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Futtiball, la mafia allo stadio

Il calcio appare una straordinaria lavatrice del denaro sporco e, al contempo, un ambito che garantisce consenso sociale e ulteriori introiti

di francoplat - giovedì 12 giugno 2025 - 736 letture

Ci vuole una qualche dose di crudeltà per infangare il più bel gioco del mondo e rovinare l’eccitante attesa del fischio di inizio, la palla che inizia a rotolare ognidove, magari anche oltre la linea di porta, in rete; la folla esulta, si esulta pure a casa, incollati allo schermo, tra insulti e urla e finalmente il gol. Giocata magnifica, che estro il goleador, che tocco potente e, insieme, chirurgico! Che bel gioco, il calcio, che appassionante sfida tra uomini-gladiatori e ricamatori di lirici gesti atletici.

Sì, è crudele che qualcuno incrini la fiducia nel football, l’incanto che provoca l’arena del pallone; che qualche cronista leda il santuario calcistico. Eppure, pur dovendo fare forza su sé stesso, il cronista non riesce a tacere del tutto e decide di guardare all’ambito sportivo per verificare quanti e quali siano gli abboccamenti mafiosi a quel mondo. E se ne scoprono tanti. La cronaca più recente, ad esempio, racconta che la mafia, a Foggia, voleva acquisire la squadra di calcio locale e ha cercato di intimidire in vari modi calciatori, dirigenti e lo stesso presidente della società, Nicola Canonico, costringendolo ad andare via – cosa avvenuta lo scorso 31 marzo – e a vendere le quote societarie a un prezzo molto inferiore a quello di mercato. Lo ha detto la Dda di Bari, unitamente alla polizia foggiana, non solo arrestando quattro persone e denunciandone altri 52 per vari reati, ma anche ponendo sotto amministrazione giudiziaria la società “Calcio Foggia 1920”. È un record discutibile questo, ma è la prima società calcistica a trovarsi sotto “tutela antimafia”, per aver subito «una strategia di intimidazione e condizionamento mafioso» e per essersi trovata in una «gravissima compromissione ambientale».

Ne ha parlato Luca Pernice su “Libera”, lo scorso 21 maggio, precisando come Marco Lombardi, un uomo legato al clan Sinesi-Francavilla da anni, abbia tentato di entrare nella dirigenza attraverso minacce, intimidazioni, tentativi di dirottare gli stessi esiti delle partite. Nel 2022, ad esempio, aveva invitato al bar un calciatore, Alessio Curcio, chiedendogli di non partecipare alla partita della domenica successiva – Foggia-Catania, decisiva per la scalata alla serie B –, ma il giocatore si era allontanato dal locale, salvo trovare, il giorno dopo, degli striscioni contro di lui sui muri dello stadio.

Nell’agosto 2019, l’omicidio di “Diabolik”, alias Fabrizio Piscitelli, leader degli “irriducibili” laziali e vicino al clan camorristico Senese, aveva testimoniato il tema tutt’altro che marginale del rapporto mafie e sport, dell’importanza del controllo delle curve degli ultras per gli interessi delle consorterie criminali. Agli occhi degli addetti ai lavori, di chi si occupa non incidentalmente di mafie, la morte di Piscitelli non rappresentava una squassante novità. Già nel 2010, infatti, era stato pubblicato uno dei primi studi dedicati all’infiltrazione dei clan nel mondo del calcio, commissionato da “Libera” e intitolato “Le mafie nel pallone” (reperibile in Rete), di Daniele Poto. Uno studio di cui vale la pena riportare integralmente l’incipit, al fine di valutarne il grado d’allarme lanciato e la portata della transumanza mafiosa nel mondo del football. «Riciclaggio di soldi mediante sponsorizzazioni, partite truccate, scommesse clandestine, presidenti prestanome […]. Le mafie sono nel pallone. Dalla Lombardia al Lazio, abbracciando la Campania, la Basilicata, la Calabria, toccando la Puglia, con sospetti in Abruzzo e con un radicamento profondo nell’isola siciliana. […] 30 clan direttamente coinvolti o contigui censiti nelle principali inchieste riguardanti le infiltrazioni mafiose e i casi di corruzione nel mondo del calcio». Tanti erano i clan che godevano della vacca grassa, il «gotha della mafia»: dai Lo Piccolo ai Casalesi, dai Mallardo ai Pellè, dai Misso alla cosca dei Pesce e Santapaola. E l’autore del breve saggio concludeva: oggi i clan «controllano il calcio scommesse, condizionano le partite, usano il calcio per cimentare legami con la politica, riciclano soldi».

Quanto alla Sicilia, di recente Nuccio Anselmo, cronista de “La Gazzetta del Sud”, ha raccontato in un corso di formazione per docenti del Piemonte dell’arrivo nella città mamertina di Michelangelo Alfano, legato al mandamento di Bagheria dei Greco: «ce lo vediamo piombare in città, e diventa addirittura presidente della squadra di calcio del Messina, per alcuni anni servito e riverito da tutti e, poi, improvvisamente – ma su questo improvvisamente ci sarebbe tanto da discutere – la città scopre che in realtà è un mafioso». Erano i primi anni Ottanta, Cosa nostra aveva già indovinato lo spazio giusto in cui inserirsi, con largo anticipo rispetto la capacità delle agenzie di contrasto alle mafie di comprendere quella lenta penetrazione nel mondo dello sport.

C’è voluto del tempo per cogliere la gravità del fenomeno, ma da una quindicina d’anni a questa parte il tema pare essere stato individuato. A riprova del crescente problema del condizionamento del calcio a opera delle organizzazioni mafiose, nel 2012 usciva, infatti, un altro volume, opera di Pierpaolo Romani, “Calcio criminale” (Rubbettino editore), nel quale il fenomeno era enumerato nella sua arida serie di illeciti: partite truccate, campionati falsati, gestione delle scommesse, lecite e illecite, riciclaggio di denaro sporco, controllo delle scuole calcio e dei vivai delle squadre, bagarinaggio, estorsioni mascherate da sponsorizzazioni, minacce a giocatore, allenatori e dirigenti, controllo dei servizi e delle attività interne ed esterne agli stadi.

La questione non poteva sfuggire agli organi istituzionali, come non è sfuggita, nel 2017, alla Commissione parlamentare antimafia presieduta da Rosy Bindi, che il 14 dicembre di quell’anno ha approvato una relazione titolata “Mafia e calcio”. Una relazione anch’essa reperibile in Rete, che evidenzia le interconnessioni strette tra criminalità organizzata, criminalità comune e frange violente del tifo organizzato, dentro il quale alta è la presenza di soggetti con precedenti penali anche gravi; tutto ciò senza dimenticare la presenza di gruppi di politica estrema, in particolar modo della destra. Attraverso l’analisi di alcuni club calcistici di serie A e della serie minore (Juventus, Napoli, Catania, Genoa, Lazio, Latina), si sottolinea come il tifo sia spesso controllato da gruppi criminali – in alcuni casi, i capi ultras sono legati alle cosche mafiose – o con metodi assimilabili a quelli mafiosi, e come le società sportive siano sottoposte a forme di ricatto, con i gruppi criminali che fungono da garanti dell’ordine pubblico negli stadi.

Un vero e proprio “controllo del territorio” operato dai capi della tifoseria organizzata, funzionale ad attività illecite quali lo spaccio di droga, il merchandising, la vendita a prezzi maggiorati di biglietti e abbonamenti per le partite. Il controllo criminale è, appunto, interno ed esterno allo stadio: in questo secondo caso, ciò che alletta i clan è il guadagno derivante dal controllo dei parcheggi o, magari, l’estorsione nei confronti dei “paninari”, che vendono centinaia di panini e bevande ai tifosi. Tanto per fornire una cifra meno astratta dei guadagni derivanti dall’illecita gestione degli spazi esterni agli stadi, vale la pena ascoltare la voce di Vittorio Boiocchi, il capo ultras nerazzurro, intercettato nel corso di un’indagine: «faccio 80mila euro al mese con biglietti e parcheggi». Era il 2021; l’anno successivo Boiocchi veniva ucciso sotto la sua abitazione a Milano. Passano ancora due anni, si arriva al settembre 2024, e, nella grumosa realtà degli ultras, il capo della curva nerazzurra, Andrea Beretta, accoltella alla gola Antonio Bellocco, legato all’omonima famiglia di ‘ndrangheta e presente nel direttivo della curva interista.

Il calcio appare, così, una straordinaria lavatrice del denaro sporco e, al contempo, un ambito che garantisce consenso sociale e ulteriori introiti. La Relazione sopra citata punta l’attenzione anche sul match fixing – ossia l’alterazione fraudolenta di un risultato sportivo – ed esamina alcuni casi di relazioni torbide tra giocatori e membri della criminalità organizzata. Importanti inchieste della magistratura, quali quelle avviate dalle procure di Cremona, Catanzaro, Napoli e Catania, hanno infatti «evidenziato la rilevanza del fenomeno della corruzione di atleti, disponibili a favorire la manipolazione degli incontri calcistici». È un passaggio importante, questo, perché inserisce sotto lo stesso tetto gli interessi privati mafiosi e quelli degli atleti – sui quali grava anche un altro problema, ossia quello del doping – e individua un solido filo conduttore, «che distorce alla radice il senso dello sport, non più inteso come ambito valoriale di crescita della persona […] bensì come luogo esclusivamente orientato alla realizzazione del profitto».

Aspirazione al profitto ed esaltazione della vittoria, vista, quest’ultima, come «unico riferimento valoriale che sembra propagandato e sostenuto nella narrazione dello sport del terzo millennio». Ce n’è abbastanza per demitizzare l’incanto – a cui, forse con eccessiva ironia, si è fatto riferimento all’inizio di questo scritto - che trovava una sponda pregnante in uno scrittore acuto come Pier Paolo Pasolini, che in un’intervista dei primi anni Settanta aveva detto: «il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo». Difficile dire se sia ancora una rappresentazione sacra. Forse lo è per gli estimatori, per gli irriducibili non violenti di ogni curva, per i telespettatori appassionati del bel gesto sportivo. Di fatto, stando a quel lontano lavoro che è “Le mafie nel pallone”, nel campionato 2009-2010 di serie B, le partite “indirizzate” sarebbero state ben 25. «Una cifra di aggiustamenti considerevoli, tali da modificare i responsi più certi un torneo: promozioni, retrocessioni, playoff, playout: tutto vistosamente alterato». Nel 2006, occorre ricordarlo, era scoppiato “calciopoli”, in serie A, bissato, nel 2011, da un’altra ventata di scommesse nella stessa serie maggiore. La gestione delle scommesse non era sfuggita ai boss mafiosi, i quai hanno investito parte dei loro proventi acquistando agenzie di scommesse, sale bingo, aziende che fabbricano slot machine, nonché realizzando e gestendo siti internet illegali. Non a caso, se si considera che la Dia attesta che in Italia il gioco è una vera e propria industria, con un fatturato complessivo pari al 3% del PIL e dà lavoro a oltre 5000 aziende e 120.000 persone; un Paese, il nostro, tra i primi cinque al mondo per volume di gioco.

Di un male ancora maggiore, se possibile, soffrono le società dilettantistiche, che sono, a detta della relazione “Mafia e calcio”, «le più vulnerabili, in quanto la criminalità organizzata può offrirsi come leva finanziaria alternativa ai normali circuiti bancari». Il tema è enorme e non è affrontabile in questa sede, se non facendo riferimento a un territorio circoscritto, quello romano, attraverso un articolo, pubblicato nel 2020 per l’Università di Milano da Ilaria Meli: «Quando la mafia entra allo stadio: il rapporto tra sport e organizzazioni criminali a Roma». In un lavoro piuttosto ampio – che tratteggia gli interessi mafiosi non solo per il calcio, ma anche quelli più remoti per le corse dei cavalli e quelli più vicini per il pugilato – la Meli parla del sequestro di squadre di calcio che facevano riferimento ai clan presenti nelle borgate, utili per il riciclaggio o per «rafforzare la presenza sul territorio dei gruppi criminali». È il caso della “Polisportiva dilettantistica Montespaccato”, squadra locale della borgata popolare di Roma Nord-Ovest, da tempo sotto il controllo di alcuni clan romani, tra i quali i Gambacurta, che avevano gestito il gruppo sportivo sino al sequestro del 2018; o, ancora, la “Real San Basilio”, ubicata in un quartiere legato allo spaccio nella zona Est di Roma, e a presiedere la quale è andato, fra gli altri, uno dei rampolli della famiglia Marando di Platì, nella Locride.

Per le consorterie criminali, gestire una piccola società in un territorio di periferia, significa entrare in contatto con la comunità con una veste rispettabile, avere relazioni con le autorità politiche, imprenditoriali, associative, presentarsi “puliti” agli appuntamenti con appalti, convenzioni, finanziamenti, partecipare alle manifestazioni pubbliche e istituzionali e, ancora, entrare in contatto con i giovani e le loro famiglie attraverso delle attività collaterali di scuola calcio. Fuori e dentro gli spalti, insomma, è possibile reclutare giovani membri per le famiglie mafiose. Sia detto per inciso, l’uso strategico delle attività sportive risulta altrettanto, se non ancora più evidente nel caso del pugilato: «diverse inchieste hanno, infatti, coinvolto giovani e promettenti boxeur della scena internazionale, utilizzati come picchiatori dai clan». Fra gli altri, è il brodo di coltura della famiglia Casamonica.

Al di là di questo accenno, resta vero che «le più evidenti degenerazioni nella pratica sportiva sono quelle del mondo del calcio», come affermavano, nel 2017, i due coordinatori di un tavolo di lavoro agli Stati Generali della Lotta alle Mafie del ministero della Giustizia, Davide Pati dell’ufficio di presidenza di Libera e il magistrato Antonello Ardituro. Il lavoro in questione analizza, fra le altre cose, le debolezze del sistema calcio, dall’enorme flusso di denaro presente alle nebulosità e alle lacune normative, dalla presenza di investitori esteri di cui è difficile rintracciare la natura finanziaria alla graduale perdita dell’idea agonistica e onesta dello sport alle relativamente tiepide pene connesse agli illeciti presenti in questo ambito.

È un bel pasticcio davvero, lo si dice, stavolta, senza ironia. Non è solo il furto materiale di denari, ma è l’adulterazione dei sogni. È terribile dover sospettare che un grande gesto atletico – una rovesciata volante, fra gli altri – porti la palla in rete perché il portiere scatta un secondo dopo a intercettare il tiro, perché l’assist arriva tra i piedi del cannoniere e della sua poetica sforbiciata con una mezza difesa rimasta incantata a rimuginare il conto in banca rimpinguato dall’intrallazzo architettato con il clan. La corruzione, così, non resta un fatto privato, nascosto; è sotto gli occhi di tutti, si fa arena festante, in quella sacra rappresentazione i cui dei, talvolta, appaiono umani, troppo umani, minacciati o allettati dalle profferte mafiose.


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