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Expo 2015: un po’ luna park, un po’ fiera, un po’ suk

Una giornata fra i padiglioni dell’Esposizione universale fra disservizi, ragazzini festanti, pochissima innovazione e tanti selfie

di Adriano Todaro - mercoledì 27 maggio 2015 - 4650 letture

Passare una giornata a Expo 2015 è faticoso. Ma anche raccontarla non è agevole. E non lo è per diversi motivi, per la quantità delle cose che ci sono da raccontare ma anche per quello che dovrebbe esserci e non c’è.

Io, però, alla Fiera dell’Esposizione universale ci sono stato proprio per raccontare le mie sensazioni e quindi, forza, raccontiamola questa giornata che comincia sabato 23 maggio 2015. Parto subito con una cosa positiva tanto per non passare per un “gufo” ed è il treno che mi porta da dove abito, in provincia di Monza e Brianza, alla fermata di Rho-Fiera. Il treno viene da Chiasso e non bisogna cambiare. Sotto questo aspetto è molto comodo il treno delle Nord. Peccato che la carrozza è vecchia e nessuno annunci le fermate (cosa che invece troverò al ritorno). Penso ad uno straniero, ad una persona che non sa dove scendere per andare a visitare l’Esposizione universale. Non passa neppure il controllore dei biglietti per chiedere e qualcuno potrebbe anche confondersi con la successiva fermata che si chiama anch’essa Rho ma è quella che c’è sempre stata per la città di Rho.

Dalla stazione si scende in un tunnel dove arriva anche la metropolitana. Tantissimi cartelli luminosi e non indicano, all’ipotetico visitatore, dove trovare le linee di treni e metropolitana, i vari servizi, la biglietteria e tanto altro. Purtroppo la biglietteria per entrare all’Expo apre alle 9,30 quindi uno che è arrivato alle 8, ad esempio, dovrà attendere parecchio prima di fare il biglietto. In realtà, mi dice un addetto con pettorina gialla, la maggioranza dei visitatori il biglietto ce l’ha già. Questo è vero tanto più che i cancelli dell’Expo si aprono alle 10.

Prima non si può entrare. Io debbo raggiungere l’ufficio accrediti. Precedentemente, secondo normativa, ho inviato la mia fotografia e i miei dati per poter avere l’accredito stampa. All’ufficio apposito, che sta nel mezzanino della metropolitana, ci giungo attraverso un tapis roulant. Sono le 8,45. L’ufficio è chiuso. Apre alle 9. Quindi attesa, in coda, con altri colleghi. Alle 9 e qualche minuto aprono l’ufficio. Si passano tre “postazioni” gestiti da giovani sorridenti e, alla fine, ti consegnano il tuo “pass” che, raccomandano, deve essere messo al collo ben visibile. Di fronte all’ufficio accrediti ci sono i servizi igienici. In quello dedicato agli uomini c’è già un po’ di fila. Quando entro capisco il perché. Ci sono solo tre gabinetti di cui uno chiuso per manutenzione.

Riprendo a camminare per raggiungere la Fiera. Uso l’indicazione “Fiorenza Ovest” e quando risalgo in superficie mi trovo in un immenso piazzale già abbondantemente occupato da migliaia di persone, pazientemente in fila nell’attesa che i “tornelli” per entrare li facciano passare. Manca poco più di mezz’ora alle 10. La gente continua ad arrivare. Il tempo è nuvoloso e non oso pensare ad una giornata di pioggia; tutti in fila, con ombrelli che si scontrano con altri ombrelli, con i controlli di borse, telefonini, macchine fotografiche.

Ci sono tantissime entrate per il pubblico pagante. Naturalmente per chi non paga, ci sono porte a loro dedicate. Io sono uno di questi fortunati. La porta dedicata alla stampa, ha sul display intermittente la parola “Media”. A fianco, il display annuncia che da lì passano solo i “VIP” (sic!). Nella mia corsia sono l’unico. La gestione del controllo delle entrate è affidato ad una agenzia privata, la Ivri (Istituto Vigilanza Riuniti d’Italia) che ha vinto l’appalto. Ha 7.200 dipendenti e 40 sedi sparse per l’Italia. Il controllo è come negli aeroporti, si mette tutto dentro un vassoio e si passa sotto un metal detector. Ho una bottiglietta d’acqua e sento un addetto Ivri che chiede ad un collega come ci si deve comportare con le bottigliette d’acqua. Comunque passa senza problemi. Poi, nel corso della giornata, una signora mi racconterà che gli hanno fatto la “prova bevuta” nel senso che gli hanno fatto bere alcuni sorsi d’acqua.

Tutto bene, quindi. Eh no, sarebbe troppo facile. Superato il “tornello” debbo inserire il mio “pass” sotto un lettore ottico e qui c’è un inghippo. Il “lettore” probabilmente non sa leggere perché non emette il classico bip bip di avvenuta lettura. E allora, cosa facciamo? Un addetto Ivri mi dice che debbo tornare all’ufficio accrediti. Questo significa almeno un quarto d’ora di strada, su è giù per scale. Provate a telefonare voi, suggerisco. Borbottano ma telefonano. Il responso è deludente. Debbo necessariamente tornare in ufficio perché si sono dimenticati non so cosa. Rifaccio il cammino all’inverso, i gentili e sorridenti ragazzi dell’ufficio accrediti mi riprendono il “pass”, lo passano sotto un aggeggio e me lo restituiscono. Poi, di nuovo, sul tapis roulant e, infine, al “tornello” dedicato ai “Media”. Debbo rifare tutto. Ritirare fuori la macchina fotografica, telefonino, chiavi, bottiglietta d’acqua. Ma l’ho appena fatto! E’ la regola, mi rispondono. Questa volta il “lettore” ha imparato a leggere e mi fa entrare.

Ecco, finalmente sono all’Esposizione universale. Debbo dire che in quel momento sono uno dei pochi e l’immenso corridoio di più di un chilometro che porta all’entrata vera e propria è pressoché deserto. C’è una macchina elettrica, del tipo di quelle che si vedono nei campi da golf, con su tre persone. L’autista, gentilmente, mi chiede se voglio salire ma rifiuto perché voglio fare, dall’alto, delle fotografie al piazzale d’ingresso che, nel frattempo, è pienissimo. Questo immenso “stradone” è sopraelevato su strade e ferrovie. Non c’è una panchina, un cestino per i rifiuti, un punto acqua. Solo telecamere, tantissime, posizionate sulla volta. Vedo, solitario, un addetto alla vigilanza. Chiedo ogni quanto passa la macchina elettrica. Non ne sa nulla. A trecento metri vedo fermi mentre chiacchierano, due carabinieri e due militari dell’esercito. Pongo la stessa domanda a loro. Non ne sanno nulla.

Proseguo la camminata e, finalmente, arrivo all’entrata vera e propria dove parte il lunghissimo rettifilo chiamato “Decumano”, altro chilometro e mezzo. Nel sito internet dell’Expo si spiega che “in molte città moderne è ancora evidente la struttura a forma di croce, eredità del castrum, l’accampamento romano che si distingueva per la pianta ortogonale e le strade tra di loro perpendicolari chiamate Cardo e Decumano”. Il “Cardo”, invece, quasi a metà del lungo rettifilo, si sviluppa per 350 metri e taglia, in pratica, il “Decumano”.

All’inizio del “Decumano”, sulla sinistra c’è il “Media Center”. Ci vado per avere qualche dato. All’entrata c’è la postazione Rai, poi in un salone con un lungo tavolone con alcune persone che battono sui computer, che caricano batterie delle macchine di ripresa e telefoni, che si collegano ad internet. E’ la sala stampa e, all’ingresso, una gentile e sorridente ragazza, mi registra. Chiedo a lei alcuni dati sull’affluenza ma mi guarda stranita. C’è un ufficio stampa, chiedo? Sì, mi risponde e indica con il braccio due persone in fondo al salone. Ci vado e mi rivolgo a quello più anziano dei due. Ho visto, in coda, tante scolaresche e vorrei sapere la media di quanti ragazzi passano dall’Expo. L’addetto all’Ufficio stampa mi guarda con un po’ di compassione mista a commiserazione. Abbiamo fatto un comunicato – dice con voce stanca e paziente come se la cosa l’avesse già ripetuta un milione di volte – che non daremo cifre per evitare stress, analisi ritenute inutili. Certo, questo lo so. Ma pensavo, rispondo, che dopo 23 giorni dall’apertura qualche dato si sarebbe potuto conoscere. Ad esempio, in media quante persone entrano ogni giorno? Lo sguardo dell’addetto, è sempre più sufficiente. Probabilmente mi giudica solo un rompiballe. L’unico dato che posso darle, risponde, sono i biglietti venduti: 11 milioni e 300 mila. Venduti? In verità sono stati parcheggiati ai tour operator, in attesa di essere piazzati.

Ed eccolo il Decumano, con le grandi vele che fanno ombra al visitatore. Sui lati sono disposti i padiglioni dei vari Stati partecipanti all’esposizione. Le code per entrare cominciano ad infoltirsi. Entro nel padiglione ceco con la “stanza del silenzio”, in quello dell’Angola con il “suo” albero della vita dove una video installazione continua, fa vedere le donne più importanti del Paese africano perché, come mi spiega uno steward, “l’Angola ha deciso di puntare sulle donne”. Molti padiglioni, dall’esterno, sono sfarzosi come quello dell’Azerbaijan e Kazakhastan o quello degli Emirati Arabi. In realtà i materiali sono posticci. Si vedono torri merlate e costruzioni tipiche del deserto ma sono di materiale pressato e plastica. In quello del Sultanato dell’Oman batto sulle colonne e mi risponde un suono tipico del cartone pressato.

Preferisco stare in coda dove è possibile “rubare” brandelli di conversazione di chi mi sta attorno. Il clima è quello della gita fuori porta: battute, amenità, iperboli continui del tipo “bellissimo”, “fantastico”, “unico” e cose del genere. D’altronde gli iperboli sono stati usati abbondantemente dalla stampa in questi mesi. La Repubblica pronosticava “Milano al centro del mondo”, l’Avvenire che “Il mondo è all’Expo”, il Corriere puntava sulle emozioni con “L’emozione di essere al centro del mondo”, La Stampa rassicurava tutti che “Per sei mesi il mondo guarderà all’Italia” mentre il Secolo XIX ci faceva sapere che l’Expo era “La sfida dell’Italia”.

Il padiglione del Vietnam è molto spartano. Si espongono vasi e statue. Moltissimi si fanno fotografare abbracciati a queste statue ad altezza uomo con il marito che dice alla moglie: “indicalo con il dito”. Questo delle foto e, soprattutto, del selfie, è massiccia. Sono tutti muniti di braccio allungabile per potersi ritrarre. Ti aspetti di vedere, da un momento all’altro, che spunti fuori un venditore straniero di questi oggetti che vedi, numerosi, per le vie del centro. A metà circa del Decumano, una falsa panchina con seduta una statua. E’ la statua di Lucio Dalla che non si capisce cosa c’entri con “Nutrire il pianeta”. Anche qua, in coda per farsi ritrarre con il cantante. Le più numerose sono le signore che si fanno immortalare mentre baciano, sulla bocca, la statua.

I più felici sono, comunque, le scolaresche. Il clima è proprio da gita scolastica e come tutte le gite che si rispettano tutti hanno in mano un panino che sbocconcellano. Ridono, scherzano, si rubano i cappellini. Le insegnanti hanno il loro daffare per metterli in riga. E’, comunque, il tocco più bello dell’Expo milanese. Loro, soprattutto i più giovani, dovevano passare solo una giornata in allegria. Di “Nutrire il pianeta” se ne parlerà a scuola.

Sulla sinistra, in fondo ad un vialetto, c’è la Cascina Triulza, il Padiglione della Società civile. E’ l’unica struttura che, terminata la Fiera, rimarrà alla città di Milano e dove troveranno sede numerose associazioni del volontariato. Possiede pannelli fotovoltaici, un auditorium con 200 posti (quando arrivo è in corso l’assemblea dei soci di “InsiemeSalute”, una mutua milanese legata alla Coop), un cortile di 1.700 metri quadri per attività educative e ricreative, un bar ed altro ancora. C’è anche un’area mercato con prodotti tipici e vedo che i siciliani vendono cannoli vicino al “baracchino” dell’India.

Povero anche il padiglione di Cuba ma dietro c’è una cosa importantissima e preziosa. Un totem che distribuisce, gratuitamente, acqua, sia frizzante che liscia. Importante perché è uno dei pochi. I punti acqua (possiamo anche capire il perché) non sono pubblicizzati e si fa fatica a scovarli così come i servizi igienici. All’entrata del padiglione della Regione Lombardia una grande scritta, in inglese, recita: “Wonderful Lombardy” e poi, sempre in grande, la traduzione: “Meravigliosa Lombardia”. Peccato che è tutto transennato con operai su impalcature che ci stanno lavorando. Un biglietto da visita “bellissimo”, con il presidente Maroni che promette sarà tutto terminato per la fine di maggio. Anche altri padiglioni sono chiusi, non sono ancora pronti.

Allo slogan, al tema centrale dell’Expo “Nutrire il pianeta, Energia per la Vita”, ci possiamo pensare dopo. Ora vediamo di nutrire noi stessi. L’amico di Renzi, Oscar Farinetti, ha 20 ristoranti (concessi senza gara di appalto) che rappresentano le Regioni italiane. Volete nutrirvi per la vita? Bene, sappiate che una pizza Margherita costa 7,50 euro (ma ne ho trovata una in un ristorante, che non c’entra con Farinetti, a ben 10 euro!); con 9 euro ti portano una mozzarella per antipasto. I primi e secondi piatti vanno dai 7,50 ai 26 euro. Lo slogan dell’azienda di Farinetti è: “Eataly = alti cibi”. In realtà di alto ci sono solo i prezzi. Ma se volete risparmiare, si fa per dire, andate alla fine del Decumano, da Slow Food. Un’offerta recita: “Degustazione formaggi + acqua, 8 euro”. E, naturalmente, c’è sempre McDonald’s.

Ai lati del viale, tantissimi stand di TechnoGym che non si capisce cosa c’entrino con “Nutrire il pianeta”. In un piazzale questa azienda ha posizionato tante cyclette. Ci pedalano sopra volenterose donne e uomini sudati ma molto fieri di farsi fotografare. Spero solo, per loro, che non abbiano pagato il biglietto per fare la faticaccia, che appartengano allo “staff” come si usa dire.

Per entrare nel padiglione della Polonia, si percorre una scala. Ai lati tantissimi liste di legno del tipo di quelle cassette per la frutta, una muraglia alta metri. Mi domando quanti alberi abbiano tagliato, altro che sostenibilità. Dentro anche una “Bocca della verità”: tu gli dici il tuo nome e la bocca, con la pronuncia tipica del robot, lo ripete e dice qualche amenità. Sembra molto apprezzato dai visitatori che fanno a gara a dire il proprio nome e sentirselo ripetere, con grande risate collettive.

E, finalmente, si arriva al Cardo che porta all’ "Albero della vita". Ai lati di questa “traversa”, ancora stand con i salami Citterio, i gioielli siciliani, vini, piccoli stand della Calabria, Irpinia, Liguria ed altri. Il Cardo sbuca all’ "Albero della vita" con i suoi 37 metri d’altezza tutto legno ed acciaio. E’ forse una delle cose più brutte e pacchiane dell’Expo, poco inferiore del Padiglione Italia che dall’esterno assomiglia un po’ ad un carcere e un po’ ad un’azienda. Gli altoparlanti irrorano di note musicale tutta la piazza. Ogni volta che parte la musica, zampilli di acqua si innalzano verso il cielo. Quando arrivo stanno suonando un improbabile “Mambo italiano” e alcune persone accennano a timidi passi di mambo.

L’attrazione maggiore è costituita, però, da poltrone basculanti che non si rovesciano mai, sponsorizzati dalla Coca Cola. I bimbi ci godono un mondo. Sembra di essere al luna park. Ma anche i grandi apprezzano. Una ragazza vicino a me ci prova, bascula, ondeggia e poi invita il suo compagno a provare anch’esso perché, a suo dire, “è un’esperienza unica”.

Le Esposizioni universali hanno sempre fatto dell’innovazioni il punto centrale (lo Sputnik, il treno superveloce giapponese ecc.). Qua d’innovazione c’è poco o non si vede. C’è la coltivazione verticale d’Israele, i boschi dell’Austria e poco altro. Qua sembra di essere ad un luna park, in un suk, ad una fiera. Una mostra senza anima che per farsi visitare pretende 39 euro. Anche i prodotti sono quelli che sono, spesso paccottiglia. In certi stand si vendono prodotti, carissimi, come il peperoncino, o le spezie che puoi trovare tranquillamente, a meno prezzo, nei negozi etici o del tipo l’Altro Mercato.

Sembra (ma usiamo il dubitativo perché è tutto segreto) che le cose non vadano bene. Al sabato è pieno (ma inferiore a quanto si erano illusi gli organizzatori), la domenica meno. I treni sono semideserti, nessun volo in più negli aeroporti milanesi, i parcheggi vuoti. Per recuperare, ora gli organizzatori hanno lanciato un biglietto serale a 5 euro.

Pochi servizi, pochissimi distributori d’acqua, impossibilità per i disabili di poter accedere a diversi padiglioni. E’ l’Expo all’italiana. Con i soliti sprechi, le solite aziende bloccate in odore di mafia, la Via dell’Acqua incompiuta. Un monumento senza personalità, senza anima di cui nelle nostre menti non resterà traccia. Quando chiuderà si smonterà tutto. E i terreni saranno venduti. Sempre che si trovi un acquirente.


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