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Estate a Trabia

Gli antichi sentimenti di amicizia e di solidarietà che legano nel profondo gli uomini del Sud ancora salvano quella terra dal buio degli egoismi, delle speculazioni, delle sopraffazioni, delle prepotenze, delle rassegnate indifferenze.

di Antonio Carollo - sabato 22 settembre 2007 - 5208 letture

Ho lasciato Trabia con un pizzico di tristezza. Un’immersione di quasi due mesi mi ha fatto assaporare l’atmosfera del paese natio, i suoi ritmi morbidi, la dolcezza dei volti e dei luoghi della giovinezza, pur nello stravolgimento del lavorio del tempo e delle ferite inferte dall’egoismo e dalla protervia dell’uomo. Sono lieto di avere le radici nella terra di Trabia, a cui ritorno con grato affetto per attingervi nuova vitalità. Durante la vacanza ho rivisto parenti e amici con i quali ho familiarizzato come ai vecchi tempi. Ho partecipato ad eventi felici e ad altri dolorosi, con l’animo reso più sensibile dall’impatto con un ambiente perduto e all’improvviso ritrovato, nella melanconia per un soggiorno che si avvicinava velocemente alla fine.

Nelle scene del matrimonio del figlio di un mio cugino compagno d’infanzia ho rivissuto gli antichi riti che contrassegnavano l’evolversi delle vicende familiari e le festività religiose: le nascite ed i battesimi, le prime comunioni, le cresime, i fidanzamenti ufficiali, i matrimoni, i funerali, la festa dei morti, la processione del Venerdì Santo, del Corpus Domini, della Madonna delle Grazie, del SS. Crocifisso, dell’Immacolata, le solenni celebrazioni in Chiesa della Pasqua e del Natale. Ricorrenze che animavano o mobilitavano la comunità nella gioia, nel dolore, nella fede, che scandivano le sequenze di una vita raccolta e al contempo recitata in pubblico sul palcoscenico dell’universo di un paese in cui avevano origine e fine desideri, pensieri, sentimenti.

Ho letto negli occhi e nel sorriso gentile della sposa, al braccio del padre e poi del giovane sposo, i segni di una felicità trattenuta, pudica, quasi incredula del reale susseguirsi di immagini e di atti lungamente sognati nelle attese di un amore ineffabile, nei giorni dell’amore incarnato da un ragazzo dai vivi occhi scuri, dal viso attraente, dal corpo statuario splendente di calda sensualità.

Alle note dell’Ave Maria di Gounod ricreate da un giovane violinista, plasticamente espressivo anche nei movimenti del corpo, ho trattenuto il fiato al ricordo dei momenti più struggenti della cerimonia, svoltasi alla Cattedrale di Cefalù, lontanissima nel tempo, che diede ’inizio alla mia nuova famiglia.

Ho ascoltato con attenzione l’omelia del prete, echeggiante una tradizione millenaria che avvince gli animi con parole profetiche, con solenni liturgie, con annunci di beatitudini eterne, con canti, cori e musiche suggestive, ma anche con richiami ad una esistenza terrena fatta di lavoro e di responsabilità, illuminata, però, dall’amore per il prossimo e per il nostro Dio. Nell’affollarsi di parenti e amici intorno agli sposi, frastornati e felici, ho colto tanto affetto e tanto sostegno di quella comunità per i propri giovani nel momento in cui i medesimi si apprestavano a intraprendere una vita diversa, più piena, ma anche più irta di difficoltà. Qualche parente, e qualche amico, si è mosso dalla California per assistere a quella cerimonia. Gli antichi sentimenti di amicizia e di solidarietà che legano nel profondo gli uomini del Sud ancora salvano quella terra dal buio degli egoismi, delle speculazioni, delle sopraffazioni, delle prepotenze, delle rassegnate indifferenze. Ho provato emozione nel rivedere due miei vecchi zii, zia Pippina (Giuseppina) e zio Gioacchino, unici superstiti della famiglia da cui proveniva mio padre. Due persone che hanno accompagnato la mia vita nell’età che conta, fino al distacco dalla Sicilia. Le conversazioni con zia Pippina, che ha mantenuto una perfetta lucidità ed ha una memoria intatta, a 98 anni, mi hanno fatto rivivere persone ed eventi della nostra famiglia, il nostro vecchio mondo in cui le gioie si alternavano ai dolori e alle tragedie. Abbiamo rievocato la figura di un giovane ventenne, suo fratello Pinù, chiamato alle armi e mai più ritornato, disperso sul fronte russo; quella del fratello Santo, scampato alla morte in cinque anni di guerra, finito suicida, decapitato dalla ruota di un treno, per un dispiacere d’amore. Abbiamo parlato dello zio Pippinu, suo marito, morto all’improvviso, giovanissimo, dopo aver generato otto figli per i quali negli anni difficilissimi della guerra e del dopoguerra lavorava con un impegno indescrivibile, che aveva dovuto abbandonare il suo tranquillo lavoro di artigiano, ormai non più redditizio per le ristrettezze dei tempi, e improvvisarsi commerciante. Ho ripensato alla forza di questa mia zia, vedova con otto figli piccoli a carico, che ha lottato duramente per assicurare loro una vita decorosa, che adesso, tutti insieme, figli, nipoti e pronipoti, a gara circondano d’affetto. Abbiamo ricordato zia Nené, sfortunata sposa ventenne, morta inspiegabilmente, mentre stava vivendo il tumulto di un matrimonio sbagliato. Era compagna di gioventù di mia sorella Giuseppina, essendo zia e nipote coetanee. So quanto era capace di tenerezza e di amore, ma il giovane di cui si era innamorata si mostrò ben presto, dopo il matrimonio, indifferente ed ostile. Più di una volta in piena notte zia Nené andò a bussare alla porta della sorella, in vestaglia, scarmigliata, impaurita, piangente.

Sono ritornato al mio vecchio stratuni, la strada principale del paese, ormai soffocato dalle macchine, dai gas di scappamento e dai rumori, dove si svolgevano le tranquille passeggiate dei giovani, delle ragazze più disinvolte, dei fidanzati seguiti dai genitori o di altri parenti, di sposi novelli, discreti nell’assaporare le loro prime libertà. Pomeriggi ovattati immersi in interminabili discorsi sulle ragazze che i più fortunati, gli studenti, potevamo avvicinare però solo alla stazione e sul treno, nella tratta Trabia-Termini Imerese e viceversa, nei brevi viaggi per raggiungere il Ginnasio o il Liceo-Ginnasio e per ritornare. Nei nostri discorsi, non disturbati dal traffico caotico di oggi, si vivisezionava ogni attributo di ciascuna delle ragazze che potevamo adocchiare. Le gambe, il seno erano gli argomenti di rigore. Le cosce, che venivano nominate con un certo sottile piacere, erano solamente indovinate nel balenare delle ginocchia nell’atto di sedersi o nei movimenti delle gonne per un colpo di vento o un brusco spostamento. Le gambe erano preferite quelle snelle, ben modellate, col giusto stacco dato ad una discreta muscolatura, le caviglie fini, ma non pelle e ossa. I minni (le mammelle) erano l’altro oggetto di indagini e descrizioni raffinate; dovevano essere come quelli della Venere di Milo, che ammiravamo sui libri di storia dell’arte, cioè sodi, bene attaccati, dai capezzoli turgidi, su un petto ben disegnato e asciutto. Niente ridondanze, floridezze o striminziti ovetti su petti magri cerchiati di costole. Questa rigorosa rassegna sui pochi soggetti femminili in circolazione non lasciava scampo a diverse ragazze. Le altre erano sottoposte a maldestri e ardenti corteggiamenti. Un loro sorriso o un accenno di saluto per qualcuno di noi era un trofeo da portare con orgoglio durante gli indefessi strofinamenti sui marciapiedi e sull’asfalto del Corso La Masa. L’accompagnare una ragazza, in dolce conversazione, nei percorsi per e dalla scuola era la consacrazione di una condizione di privilegio ferocemente invidiata dagli altri poveri mortali. Fiorivano diverse leggende: ad esempio si parlava di lettere d’amore smarrite o carpite a qualche compagno di scuola, lette in classe con allegra ironia e scoppi di risate in un momento di assenza dell’autore, di convegni clandestini nei quali si proiettavano le più scatenate fantasie erotiche. Non mancavano però altre occasioni di incontro tra ragazzi e ragazze. Il periodo del carnevale era uno dei più propizi. In molte famiglie usava organizzare in casa serate di ballo con parenti e amici. Erano ore magiche in cui poteva succedere il miracolo di poter stringere tra le braccia tenere fanciulle in un turbinio di musiche, di coriandoli, di addobbi carnevaleschi, di enfatiche esclamazioni, di spiritate conversazioni. L’atmosfera si surriscaldava con l’entrata dei gruppi mascherati in giro per le case del paese dalle quali fuoriuscisse un rivolo o una zaffata di musica. Giovani e meno giovani figuranti, rivestiti con i più bizzarri abbigliamenti, spesso accompagnati da propri musicanti, appena in sala attaccavano mazurche, polke, valzer, tango indiavolati, con le più strambe ed esilaranti variazioni, sui ritmi del folk locale, delle canzoni del repertorio popolare e di quelle ascoltate alla radio. Durante le esibizioni di questi gruppi gli astanti si divertivano anche a cercare di indovinare l’identità di ciascun elemento della banda. Quello è tizio, no è caio, no è sempronio. Alla fine della scorribanda tutti si scoprivano il volto tra parole di meraviglia, di sorpresa, di ammirazione. Abbracci e baci per tutti e via, per l’esibizione in un’altra casa in festa.

La Festa dello Studente, che si teneva in un salone del Grand Hotel delle Terme di Termini Imerese, nel mese di aprile era l’altra grande possibilità d’incontro con le ragazze. In pratica era il raduno ufficiale dei giovani della migliore borghesia di Termini e dei paesi dei dintorni. Non tutti potevamo accedervi. Occorreva l’abito da sera, il pagamento del biglietto piuttosto salato, soldi in tasca per le consumazioni, la disponibilità di una macchina. Cose lontane dalla portata di gran parte di noi. Ciononostante diversi studenti di Trabia riuscivano ad andarci. Per un mese, poi, ci deliziavano, o ci facevano schiantare d’invidia, con i loro racconti di balli con affascinanti creature, strettamente allacciate, nel fulgore della loro bellezza e dei loro abiti lussureggianti, nello stordimento delle musiche e delle inebrianti fragranze.


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Estate a Trabia
24 settembre 2007, di : enza

Dove vivi bravissimo scrittore di Trabia? Sei un siciliano "esule" come me, da anni a Roma? Sì, gli antichi sentimenti d’amicizia e le antiche usanze ancora salvano la nostra terra martoriata e depredata.I tuoi racconti sono bellissimi,belli come la bellezza pura dell’antica Grecia.ENZA
Estate a Trabia
25 settembre 2007

Vivo a Viareggio con la mente e il cuore divisi. Trabia è la terra delle mie origini, il luogo dove ritorno con emozione e felicità insieme ad un certo senso di colpa. Ti ringrazio sentitamente per le tue gentili espressioni nei miei confronti. Ciao, Antonio