Ex Ilva: un euro per l’acquisto e settemila esuberi. Sciopero il 16 ottobre
Un articolo di Pasquale Esposito (MentInfuga).
Le offerte arrivate per l’ultimo bando per la vendita di Acciaierie d’Italia, ex Ilva, di cui poco si conosce non porterà a nulla di buono, in particolare per l’occupazione. Anzi. Sul Il Sole 24 Ore, non un giornale comunista, Paolo Bricco scrive, in un ottimo articolo che presenta tutte le complicate problematiche dell’industria, senza possibilità di replica: «L’unica cosa sicura è che sarà una apocalisse occupazionale. A quanto risulta a Il Sole 24 Ore, che ha consultato più fonti convergenti, la proposta di Bedrock Industries [una delle società che ha risposto al bando, ndr] per l’ex Ilva prevederebbe la conservazione di duemila addetti a Taranto e di altri mille addetti nel resto dell’Italia, fra gli stabilimenti di Novi Ligure e di Cornigliano e i servizi logistici e commerciali sparsi nella penisola, […]. Tremila salvati, dunque. E gli altri? Purtroppo, gli altri, sommersi. A seconda dell’assetto finale, nella visione di ristrutturazione cruenta di Bedrock, gli addetti che dovranno uscire definitivamente dal perimetro sono compresi fra i settemila e i settemila e cinquecento. Le stesse fonti consultate da Il Sole 24 Ore confermano che Bedrock avrebbe quantificato la sua offerta finanziaria in una cifra tonda: un euro» [1]. Ė vero che Bedrock Industries ha promesso sei miliardi di investimenti e la decarbonizzazione totale con l’uso di forni elettrici ma con l’aiuto finanziario delle Stato italiano. E poi siamo sicuri che non la rivendano dopo aver migliorato qualcosa?
Da tempo i sindacati hanno accusato il governo Meloni e in particolare il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, di poca trasparenza e inazione. Il ministro che da tempo fa promesse che non riesce a mantenere, continua a negare la possibilità di uno “spezzatino” dell’ex Ilva: «Il governo ha sempre lavorato a un piano unitario nel quadro di un veloce processo di riconversione ambientale». In effetti il bando ha previsto la compatibilità ambientale e la decarbonizzazione dell’acciaieria ma occorrerebbero soldi pubblici per renderla possibile, ma non ci sono e, comunque, il Ministero dell’Economia, non mette a disposizione.
La non trasparenza su quanto va accadendo e il mancato rispetto degli impegni presi ha portato i sindacati ad indire una serie di agitazioni e assemblee in tutte le fabbriche che porteranno allo sciopero del 16 ottobre prossimo in tutti gli stabilimenti, proclamato dalle segreterie di Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm i cui segretari generali hanno condannato «fermamente l’aver appreso a mezzo stampa dei contenuti delle offerte presentate per l’acquisto dell’ex Ilva, e in particolare quella di Bedrock Industries, che prevederebbe solo 2 mila occupati a Taranto e poco più di mille negli altri siti» [2]. La contrarietà ad uno spezzatino da parte dei sindacati è totale e viene chiesto l’intervento pubblico in via definitiva portando avanti una politica industriale, in un settore quello dell’acciaio, dove le imprese manifatturiere italiane importano dall’estero.
A contribuire alla decisione dello sciopero c’è stata anche l’atto unilaterale sulla concessione della cassa integrazione che ha autorizzato l’incremento del 50% delle unità, da 3.062 a 4.450, senza accordo con i sindacati. L’USB denuncia anche una rotazione della cassa integrazione non equa per tutti, come da accordi ministeriali dello scorso anno. Due lavoratori del reparto Gestione Rottami Ferrosi dello stabilimento di Taranto, direttamente dalla piattaforma aziendale e senza una motivazione, sarebbero stati messi in cassa integrazione. Non sarebbero gli unici casi per il sindacato di base.
Miche Saldutti, su Il Corriere della Sera, commentando le proposte fatte per l’acquisizione di Acciaierie d’Italia ha scritto che «i commissari è cominciato il lavoro più difficile, valutare le proposte che consentano di assicurare almeno 8 milioni di tonnellate, l’occupazione, la decarbonizzazione, gli investimenti e lo sviluppo sostenibile. Come dire: l’equazione che rappresenta tutte le sfide che l’industria ha davanti».
Nei giorni scorsi sono stato a Taranto e di donne e uomini che vogliano mantenere in vita il complesso industriale, che ha fatto della città uno dei luoghi più insalubri e pericolosi per la salute d’Italia, non ne ho incontrati. Come scrive Francesco Alberti su Buonasera24, «a differenza del passato, oggi a Taranto qualcosa si è rotto. Tutti gli enti territoriali si sono espressi contro il rilascio dell’AIA [Autorizzazione Integrata Ambientale], un fatto inedito che, secondo l’associazione, rappresenta un punto di svolta nella storia del rapporto tra il territorio e lo Stato centrale. Una posizione condivisa e compatta che non si vedeva nemmeno durante le grandi proteste del 2008-2009, quando 20.000 cittadini scesero in piazza e furono poi delusi dalla decisione degli enti locali che nel 2011 votarono a favore dell’AIA» [4]. E allora non sarebbe stato meglio intraprendere un’altra strada con la chiusura della fabbrica, che assicuri la salute dei cittadini e salvaguardi l’ambiente con un progetto complessivo di trasformazione economica della città di Taranto e con un piano di ricollocazione certa e puntuale dei lavoratori, in favore della comunità che la vive?
Questo articolo di Pasquale Esposito è stato diffuso da MentInfuga.
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