mondiale, la si fotografò spesso, ai fini della propaganda". Mrs. Massie violentata da un chitarrista durante una vacanza ad Honululu, suo marito e sua madre si vendicano uccidendo il colpevole e vengono condannati a un’ora di carcere che trascorsero in casa del governatore; Sophie Tucker (cantante), Isa Miranda "dattilografa milanese […]. Il suo nasetto irregolare, è divenuto per pura forza di coraggio, il tratto più ammirevole e toccante di un viso ormai celebre tra le folle"; Caterina Mansfield, Mae West, Jane di san Faustino, scrisse delle memorie pubblicate su Omnibus, che fecero preoccupare i rappresentanti del bel mondo; La baronessa Kayser, Ludmilla Pitoeff "la massima attrice del nostro tempo", Frieda Lawrence, l’attrice Costanza Bennett. Sono le donne di Irene.


Cristina Campo

"Cristina Campo è una scrittrice postuma, com’è voluta essere. In vita ha pubblicato tre soli libri. Uno di poesie, Passo d’addio, da Scheiwiller nel ’56, e due di saggi: Fiaba e mistero da Vallecchi nel ’62 e Il flauto e il tappeto da Rusconi nel ’71. Il resto è una seminagione sparsa in sedi diverse e spesso impervie, più spesso ancora dissimulata sotto pseudonimi [come lo stesso Cristina Campo, pseudonimo di Vittoria Guerrini]".

Undici anni fa l’Adelphi ha pubblicato - lei è morta nel ’77- Gli imperdonabili, le prose edite negli anni sessanta e settanta [contiene Fiaba e mistero; il Flauto e il tappeto, altri saggi]. Sette anni fa poesie e traduzioni comparse nel volume La Tigre assenza, a cura di Margherita Pieracci Harwell. Ora, 1997, sempre la stessa casa editrice pubblica Sotto falso nome, altre prose fortunosamente trovate a cura di Monica Farneti. "Raccoglie scritti diversi distribuiti nelle due sezioni di ’saggi e recensioni’ e ’Note e frammenti’, più un ’Appendice’ costituita dalla controtraduzione di un racconto tradotto in spagnolo da Hernàn Mario Cueva, La nuez de oro (La noce d’oro), di cui s’è perso l’originale italiano. Una piccola Combray domestica intrisa di luci e di penombre, piena di voci e di cose che trasformano l’infanzia remota nei misteri di un’ecofania fiabesca".

"Amo il mio tempo perché è il tempo in cui tutto vien meno".


Camille Paglia

Intervista di Anna Di Lello su Marie Claire di Settembre ’98, pp.199-204 "Dalla pubblicazione nel ’90 del suo primo libro (Sexual Personae, Einaudi), Camille si è imposta come la critica più spietata del femminismo e la contestatrice più informata e divertente della cultura popolare. Ma continua a restare ai margini dell’establishment intellettuale, con un incarico all’Università delle Arti di Philadelphia. E’ considerata invece una sorta di guru negli ambienti omosessuali, ed è la leader di un piccolo culto della personalità, raccolto attorno alle sue rubriche sulla rivista on line Salon e alle comparse televisive […] Le femministe […] ’Hanno reso le donne tutte vittime. E hanno oscurato il potere che invece le donne hanno, ovviamente non nella sfera sociale e politica, ma in quella sessuale’[…] ’Il femminismo continua a definire il potere come potere politico. Invece la complessità delle relazioni tra i sessi è enorme’ […] Non è certo una conservatrice ma detesta il perbenismo del pensiero progressista americano, specialmente nella forma espressa dalle élite intellettuali. Suo padre era un insegnante, il primo in una famiglia di immigrati ad andare all’Università grazie alle borse di studio per i reduci di guerra. E il mondo intellettuale di Camille resta radicato nel senso comune della gente modesta. […] Il femminismo non ha capito l’importanza dell’unità familiare. ’ormai i sessi non esistono più sono diventati costruzioni di genere. Si è fatta tabula rasa della biologia, è come se gli ormoni non esistessero. […] Come puoi insegnare gli women studies senza una base scientifica?’ L’omosessuale Camille non crede che si nasca gay. Di giorno viviamo una vita apollinea […] e quindi è importante essere dionisiaci di notte, aumentare cioè la dose di libidine".


Sylvia Plath

Dal Manifesto del 30 ottobre 1998, scheda di Daniela Daniele in occasione della morte del poeta inglese Ted Hughes, dal titolo "L’intreccio di due vite - Poesie per ritornare al rapporto con Sylvia Plath"

"lettere di compleanno" (farrar, 1998), l’ultimo libro di Ted Hughes, è un folgorante omaggio alla moglie, Sylvia Plath. La forza lirica e la sincerità di queste lettere senza risposta incoraggia una interpretazione della figura umana dell’autore meno viziata dal sospetto che lo ha circondato dopo che Sylvia Plath si tolse la vita, quel maledetto giorno del febbraio 1963. E’ la voce di un poeta che se ne era rimasto in disparte, davanti alla folla di "sgranocchiatori di noccioline" che, dopo aver consumato il suicidio della poetessa, aveva cercato di demolire il poeta "laureato", dando a lui tutte le colpe di quella tragedia. Perché era stato Hughes a distruggere i diari di Sylvia nei terribili giorni in cui scriveva "Ariel". Era stato lui ad averla tradita unendosi a una donna che sarebbe morta come Sylvia, nello stesso giorno e nello stesso modo. Allora Hughes, amareggiato, deve pazientemente ripartire dall’inizio e raccontare, momento per momento, la parabola intensa del suo rapporto con la sposa fragile, poi diventata dea (auto) distruttiva. In un ultimo, sentito omaggio Hughes sceglie la forma "confessional" privilegiata dalla moglie, e dagli altri poeti americani degli anni ’50, da Robert Lowell alla Sexton. E così racconta con le sue parole, con le parole di lei, l’incontro di due immaginari, prima complementari, poi incompatibili. Un intreccio di due vite che, al di là del drammatico epilogo, Hughes invita a rileggere attraverso la forza delle loro fantasie. In questo percorso comune, prevale sui dettagli banali del quotidiano la storia di una "coppia letteraria" che Sylvia credeva perfetta, in cui i miti ferini di lui si sovrappongono al bisogno di trascendenza di lei. Due vite contigue, che ora si intrecciano, ora si escludono."


Colette

Nel 1949, quando diventa Presidente dell’Accademia Goncourt, ha settantasei anni. Finalmente può guardare gli altri senza paura di essere ferita. "Ho un bel posare ad anziano ragazzo. In realtà gusto tuttora un piacere molto femminile nell’essere l’unica donna nei pranzi Goncourt, circondata da un aeropago di uomini: cinque, sei, otto, nove uomini. Dei veri uomini, nonostante l’età, con dei difetti da uomini, delle seduzioni da uomini". Al fotografo il suo viso appare quello di chi "non ha appreso nulla se non bruciandosi".

Scrisse, fra il 1900 e il 1950, circa sessanta libri fra romanzi, memorie novelle, diari, dialoghi, prose d’occasione. La sua riserva di immagini era quella dell’adolescenza, anzi meglio, di un giardino e degli alberi della sua adolescenza a Saint Sauveur, un paesino della Borgogna. Da qui era arrivata a Parigi, negli anni della Belle Epoque, col suo primo marito, un giornalista che la avviò alla scrittura firmando i suoi racconti, a cui lei affidò tutta la sua vita e da cui fu abbandonata dopo tredici anni. Senza soldi e soprattutto senza status. Lavora al Music-hall, riprende a scrivere e a pubblicare, nel 1911 ottiene tre voti dalla giuria del Goncourt, ma incappa in un nuovo Henry: inutilmente la madre la mette in guardia. A quarant’anni ha una bambina e gode, allo chalet di Passy, tutte le gioie femminili. A cinquant’anni è di nuovo sola. Scrive finalmente col suo nome: Colette. Di questi anni Chéry, Il grano in erba e La fine di Chéri. A sessantadue anni sposa Maurice, un uomo più giovane di lei che per la prima volta le infonde sicurezza e le dà benessere. E continua a scrivere "si legge e si dimenticano le parole, ci si dimentica la barriera del linguaggio scritto, l’autore, la cultura. Si legge. Si vive" (Le Clézio).

"E’ di nuovo un giudizio che dopo vari anni conferma quello di de Montherlant: la stupenda prosa di Colette è una prosa così immediata da risultare trasparente, è una prosa straordinariamente naturale […]. La prosa di Colette, in verità, non andrà mai oltre se stessa e finirà col realizzarsi in due soli generi di libri. Il primo - romanzo o novella - è l’eterno libro che narra ’l’inferno del quale non posso fare a meno, il dolore d’amare’ Innamoramento, gelosia, abbandono, inganno […]. Il secondo genere di libro è quello d’occasione, tessuto coi fili dell’esperienza personale. Poco diverso dal primo sostanzialmente. Solo che in luogo della trama ha pensieri, incontri, ricordi, sogni a occhi aperti. Non detti, ma sussurrati all’orecchio in modo ambiguo, accattivante e dolce, come una donna seducente che voglia trasformare il lettore in un complice: il complice d’una confidenza speciale" [p.39 da "Le lettere del mio nome" di Grazia Livi, La Tartaruga, 1992]


Zora Neale Hurston

Nata in Alabama nel 1891, morta in Florida nel 1960, il suo nome è legato alla "Harlem Renaissance", movimento che "si pose il compito di raccontare e definire l’identità afro-americana, nelle sue componenti originarie, nelle sue diversità, nei suoi caratteri africani e americani, e non solo, in polemica con la cultura bianca ma anche con quella nera delle precedenti generazioni. Se Hughes stilò il manifestio del movimento (L’artista nero e la montagna razziale, 1926), fu la Hurston, oscillando per tutta la sua vita tra la ricerca antropologica e la narrativa, ad esserne la punta. Allieva di Boas, scrive nel ’35 "Muli e uomini", frutto di una lunga ricerca sul campo. Il testo più famoso è "I loro occhi guardavano Dio", un romanzo ora pubblicato da Bompiani col titolo "Con gli occhi rivolti al cielo". Pubblicato in Italia per la prima volta da Frassinelli nel ’45 a cura di Ada Gobetti, allora vicesindaco di Torino nell’Italia appena liberata.. Marsilio ha pubblicato tre racconti "Tre quarti di dollaro dorati", e, sempre Frassinelli, nel ’46, uno scritto minore, "Mosé l’uomo della montagna"

"l’uomo bianco butta via il fardello e dice all’uomo negro di raccoglierlo. L’uomo negro lo raccoglie, perché è costretto, ma mica se lo tiene. Lo passa alle sue donne. La donna negra è il mulo del mondo" [vedi articolo di Goffredo Fofi su "Il sole24ore" di domenica 18 ottobre 1998].

Con gli occhi rivolti al cielo, Traduzione di Adriana Bottini, Bompiani, pp.191, 25.000 lire "scritto in sette settimane nell’autunno del 1936, ad Haiti, dove la Hurston, allieva dell’antropologo Franz Boas, studiava culti voodoo, racconta una storia d’amore fra una quarantenne e un venticinquenne sullo sfondo di Eatonville, in Florida, la prima città autogovernata da neri in America, dove bambina si era trasferita con i genitori. Ma è anche la storia del lento affiorare alla coscienza di sé di una donna attraverso l’amore. Janie Crawford, l’eroina, è un’adolescente appena sbocciata quando la nonna che l’ha allevata, sentendosi vicina alla morte, per garantirle una vita sicura, la sposa a un vedovo con una casa, sessanta acri di terra e una ciambella di grasso sulla schiena. Janie non riesce ad amarlo e un giorno lo lascia per un uomo elegante e dall’aria cittadina che la aspetta sulla strada. Un matrimonio infelice e ci vorranno ancora vent’anni e la morte del secondo marito per incontrare l’amore, il giovane e allegro Tea Cake, che la porterà con sé negli everglades, a raccogliere fagioli durante il giorno e a suonare e ballare il blues la notte, restituendole "il linguaggio della giovinezza". La felicità non durerà molto perché, all’apice della perfezione amorosa, Janie sarà costretta a uccidere il giovane e terzo marito per autodifesa. Quando uscì The Eyes were watching God, nel 1937, i più influenti autori della letteratura afroamericana del tempo lo giudicarono femminile e superficiale, un libro da "menestrella", che avallava lo status quo, dando un’immagine edulcorata della terribile condizione dei neri americani. Come poteva la Hurston scrivere dell’intensità della passione amorosa, della musica, delle risate e dei piaceri della vita dimostrando che esisteva anche per la gente di colore, proprio negli anni in cui, dalle rovine della Harlem Renaissance, luminoso periodo di produzione letteraria, poetica e teatrale esploso negli anni Venti, quando si era levata un’ondata di rabbia e odio razziale che doveva sfociare nella prima rivolta dei neri di harlem, nel 1935? Ciò che accomunava tanto il romanzo di genere degli anni Venti, che il realismo sociale degli anni trenta, e più tardi il nazionalismo culturale del movimento delle Black Arts, era l’idea che il razzismo avesse ridotto i neri a esseri umani patologici, privi di cultura, in grado solo di reagire all’onnipresente oppressione razziale, una visione che la Hurston considerava degradante, un’immagine falsa e distorta contro la quale lottò nelle sue opere, dichiarando già il suo primo romanzo, jonah’s Gourd Vine, "manifesto contro l’arroganza dei bianchi che presumono che le vite dei neri non siano altro che reazioni difensive alle loro azioni". Come non bastasse, la Hurston era guardata con sospetto per aver affondato il dito nell’ambivalente tasto del vernacolo dei neri del sud, lingua a cui era stato concesso fino ad allora di esprimersi solo nel blues e che, per prima, lei riuscì ad elevare a dignità poetica, con sensibilità di antropologa, e abilità di catturarne la capacità figurativa, lo strano gioco di suoni e immagini, i significati nascosti e sovrapposti.

Inclassificabile, contraddittoria, orgogliosa e solitaria, malgrado alcuni importanti riconoscimenti, Zora passò gli ultimi vent’anni in miseria; lavorò come domestica in una famiglia bianca di Miami, passò qualche anno in un "houseboat" navigando lungo i fiumi della Florida e poi in una capanna sulla costa, fino a quando morì e fu sepolta senza nome in un cimitero segregato della Florida.

Bisogna aspettare il saggio di Alice Walker In search of Zora Neale Hurston comparso sulla rivista Ms, nel 1975, per assistere a una sorprendente rivalutazione della scrittrice antropologa, scomparsa per oltre trent’anni nel nulla. Le ragioni che allora le procurarono l’ostilità degli scrittori neri suoi contemporanei sono le stesse per le quali oggi viene riconosciuta tra i fondatori della letteratura dei neri americani. La Walker ne loda la "salute razziale" e vede Janie Crawford come prima eroina della tradizione letteraria afroamericana. Da allora sono stati ristampati tutti i suoi libri (quattro romanzi, un’autobiografia e due raccolte di materiale etnografico), di recente anche dalla prestigiosa Library of America, nella quale è stata la prima scrittrice donna e nera a comparire. Dal 1990 a oggi Con gli occhi rivolti al cielo ha venduto oltre un milione di copie e Oprah Winfrey e Quincy Jones ne hanno comprato i diritti cinematografici" [Maria Pace Ottieri su "Il diario della settimana" 7 ottobre 1998]


Joyce Lussu

"Non era sarda, ma volle diventarlo studiando non solo la storia ma anche le tradizioni, il costume, il modo di pensare di un popolo che era diventato suo. Il ricordo più significativo per me è tuttavia legato al primo congresso delle donne sarde, nel 1952. Percorremmo tutta l’isola e in centinaia di assemblee con piccoli gruppi di donne affrontammo tutti i problemi, dalla casa alla scuola, dalla famiglia alla richiesta del lavoro, dalla denuncia delle condizioni inumane delle lavoratrici dei campi a quelle delle insegnanti. Non ci fu aspetto della vita delle donne sarde che non fu esaminato e discusso. Ci riunivamo regolarmente per controllare il lavoro e per verificare le delegazioni al congresso. Finalmente questo si aprì e di fronte ad un cinema gremito da oltre 2.000 donne, la maggior parte in costume tradizionale, Joyce pronunciò un discorso teso ad indicare la via della rivendicazione di una condizione diversa, di uguaglianza e di unità delle donne sarde. Sempre composta e seria, non riuscì tuttavia in quell’occasione a nascondere la sua emozione per lo splendido spettacolo di entusiasmo e di volontà di lotta che con la sua attività precedente aveva contribuito a creare" (dal ricordo di Nadia Spano su "Il manifesto" del 6 novembre 1998)

"Quando prenderò la rincorsa / per il grande tuffo nell’aldilà /non è detto che arrivi tutt’intera…" ha scritto in una delle ultime poesie, in "Sguardi sul domani", curato da Maria Teresa Sega (andrea Livi, ’98). Era ironica e battagliera, fiera e tenace. Figlia di una generazione dai pochi dubbi e dalle molte certezze. Fu eclettica e prolifica, itinerante nella scelta degli editori come in quella dei generi: dai resoconti autobiografici alla saggistica, dalla poesia alla fiaba. E al femminismo. In Donne e scrittura a cura di Daniela Corona, ed. La Luna, ’88), scrisse: "anche le grandissime Blixen e Yourcenar ci presentavano sempre immagini di donne perdenti, e mai vincenti…". Lei, invece aveva saputo essere una donna vincente. Sul modello delle sibille, richiamato nei suoi testi. ("Il libro pregno su streghe e sibille" - il lavoro editoriale, ’83 - "La Sibilla", - stesso editore, ’88 . "L’erba delle donne" - Napoleone, ’79). Coerente anticolonialista, ha tradotto poeti curdi, capoverdiani, eschimesi e mozambicani (molti compaiono nell’antologia "Tradurre poesia", Mondadori, ’67). A scrivere, Joyce aveva cominciato giovanissima: "Liriche" - ed. Ricciardi - è del ’39, "Fronti e frontiere - RomaEdizioni U -, sulla sua vita politica clandestina, del ’44. E poi, "Storia del fermano", del ’69, "Le inglesi in Italia" (Lerici, ’70), "Padre padrone padreterno", del ’76. E ancora "L’olivastro e l’innesto" (’82), racconti sulla cultura sarda, "L’uomo che voleva nascere donna" (Mazzotta, ’78), "Donne, guerra, società" (’82). Inoltre, "Sherlock holmes, anarchici e siluri" e "Lotte, ricordi e altro" (Biblioteca del Vascello), e "Sulla civetteria", scritto con Luana Trapé (Voland, ’98). Per la fondazione Modigliani uscirà nel ’99 il 13.mo volume di "Impresa e società", che Joyce ha finito di dettare poche ore prima di morire." [Geraldina Colotti, scheda su Il Manifesto, 6 novembre 1998]

"La casa di Joyce Lussu è a San Tommaso, nelle Marche, in una piccola località posta tra Fermo e Sant’Elpidio. Un’altra, che non conosco, ma di cui so che si deve riparare il tetto, è ad Armungia, un paesino dell’entroterra, in Sardegna. E’ la casa di Emilio Lussu, il suo compagno. Naturalmente, in una vita tanto lunga e intensa qual è stata quella di Joyce, vi sono state molte altre case. A Roma, per esempio; dal dopoguerra fino alla scomparsa di Emilio, che è avvenuta nel ’76. E da adolescente, a Begnins, in Svizzera, ove la famiglia era riparata nel 1926, lasciando Firenze dopo che i fascisti avevano barbaramente picchiato e torturato il padre, il professor "Willie" Salvadori. E poi a Parigi, sempre col compagno della sua vita, Emilio, dalla seconda metà degli anni trenta all’armistizio. E prima ancora a Heidelberg, ove Joyce era andata a seguire i corsi di Jaspers, e dov’era restata fino all’avvento del nazismo. Ma la casa di Joyce, per come questa cosa può essermi comprensibile in modo immediato e senza bisogno di ulteriori spiegazioni, la casa dove ha sempre abitato anche durante i lunghi anni del fascismo vissuti lontano dall’Italia, è a San Tommaso. E’ una casa ex colonica riattata, che fu già dei genitori, composta di tre piani. Bella come solo possono essere belle le cose perfettamente umane e sontuosamente dimesse. Nella grande cucina al pianterreno si sta freschi anche nel cuore dell’estate, e nella veranda che lei ha fatto costruire all’ultimo piano, arriva luce, fino al tramonto, anche in inverno. Seduti in cucina, o nella veranda al terzo piano o vicino al fuoco del grande camino che si trova al secondo piano, lo stesso, ove, appartate, ci sono le due piccole stanze da letto degli ospiti, con Joyce si poteva parlare, per ore, con vivacità, anche infervorandosi alle volte - si poteva, alla lettera, parlare, di questo secolo. I più giovani, saggiamente, ascoltavano e domandavano. Ogni tanto, nel corso della discussione, qualche nuovo ospite arrivava, ed erano le insegnanti sue amiche, o un giovane scrittore in visita - penso a Silvia Ballestra o Giulio Mozzi, ad Angelo Ferracuti, o Marco Franzoso e Romolo Bugaro e altri ancora: procurate nuove sedie per i visitatori che si univano al gruppetto, la discussione, subito, riprendeva. Gli argomenti potevano essere i più diversi, anche se i temi relativi alla politica e alla storia erano i prediletti. Poiché il figlio di Joyce, Giovanni, è un ottimo grafico e qualcuno di noi poteva avere per le mani la bozza di copertina di un suo libro da ristampare, si parlava anche di grafica: o di musica o di archeologia, alle volte - che sono gli interessi dei due figli di Giovanni, i suoi cari nipoti. Si fumavano sigarette leggere con accanimento e si bevevano i bicchierini gialli di Strega. Niente tv. Joyce ascoltava solo la radio. Le notizie che la interessavano le prendeva da lì.

Questa donna provò a salvare Rudolf Breitschield e Hilferding, uomini che erano stati ministro dell’interno in Prussia o deputati del Reichstag e ministri delle Finanze, nella Parigi già occupata dai nazisti. Offriva loro dei documenti falsi, che nonostante le sue proteste, i pericoli corsi per incontrarli, il suo disperarsi e la rabbia per la non comprensione di entrambi di fronte al pericolo decisivo che li minacciava, non furono accettati. Questa donna ha sottratto la moglie e il figlio del poeta rivoluzionario Nazim Hikmet alla polizia turca che da anni li sorvegliava - una pattuglia e una jeep stazionavano, giorno e notte, davanti alla casa. Lo fece nel 1961, servendosi di un veloce motoscafo, dopo aver convinto un industriale suo amico a imbarcarsi, letteralmente nell’impresa: vi fu anche un rocambolesco naufragio, e Joyce e la moglie di Hikmet attesero per una settimana, prive di documenti e di soldi, sulla banchina del porto di Mitilene, in attesa dell’aereo della Lot che avrebbe condotto in salvo i fuggitivi a Varsavia. Nel settembre 1943, attraversando le linee tedesche e spingendosi a piedi, dopo giorni e giorni di marcia, fin oltre Benevento, questa donna medaglia d’argento al valor militare ha trasmesso per radio il primo messaggio ai compagni del CLN che si trovavano nell’Italia ancora occupata dai nazifascisti. Di storie così e di molto altro ancora le chiedevamo, venti anni fa, noialtri più giovani. Della leggendaria fuga da Lipari del marito Emilio, dei poeti curdi, o angolani, che aveva conosciuto e introdotto in Italia e in Europa. Questa esistenza magnifica che non si lascia riassumere, è custodita nei suoi libri, che Joyce ha sempre affidato, dagli anni Sessanta in poi, a editori piccoli e piccolissimi; e poi nella partecipe e scintillante intervista-autobiografia che ha concesso alla più giovane delle sue amiche, Silvia Ballestra, in duecento pagine memorabili pubblicate, mesi fa, da Baldini & Castoldi." [Massimo Canalini, Il Manifesto 6 novembre 1998]. Citazioni da "Padre padrone padreterno" di Joyce Lussu, Editori Riuniti, 1976 [da consegnare alle storiche o a chi si occupa di storia di genere"]

"La matrona, ossia la donna libera e possidente dell’antica Roma, era legalmente più indipendente e socialmente e sessualmente più libera delle donne dei secoli seguenti, fino a tempi recentissimi. Era perciò un’accanita sostenitrice della società schiavistica, che le aveva consentito alti tenori di vita, successi nelle lotte per la sua emancipazione e acquisizioni di notevoli fette di potere."p.46 pp.48-49

la patria potestas, la cui storia non è stata ancora scritta 2fonte di terribili distorsioni morali e psicologiche soprattutto per i maschi della classe dirigente sottoposti ad un addestramento tutto speciale in vista del futuro esercvizio del potere" (ma questo vale anche per i colleges britannici per èlites colonialiste). "essere uomo non era peccato, ma essere donna si. E ci andarono di mezzo non solo le belle matrone dalle tuniche trasparenti e dai sontuosi gioielli, ma tutte le donne in quanto tali. Con particolare accanimento vennero perseguitate le donne colte, che coi lotro studi contrbuivano allo sviluppo delle arti e della scienza, come Ipazia di alessandria, inventrice dell’astrolabio e della livella ad acqua, lapidata e fatta a pezzi da una banda di cristiani nel 415" p.52

L’atteggiamento verso la storia e i suoi protagonisti di joyce Lussu si può capire da queste frasi: "La cultura contadina è invece legata a un’appropriazione concreata e non astratta del territorio, agli sforzi ingegnosi e diretti per renderlo produttivo…."p.58

"le dame dei castelli non si offendono per queste escursioni sessuali dei loro uomini nel mondo ancillare e contadino; anzi inventano il mito della virilità…[…]Per sé, la dama feudale inventa l’amore cortese, che le consente di avere a portata di mano paggi, menestrelli e cavalieri erranti, e di avviarli eventualmente, ma con molta delicatezza e molte canzoni, verso la camera da letto" p. 61

"nell’assetto feudale, una donna poteva anche diventare sovrana ed esercitare il potere politico; nell’assetto comunale, è impossibile che diventi podestà o capitano del popolo" p. 64

"La caccia alle streghe è un attacco frontale contro le residue autonomie che alimentavano le ribellioni del mondo contadino" p. 68

Proletarie e padrone: "sarebbe interessante analizzare le cause di questa regressione civile e culturale, legata ai nuovi modi di produzione, delle donne della classe dominante. Fu la conseguenza di un consenso, o di una sconfitta? Dai risultati si direbbe che le signore erano ben felici di fare le signore, e puntellavano il sistema e i valori che aveva indotto con un odio contro le classi lavoratrici e un accanimento a difendere i propri privilegi che rasentava la ferocia " [sarebbe interessante qualche esempio, ma non c’è] p.76

"Il femminismo si sviluppò nei paesi dove il codice napoleonico non era stato adottato e dove l’industrializzazione era molto avanzata, come l’Inghilterra. La classe dirigente imprenditoriale, che proletarizzava una gran massa di donne avviandole nelle fabbriche, doveva controbilanciare questo peggioramento della loro condizione con gli accresciuti privilegi alle donne della borghesia;" p. 78

manifestazioni operaie e contadine con presenza femminile: " …alle donne di Misterbianco di Catania che incendiano il municipio nel 1891:; dai fasci siciliani (di cui uno tutto donne a Piana dei Greci) alle casalinghe che nel ’96 fermano i treni militari in Lombardia e liberano gli arrestati a Milocca […] le lavoratrici italiane maturano nelle lotte i temi della loro liberazione e della liberazione di tutti gli sfruttati" p.81

"per contro, le donne della classe dominante ( di quella parte della piccola borghesia, enormemente dilatata con l’assetto capitalistico, che tende ad imitarle) sono, nel complesso, tra le più arretrate d’Europa, e i guasti portati dal diritto canonico sono ancora più che evidenti" p.82

"la questione femminile, all’interno della resistenza, progredì autonomamente, per le situazioni di fatto che si erano create e che imponevano comportamenti diversi; non per merito delle forze politiche che la dirigevano."p.84

"la lotta anticoloniale stimola più di ogni altra la partecipazione delle masse femminili perché non può essere riformista (a meno che non voglia barattare il vecchio colonialismo col neo-colonialismo) e si scontra frontalmente sia con la cultura imposta dall’occidente che con quella tradizionale autoctona che ha portato alla schiavitù: lotta contro l’imperialismo occidentale, ma anche contro Confucio, o il tribalismo" p.88

"Il ’68 è servito soprattutto a sgombrare il terreno da intollerabili sclerosi sovrastrutturali" p.90

il limite "Una controproposta rivoluzionaria avrebbe richiesto una maggiore attenzione ai problemi strutturali"p.90

la madre "casalinga obbligata ma indomita e sibillina; che mi spiegava, sorridendo, come i periodi passati nelle carceri fasciste e al confino erano stati, per lei, epoche di sontuosa libertà dai lavori forzati della vita domestica" p.118


Beatrice Webb

Nata nel 1858 da una ricca famiglia del Cloucesterschire, Beatrice Potter fu influenzata dal positivismo di Comte e Spencer, e pose le questioni sociali al centro dei propri interessi: Convinta che il metodo sperimentale fosse applicabile ai problemi della società, entrò in contatto con il movimento Fabiano e con uno dei suoi esponenti più in vista, Sideney Webb. Erano entrambi sostenitori della inevitability of gradualness, della necessità cioè che le istituzioni fossero riformate attraverso un processo graduale, e mediante il criterio della permeation, la penetrazione dei principi fabiani nei partiti, sindacati, nelle istituzioni statali e comunali. Diedero vita, oltre che a un’unione, a un vivace sodalizio intellettuale: fondarono nel 1895 la London School of Economics and Political Science, nel 1913 la rivista New Statesman, ed ebbero un’attività di ricerca e di impegno politico assai intensa. Per anni Beatrice Webb era stata dunque una convinta riformista che tendeva a considerare la Russia di Lenin sinonimo di anarchia , sangue e terrore.

Scriveva nel 1924: "mio marito ed io siamo sempre stati contro il sistema sovietico e vi abbiamo visto soltanto il ritorno dell’autocrazia russa sulla base di un credo religioso - un concetto decisamente asiatico!. E ancora nel 1929 la politica staliniana di collettivizzazione forzata e il modello del socialismo in un solo paese non suscitarono certo le simpatie dlla studiosa. Il suo atteggiamento cambia all’inizio del nuovo decennio: quando, secondo Friedrich Weckerlein, autore dell’accurato saggio introduttivo, cominciarono a farsi evidenti in Europa le conseguenze della crisi economica . E fu "il crollo materiale e spirituale del capitalismo", stretto tra la disoccupazione e la criminalità, a spingere la Webb verso l’alternativa rappresentata dal comunismo e dallo stato sovietico, che aveva proclamato una "nuova morale" liquidando nello stesso tempo la religione e la cultura borghese. Questo è ciò che la impressiona, "il formarsi di una nuova etica dello stato collettivo, della subordinazione del singolo al servizio della collettività, la sostituzione della ricerca del profitto individuale con ’l’emulazione socialista’ ".

Nel 1932 la coppia partì per l’Unione sovietica e visitò Mosca, Leningrado e Stalingrado, rafforzando le proprie convinzioni riguardo lo sviluppo di una nuova civiltà. Beatrice Webb descrive dettagliatamente il sistema delle organizzazioni di massa. Tenuto insieme dalla struttura del partito comunista, il quale le appare una sorta di ordine religioso, "un potere spirituale oppure, come direbbero piuttosto i suoi capi, la coscienza della nazione". Non le sfugge la difficile situazione economica, né il fatto che venga soffocata la libertà di pensiero e di parola, ma ogni cosa, a suo parere, va inserita nel processo che condurrà a un’umanità migliore, pur comportando talune forme di ingiustizia. La presa del potere di Hitler in Germania e il sostegno di cui godette Mussolini nel periodo del massimo consenso non spinsero di sicuro i Webb a rivedere le proprie idee sul regime sovietico. Al contrario, nel ’35 essi pubblicarono Soviet Communism: a New Civilisation?, un saggio nel quale diedero una rappresentazione estremamente positiva dell’Unione Sovietica; e non fu un caso che nelle edizioni successive sia scomparso il punto interrogativo.

L’anno seguente le notizie sui processi di Mosca rappresentarono uno schock per la studiosa: le condanne a morte inflitte a Kamenev e Zinoviev nella liquidazione della sinistra del partito furono l’epilogo di uno spettacolo per lei incomprensibile. E tanto più incomprensibile le sembrerà il patto di non aggressione siglato nell’agosto del ’39 tra l’Unione Sovietica e la Germania nazista che aprì la strada, nell’arco di qualche settimana, alla spartizione della Polonia. Fu il crollo di un mondo per la Webb, come rivela il tono indignato delle sue parole. "Stalin e Molotov sono diventati delle canaglie diaboliche", e il discorso radiofonico col quale il ministro degli esteri sovietico giustificava il trattato era "un monumento all’immoralità rivestito da cinici sofismi". Beatrice Webb morì nel 1943: non avrebbe visto la fine della guerra. Sidney sarebbe scomparso quattro anni dopo.

Ma ciò che rimane interessante della loro vicenda è l’evidente necessità di assistere alla realizzazione di un’utopia, unica via d’uscita da un sistema capitalista ritenuto ormai decadente e stremato, e da un riformismo che sembrava incapace di fornire risposte persuasive. Sarebbero seguiti altri "pellegrinaggi", nel corso del secolo: processi di estraniamento, secondo Weckerlein, ma anche chiaro sintomo dell’esigenza di porre al centro della riflessione intellettuale la ricerca di alternative politiche concrete" (Enrico Paventi su "Il Manifesto" 27 dicembre 1998, p. 21, in occasione dell’uscita in Germania di una raccolta degli scritti di Beatrice Webb, dal "Diario russo" alle lettere a Beveridge, Wells, Bernard Shaw)


Benedetta Cappa Marinetti

Nata a Roma nel 1897 da famiglia piemontese e fin da giovanissima con una spiccata vocazione alla pittura e alla letteratura, Benedetta fu allieva di Giacomo Balla, nel cui atelier conobbe il futuro marito, Filippo Tommaso. Autrice, fra l’altro di tre romanzi : Le forze umane-Viaggio di Gararà- Astra e il sottomarino, Altana, Roma 1998 . (Il Sole24ore, domenica 3 gennaio 1999)


Katherine Mansfield

Nasce come Kathleen Beauchamp (Mansfield è il nome della nonna, Margaret Isabella Mansfield Dyer, l’affettuosa e amatissima "Grammy") a Wellington in Nuova Zelanda il 14 ottobre 1888,da una famiglia borghese emigrata prima dall’Inghilterra e poi dall’Australia. Un paesaggio sempre nostalgicamente rievocato come eden perduto, dominato dalle tinte e dalle voci cicliche del mare (a nove anni vince un premio scolastico col racconto "A sea voyage"); e il mare, poi ammirato nei racconti di Conrad, sarà un suo intenso Leit-motiv simbolico. Ha, nelle prime foto, l’aspetto goffo di una bambina grassoccia e occhialuta, rapace osservatrice. Mentre la famiglia si trasferisce a Tinakori road, in una casa in collina con vista sul porto, Kass frequenta con le sorelle maggiori (Vera e Charlotte; ne ha poi due minori, Gwendolen, morta a un anno e Jeanne, e un fratello, Leslie) la Girl’s High School della sua città - sul cui giornale escono nel 1898 due suoi raccontini, "Emma Blake" e "Una bella vigilia di Natale "(A Happy Christmans Eve). Attratta dalla musica, comincia a prendere lezioni di piano e frequenta, nel 1900-1902, la scuola privata di Miss Swainson, dove si fa la fama di ribelle e provoca un’impeccabile insegnante, Miss Butts con domande sul libero amore; vi fonda un giornaletto e vi scopre in recite di beneficenza il proprio versatile talento istrionico. Nel 1903 viaggio a Londra: nell’aprile, rimasta nella capityale con lo "chaperonnage" della zia Belle, entra con le sorelle maggiori al Queen’s College - pionieristica istituzione inglese per l’istruzione universitaria femminile. Studia il tedesco e legge Tolstoj, Poe, Ibsen, Maeterlinck, Shaw,Symons, Verlaine e soprattutto Oscar Wilde. E’ però la compagna "corruttrice" Vere Bartrick-Baker - con cui progetta un ménage, e che è la partner innominata del bozzetto saffico "Leves amores", come poi la Eve di "Carnation" (Garofano) - a prestarle un esemplare non espurgato del "Portrit of Dorian Gray", da cui ricopia nel diario gli aforismi sulla posa della naturalezza e sull’autorealizzazione. Fra il 1904 e il 1906 pubblica diversi racconti sul Queen’s College magazine, di cui diventa vicedirettrice: "The Pine Tree" (Il pino), The Sparrows, and You and I" (I passeri, io e te) e "Die Einsame" (La solitaria). Prelevata dalla famiglia e rientrata controvoglia a wellington nell’ottobre 1906 vi resta per quasi due anni, dominata da un acuto senso di infelicità e di sradicamento dalla patria elettiva londinese (nella quale tuttavia la sua origine coloniale peserà come persistente elemento di non omologazione. Sopravviverà con le sue relazioni amorose con la ritrovata Maata e con Edth Bendall. Leggerà Browning, Yats, Whitman, Heine, D’Annunzio e il Nietzsche di "Aurora", nonché l’allora famoso diario postumo di Marie Bashkirstev. Ma soprattutto subisce l’influsso di Cechov, maestro prediletto di un lirismo oggettivato, essenziale ma vibrante di vita multiforme ed animato da una vasta partitura di correlativi simbolici. Rifiutando il cognome patreno pubblica delle "Vignettes" e "Silhouttes" sul giornale di Melbourne "The native Companuion", e su The Trial il wildiano "Study: the death of a Rose"(Studio: morte di una rosa): bozzetti nel cui giovanile estetismo spicca già il tema della della finestra-osservatorio e della porta come soglia diun’inseguyito altrove percettivo e conoscitivo. Il padre la coinvolge in una spedizione esplorativa di tre settimane nella regione centrale dell’isola: l’incontro con il paesaggio violento e con gli indigeni lascia tracce determinanti nel taccuino di viaggio (il cosiddetto "Urewera Notebook) e in molti racconti successivi. Anche se guardò poi con ironico distacco alle manifestazioni delle suffragette londinesi, nel diario individua con sicuerzza, vent’anni prima del pur più complesso manifesto woolfiano "Una stanza tutta per sé", il proprio intimo bisogno di "potere, ricchezza e libertà", e vi denuncia accesamente lo stato di inferiorità femminile come dovuto alle "catene che ci siamo forgiate da sole" e alla dottrina "desolatamente insipida che l’amore è l’unica cosa al mondo, insegnata, martellata in testa alle donne di generazione in generazione[…]. Dobbiamo liberarci di quello spauracchio - e allora, allora potremo avere felicità e libertà" Coerentemente, convince infine il padre a lasciarla ripartire per l’Inghilterra, con un assegno di 100 sterline annue (gradualmente aumentato); dopo un canonico party d’addio, arriva nell’agognata Londra ("Londra è la vita") nell’agosto del 1908, dopo un mese e mezzo di viaggio. Si stabilisce a Paddington, alla Beauchamp Lodge.


Liz Lochhead

Dal numero del 16 maggio ’99 de "Il sole24ore"articolo di Maggie Rose a p. 44. Nel contesto del "rinascimento" letterario scozzese di questi ultimi tempi (si ricorda il parlamento riaperto dopo che era stato chiuso nel 1707) Liz Lochead , insieme ad altre scrittrici, autrici di una collezione dal titolo Meantime, Looking Forward to the Millennium, fa il punto sulla situazione della donna oggi. "Nella maggior parte dei casi è emerso un senso di insoddisfazione tuttora vigente in Scozia", ma l’articolo della Lochhead "si conclude con un tono combattivo; usando un’immagine di guerra, la scrittrice si mostra convinta che le donne debbano continuare nonostante tutto a scrivere, e a farlo in modo talmente prolifico, e di tale qualità, di far sì che il canone, come un ’cannone’, salti per aria. Tutta l’opera della Lochead è caratterizzata da uno sguardo satirico, tinto di umorismo sia che interessi delle relazioni uomo-donna, sia che si ponga alla ricerca di una nuova identità sessuale, libera dal conformismo". E’ regista, autrice e interprete di uno spettacolo al Piccolo teatro che ha avuto molto successo.

"In un rapido susseguirsi di brevi monologhi (Six Men’s Monologues) la Lochead racconta la vita di Kimberley, una giovane donna che avendo assunto il controllo assoluto della sua vita decide di sfruttare gli uomini senza ritegno". Le citazioni non mi sembrano particolarmente interessanti, a parte forse la seguente "La madre ha sempre due facce/ nel migliore dei casi, ti ha/ voluto finché sei venuta al mondo. / sì, è lei che ha pianto per le sei gocce di/ sangue cadute/ a macchiare la neve.[…] Ma muore sempre troppo presto/ così spesso ti sembra che lo faccia apposta / abbandonandoti nelle mani crudeli / della madre peggiore, quella che ha sposato / tuo padre".


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laudomia Bonanni
24 febbraio 2009, di : isa

Le prime esperienze di Laudomia Bonanni Cajone (L’Aquila 1907-Roma 2002) maturano il suo sguardo riflessivo e critico sulla realtà attraverso il contatto con i bambini poveri delle aspre montagne della sua regione, dove lavora come maestra elementare dall’età di diciassette anni. Per passione, carattere e formazione diviene scrittrice sia di alcuni libri per l’infanzia sia di narrativa di qualità letteraria . Per la qualità della scrittura e alcuni premi prestigiosi ricevuti è stata un tempo conosciuta a livello nazionale dai letterati. Collabora costantemente con elzeviri nelle pagine culturali di alcuni giornali ( Il giornale d’Italia, La gazzetta del popolo, Il gazzettino di Venezia, Il corriere d’Abruzzo, ecc.)e riviste( Nuova antologia, La rassegna d’Italia, Civiltà delle macchine, ecc.). La sua prima raccolta di racconti, Il fosso, ebbe il riconoscimento, come esordio, del premio Strega nel 1948. Seguì il successo di alcuni suoi romanzi degli anni Sessanta e Settanta, coronato da altre premiazioni prestigiose(Campiello, Bagutta, Viareggio, ecc.). Laudomia Bonanni ricevette allora numerose recensioni elogiative da parte dei più importanti letterati del tempo e raggiunse una certa fama. Singolare, e ancora oggi d’attualità, è poi il romanzo-saggio Vietato ai minori(1975), in cui l’autrice ricuce i vari suoi appunti e le relazioni che hanno accompagnato la sua esperienza per diciotto anni presso il tribunale dei minori dell’Aquila e di Roma come giudice onorario. Ma alla morte di Valentino Bompiani, suo editore, i suoi libri furono cancellati dai cataloghi della casa editrice, in quanto ritenuti insufficientemente commerciabili. La scrittrice aquilana dunque, benché risulti essere stata, fino a vent’anni fa, apprezzata perfino all’estero, come documenta anche la traduzione in francese e in spagnolo dei suoi primi romanzi, L’imputata(1960) e L’adultera(1965), dopo l’ultima sua pubblicazione nel 1983 (Le droghe) era caduta nell’oblio, finendo immeritatamente nella serie delle meteore letterarie del ‘900. Pertanto i suoi libri oggi sono tutti esauriti, reperibili soltanto nelle biblioteche, sia italiane sia straniere, dove sono diffusamente presenti. Così la casa editrice Textus, dell’Aquila, ha programmato la riedizione di tutte le opere di Laudomia Bonanni nella collana La ginestra, diretta da Carlo De Matteis. Qui, a cura dello stesso professore, alla fine del 2003 è già stato pubblicato, postumo, l’ultimo romanzo di Laudomia Bonanni, La rappresaglia, che dal 1985 era rimasto inedito perché non accettato da Bompiani nella forma che la scrittrice non aveva voluto correggere secondo le indicazioni editoriali. Il libro racconta un particolare episodio ambientato nel clima della resistenza abruzzese.

(Cfr. la recensione di Laura Lilli, intitolata Il sangue dei vincitori, sul quotidiano La repubblica del 24 novembre2003 e quella della scrivente nel sito web www. la repubblicaletteraria.net, in link con un profilo biografico di Laudomia Bonanni, scritto dal giornalista Pietro Zullino, che l’aveva frequentata quotidianamente per tutta la vita grazie all’intima, fedele amicizia della propria madre con lei). Nel Dizionario mondiale di letteratura, Rizzoli Larousse, 2003, Laudomia Bonanni è inclusa con una voce specifica. Qui, tra le varie sue opere citate, viene segnalata la particolarità interessante di Vietato ai minori. E’ però discutibile la definizione dello stile della scrittrice, indicato come tipico del realismo e del neorealismo, con tendenze liriche. Come osservò per primo Eugenio Montale nella sua recensione ai racconti de Il fosso, paragonandoli a quelli di Gente di Dublino di James Joyce, Laudomia Bonanni supera invece i modelli del contemporaneo Neorealismo. Infatti tutta la sua produzione anziché avere l’impronta di uno stile lirico nostrano come, per esempio, quello del vocianesimo, presenta piuttosto quelle connotazioni moralistiche che, com’è noto, a differenza del classicismo predominante e persistente nella storia della letteratura italiana, caratterizzano la tradizione della scrittura francese fino agli autori novecenteschi dalla scrittrice conosciuti in lettura, come, per esempio, Sartre. I soggetti di questa narrativa, creata da una donna aquilana, schiva, che mai ha voluto essere classificata secondo etichette di moda, né quindi dichiarasi femminista, praticando soltanto per tutta la vita una sorta di sacerdozio della scrittura, prediligono le figure femminili, di donne umili, ma forti, resistenti alle sopraffazioni del potere maschile, e quelle dei bambini, considerati gli esseri più vicini alla natura, pertanto troppo spesso innocenti vittime di una società che ha perduto i valori umani. Il profilo biografico di Laudomia Bonanni attualmente più adeguato, profondo nella sua sinteticità, è quello offerto da Sandra Petrignani, che aveva conosciuto la scrittrice e pubblicato una sua intervista negli anni Ottanta con il titolo significativo La vita solitaria ( in Sandra Petrignani, Le signore della scrittura, Milano, La Tartaruga, 1984/pag. 59-64 ), nel terzo volume di Italiane (1950-2003), il dizionario biografico promosso dal ministro Stefania Prestigiacomo, (Ministero per le pari opportunità, 2004, pp. 26- 27). Ma è interessante notare che l’unico saggio analitico recente su Il fosso della scrittrice aquilana (in Antonio Illiano, Invito al romanzo d’autrice ’800-’900: da Luisa Saredo a Laudomia Bonanni, Cadmo, 2001) è stato scritto in occasione e in funzione di un corso di letteratura italiana presso l’ University of North Carolina at Chapel Hill, U.S.A. Evidentemente all’estero si considera fondamentale includere l’opera di Laudomia Bonanni nel canone per lo studio della letteratura italiana del Novecento, soprattutto quando, per caratterizzare la produzione narrativa di un paese in trasformazione sociale quale l’Italia nel secolo scorso, si focalizza l’emergere epocale della scrittura delle donne.

Opere .Storie tragiche della montagna(Tipografia Vecchioni, l’Aquila, 1927)

Il pesco vestito di rosa ( collana “Primule dorate” diretta da di G.E. Nuccio, Industrie Riunite Editoriali Siciliane, Palermo,1928)

Il canto dell’acqua( collana “Primule dorate” diretta da di G.E. Nuccio, Industrie Riunite Editoriali Siciliane, Palermo,1928)

Noterelle di cronaca scolastica (Tipografia vecchioni, l’Aquila, 1932)

Il tenente degli alpini(Cesare Battisti), opera citata da A. Silveri come in corso di stampa nel 1932

Damina Celina e altri racconti(Bibliotechina “Al cuore” N. 81, Bemporad e figli, Firenze, 1935)

Men. Avventura al Nuovo fiore ( Bompiani, Milano 1939)

Il fosso ( Mondadori, Milano 1948; Bompiani,Milano, 1949; Textus 2005)

Le due penne del pappagallino Verzé (Paravia, Torino, 1948)

Palma e sorelle (Casini, Firenze 1954 ; Bompiani, Milano 1968, volume comprendente Il fosso)

L’imputata (Bompiani, Milano, 1960)

L’adultera (Bompiani, Milano, 1964)

Vietato ai minori (Bompiani, Milano, 1975)

Città del tabacco (Bompiani, Milano, 1977)

Il bambino di pietra (Bompiani, Milano, 1979)

Le droghe (Bompiani, Milano, 1982)

La rappresaglia (Textus, L’Aquila, 2003)

Il carteggio inedito tra Laudomia Bonanni e Giuseppe Porto in “Novanta9”(rivista di letteratura diretta da mario Narducci), numero 6/7 , 2005

Due inediti: La corrente, 1939 Prima del diluvio, 1945