Europa, non Occidente
L’Europa. Una storia, un simbolo, un fallimento, una speranza. Sin dalla fine della Seconda guerra mondiale il nucleo della comunità degli stati europei fu diviso tra i federalisti che sostenevano la necessità di costruire rapidamente l’Europa a partire dai popoli e dalla politica e, dall’altra parte, i funzionalisti o unionisti che davano priorità all’economia, al mercato, al libero scambio. Dei primi faceva parte Robert Schuman, un uomo radicato nel cuore del Continente, in quella Alsazia-Lotaringia che sin da Carlo Magno aveva rappresentato un’occasione di guerre senza fine e dalla quale, invece, sarebbe dovuta nascere una nuova e forte identità comune; ai secondi apparteneva Jean Monnet, animato da una visione universalistica, economicistica, non continentale ma planetaria. A vincere è stato Monnet, il mercato e non la politica, il Mare contro la Terra, l’annacquamento dell’identità europea in un generico, globalista e inconsistente occidentalismo, quando è invece del tutto evidente che gli interessi delle comunità viventi sulle due sponde dell’Atlantico sono divergenti e opposti: «non si deve esitare a dirlo: l’Europa si farà solo contro gli Stati Uniti, giacché essi non accetteranno mai l’emergere di una potenza rivale» (Alain de Benoist, Diorama letterario 287, p. 10).
Nella tradizione nordamericana l’individuo è tutto e il territorio è solo il suo terreno di caccia. L’Europa è stata sin dai Greci lo spazio della polis, della comunità che cerca di coniugare l’autonomia del soggetto con le forze collettive nelle quali l’io opera, spera, esiste. Il passaggio anche semantico attuato col Trattato di Maastricht (1992) dalla “Comunità europea” all’“Unione europea” ha dunque rappresentato un segnale chiarissimo e rovinoso poiché solo dove non esiste una Comunità c’è bisogno di unire gli sparsi elementi sociali e -in questo caso- nazionali.
L’allargamento affrettato e indiscriminato dell’Europa ai Paesi dell’ex blocco sovietico è stato incoraggiato e finanziato ancora una volta dagli USA con l’obiettivo di impedire il formarsi di una identità politico-culturale e non soltanto commerciale. Il sostegno all’ingresso della Turchia -uno dei più fedeli alleati degli Stati Uniti- ha il medesimo scopo. L’Europa della finanza invece che dei popoli è parte di quel processo di colonizzazione imperialistica con il quale la potenza nordamericana ha conquistato non territori e Stati ma le stesse anime, imponendo ovunque la propria egemonia culturale, esattamente nel senso che questa parola ha in Gramsci.
Un’Europa davvero democratica -e non quella caricatura oligarchica e finanziaria a cui si è ridotta- dovrebbe indirizzare se stessa verso un progetto “imperiale” che è il contrario dell’imperialismo in atto. Impero inteso come convergenza di differenze, valorizzazione degli elementi comuni, potenza non omologante, che sia in grado di avere una propria politica mondiale senza andare sempre a rimorchio del gendarme di Washington.
In un Impero siffatto nazionalità e cittadinanza non coincidono: si può essere di nazionalità italiana o austriaca e di cittadinanza europea. Un Impero così inteso ricorda e salvaguarda la propria storia, tutta la propria storia: vittorie, conflitti, progressi, infamie. Un Impero europeo non permetterebbe che a Satory sulla “Collina rossa”, dove nel 1871 vennero fucilati numerosi membri della Comune anarchica, oggi domini un ristorante McDonald’s.
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Mi viene in mente quanto detto da Tőnnies a proposito della distinzione tra società (Unione) e comunità:
La teoria della società riguarda una costruzione artificiale, un aggregato di esseri umani che solo superficialmente assomiglia alla comunità, nella misura in cui anche in essa gli individui vivono pacificamente gli uni accanto agli altri. Però, mentre nella comunità essi restano essenzialmente uniti nonostante i fattori che li separano, nella società restano essenzialmente separati nonostante i fattori che li uniscono.
Credo che l’Europa, nella sua ricchezza e pluralità di civiltà e non solo come mercato comune, possa e debba essere già oggi l’orizzonte di riferimento per tutti noi.
Oggi vivere e lavorare all’estero anche solo per un periodo, può essere - , soprattutto per i giovani - un’esperienza di grande valore umano, capace di allargare le nostre prospettive culturali e la nostra comprensione delle differenze.
E’ il tempo di partire e non tanto per la "praticità" dell’Euro. Al contrario, oggi è il tempo di partire perchè un’Europa come comunità - oltre che come forza culturale in grado di opporsi al cieco strapotere americano - potrà nascere solo se noi cittadini ci prenderemo lo spazio per viverla come tale, intessendo relazioni, al di là di come la intendono dall’alto.
Le differenze linguistiche non ci devono spaventare, tanti altri sono i punti in comune e anche se non bisona credere alla faciloneria di chi sostiene che "all’estero tutto funziona" (perchè di posti perfetti non se ne trovano), rimane che c’è molto da imparare. Nel frattempo l’Italia non scappa. E anzi quando si torna la si apprezza per i suoi punti di forza e belezze e non solo per i tanti, troppo evidenti difetti.
G7 o G8, comunque si veda ovviamente dipendiamo dagli Stati Uniti: sia che ci chiamiamo Italia, sia che intendiamo chiamarci Europa. E’ l’egemonia economica coadiuvata dalle grandi società del profitto che ha dissolto le barriere a suo piacimento ed è arrivata presto alle leve del potere. Dunque è l’America, perlopiù per un fattore geografico che nella Storia è arrivata a raggiungerle prima del vecchio continente, troppo amante delle divisioni e delle differenziazioni. Non sta a noi giudicare, e d’altra parte non si potrebbe neppure mettere a processo la Storia degli uomini e dei continenti. Nondimeno, dobbiamo tenerlo presente.
Detto questo concordo con Nicola: viaggiare, darci una chanche di conoscenza equivale all’ampliamento culturale dei nostri orizzonti; non è un caso infatti che il paradigma di italietta tragga fertilità giusto da quella buona maggioranza di cittadini che raramente abbia messo il naso fuori dal cancello di casa propria. E poi, quale migliore occasione di esiliarsi (almeno per un po’) adesso che questo paese è veramente allo sbando.