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Edna St. Vincent Millay, tra impegno e sentimento

Poesie / di Edna St. Vincent Millay ; traduzione di Silvio Raffo. – Milano: Crocetti Editore ; IF-Idee Editoriali Feltrinelli, 2020. – 176 pp. - ISBN ‎ 978-88-8306-344-2.

di Angelo Guida - venerdì 20 giugno 2025 - 561 letture

C’è una foto in cui la poetessa Edna St. Vincent Millay (Rockland, 22 febbraio 1892 – Austerlitz, 19 ottobre 1950), in camicia e pantaloni, una mise che potrebbe benissimo essere maschile, posa assumendo un atteggiamento di esibita nonchalance. Non rivolge lo sguardo verso l’obiettivo. Sembra ignorare del tutto il fotografo e gli occasionali spettatori. Il braccio destro si flette ad angolo retto mentre la sua mano, stretta a pugno, tocca la coscia corrispondente. Il braccio sinistro, anch’esso piegato, disegna invece un angolo acuto e ha il gomito poggiato sul ginocchio sinistro, sollevato fin quasi all’altezza delle spalle. Edna guarda in tralice la sigaretta che stringe tra l’indice e il medio della mano sinistra per aspirare una boccata di fumo. Sullo stesso lato, la gamba è piegata fino a toccare il gluteo con il tallone e la coscia con il polpaccio; e il pantalone rimboccato, appena sotto il menisco, mette in mostra lo stinco nudo.

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Copertina di Poesie, di Edna St. Vincent Millay

Il contegno impassibile e disinvolto della poetessa è un indizio rivelatore del suo carattere forte e volitivo, della sua personalità fiera e indipendente, e del suo spirito anticonformista. Anche lei, come Djuna Barnes, è una protofemminista e una creatura sessualmente polimorfa. A riprova che tout se tient, incrocia l’esistenza della scrittrice e sua connazionale quando, durante un breve soggiorno a Parigi (la capitale europea è un passaggio obbligato per gli artisti dell’epoca, e non solo), stringe amicizia con Thelma Woods, amante dell’altra nonché sua musa ispiratrice per il romanzo La foresta della notte (Il dottor O’Connor e l’ossessione dell’inconscio). Delmore Schwartz (Delmore Schwartz, il poeta dell’Atlantico) in “The Hartford Innocents”, un racconto ancora inedito in Italia, fa dire a un personaggio di nome DeWitt Howe che «Edna St. Vincent Millay propagandava il libero amore nei circoli femminili americani e dava scandalo ostentando spudoratamente la sua bisessualità» [1].

Edna vive un’infanzia povera e precaria insieme alla madre Cora e le sorelle Norma e Kathleen, in un nucleo familiare stranamente simile a quello delle protagoniste di Piccole donne con una differenza sostanziale però: mentre nel romanzo della Alcott il marito di Margaret è impegnato sul campo di battaglia qui, invece, il consorte viene allontanato dalla moglie – che chiede il divorzio – in quanto fedifrago e inaffidabile. La madre cura, in particolar modo, l’istruzione delle figlie e – pur costretta a cambiare di frequente domicilio – si porta sempre dietro un baule pieno di classici della letteratura.

La poetessa trascorre la gioventù nel vivace ambiente artistico e bohemien del Greenwich Village diventando ben presto uno dei personaggi più noti dei Roaring Twenties, in ambito letterario. È la terza donna a vincere il prestigioso Pulitzer Prize per la poesia (1923) con The Ballad of the Harp-Weaver (La ballata del tessitore d’arpa). Poco più che trentenne sposa il facoltoso Eugen Jan Boissevain, commerciante di zucchero e caffé di origini olandesi, e insieme si ritirano nella tenuta di Steepletop, ad Austerlitz, nello stato di New York.

Ma, sia nella precedente esperienza metropolitana sia in questo suo estremo esilio dorato, ha provato e continua a provare nostalgia per il mare del suo Maine natio. Le polarità campagna/mare e città/mare sono, in un certo qual modo, anche un traslato della sua natura – in senso lato – anfibia:

Cercando in fondo al cuore la radice
 del suo dolore, infine l’ho trovata:
di gente e di parole sono stanca,
 stanca della città, rimpiango il mare;

quella vischiosa, salata dolcezza
 del vento freddo e degli spruzzi d’acqua,
il suono forte e quello sussurrato
 della possente risacca ogni giorno.

[…]

e ora, imprigionata in grattacieli,
da frastuoni assediata e luci ostili.

[…]

Dall’acqua sono qui troppo lontana.
 Vicino all’acqua voglio ritornare.
(“In esilio”)

I versi sopra trascritti sono tratti dal volume Poesie, a cura di Silvio Raffo, qui preso in esame, uno dei pochi libri della poetessa attualmente disponibili in Italia e pubblicato dall’editore Crocetti.

La Millay non è certo una donna che si fa sottomettere. Con gli uomini pretende un rapporto paritario. E da sposata non perde la sua indipendenza: insieme con il marito dà vita a una coppia aperta. È probabile che il loro ménage sia duraturo proprio perché rispettoso dell’autonomia di entrambi. In “Moglie-strega” sembra dare la parola al coniuge che prenderebbe così atto dei termini del loro rapporto:

Ella mi ama quanto può, i suoi modi
 son quelli che discordano dai miei;
non c’è alcun uomo, no, che fa per lei,
 e neanche mia sarà mai.
(“Moglie-strega”)

In realtà, chi parla non è Boissevain – sposato nel 1923, mentre la poesia da cui sono tratti i versi sopracitati appartiene alla raccolta Renascence pubblicata nel 1912 –, bensì un amante in astratto o uno di quelli con cui ha avuto modo di chiarire la propria posizione in merito alla relazione sentimentale che ha allacciato.

In uno dei suoi famosi sonetti – antologizzati nel volume curato da Silvio Raffo –, Edna proclama la sua fedeltà all’amore, saffico o etero che sia, ma non all’amante:

Credi ch’io sia fedele a una promessa?
Sono infedele, tranne che all’amore.
(“Credi ch’io sia fedele a una promessa?”)

E, in un altro sonetto, afferma senza equivoci la propria indipendenza:

So quel che voglio e ho fatto la mia scelta;
il mio destino non sei tu a deciderlo:
che tu mi ami o no, non ha importanza,
alla fine, di me rispondo io.
(“So quel che voglio e ho fatto la mia scelta”)

Quando si rende conto che una relazione è ormai morta e sepolta, in un ulteriore sonetto, annuncia senza mezzi termini di volerla troncare per aprirsi nuovamente al mondo:

Io voglio liberarmi anche di te
per rivedere il mondo che ho intorno.
(“Non solo il più feroce mal d’amore”)

In amore è, dunque, anticonformista come da lei perentoriamente proclamato. È conforme solo a se stessa, alla sua natura erratica e al sentimento che la anima. E, sempre con un sonetto, avverte l’amato:

Io non ti dò il mio amore come fanno
le altre ragazze, in uno scrigno freddo
d’argento e perle, né ricco di gemme
rosse e turchesi, chiuso, senza chiave;
né in un nodo, e nemmeno in un anello
lavorato alla moda, con la scritta
“semper fidelis”, dove si nasconde
un’insidia che ottenebra il cervello.
L’Amore a mano aperta, questo solo,
senza diademi, chiaro, inoffensivo:
[…]
(“Io non ti dò il mio amore come fanno”)

In un altro sonetto ancora, mentre da un lato sembra mettere in dubbio l’utilità dell’amore stesso («L’amore non è tutto: non è cibo, / bevanda, ozio, riparo alla pioggia»), dall’altro sa che non se ne può fare a meno. E, difatti, prende atto che

[…] molti cercano la morte
per assenza d’amore, in ogni istante.
(“L’amore non è tutto: non è cibo”)

Anche se il suo temperamento la porta a combattere strenuamente per l’affermazione della propria libertà e indipendenza, di fronte alla passione – «La belva che mi strazia ovunque io vada» – è inerme, non le resta altro che soccombere.

Le caratteristiche salienti dello stile della Millay sono così enucleate dal suo traduttore italiano, Silvio Raffo, nell’introduzione al volume preso in esame e in un’intervista, rilasciata a Matteo Fais per la webzine Pangea, pubblicata il 12 febbraio 2018: «la sua poesia resta sostanzialmente e sempre lirica, “aristocratica” e mai “pop”, mai viziata dalle banalità corrive di qualsivoglia intento polemico o propagandistico» (in particolare, Raffo ritiene che, nei suoi migliori sonetti, Edna raggiunge un «perfetto equilibrio fra classicità e modernismo, fra eleganza e arditezza»); «la combinazione di classico e moderno nel suo stile: metricamente parlando, alterna con disinvoltura sonetto a versificazione libera con una serie di deviazioni, irregolarità, scarti e inversioni di rotta. Il gusto dell’inversione e dell’abbassamento di tono, in virtù del quale si passa da un avvio sostenuto e vibrante a un registro prosaico, ha i modi di un lessico famigliare. La sua è una poesia in cui convivono abissi tenebrosi e sberleffi irriverenti, ma il tono si mantiene sempre fedele a una leggerezza elegante, a tratti persino frivola».

Questo lato frivolo, però – è meglio precisarlo – è piuttosto un suo tratto ironico. E anche se la leggerezza è una caratteristica costante del suo stile, ciò non le impedisce di esternare – mantenendo sempre lo stesso registro – il suo impegno sociale e politico. È importante, a tal proposito, ricordare la sua militanza nelle suffragette e il sostegno dato alla causa di Sacco e Vanzetti (a cui dedica due sonetti). Partecipa alle proteste contro l’esecuzione, avvenuta il 23 agosto 1927, dei due anarchici italoamericani e per questo viene arrestata e imprigionata.

Ed ecco che – in nome dell’umana solidarietà – la felicità personale, nel corso di una gita notturna, non le preclude di prendere atto delle difficoltà altrui. Non si gira dall’altra parte. E cerca di porre rimedio almeno temporaneamente, con un piccolo gesto, all’infelicità di una povera donna:

Stanchi eravamo, così stanchi e felici,
su e giù, avanti e indietro tutta notte in traghetto.
“Buondì, mamma!”, gridammo a una testa coperta da uno scialle
E comprammo il giornale del mattino, senza dargli uno sguardo;
e lei pianse e ci disse: “Che Dio vi benedica!” per le mele e le pere,
e noi le demmo tutti i nostri soldi, tranne quelli per il métro.
(“Recuerdo”)

In “MacDougal Street”, componimento non incluso nell’antologia curata da Silvio Raffo, nel descrivere le scene di povertà che osserva mentre passeggia – affascinata da un uomo, presumibilmente un italoamericano – in una strada del Greenwich Village abitata da immigrati italiani, non solo non ha alcun intento denigratorio nei confronti dei derelitti che incontra, ma prova nei loro confronti un sentimento di sincera compassione:

L’ho visto posare una mano sui capelli neri a brandelli di lei;
(“Piccola bimba sporca latina, lascia passare la signorina!”)
Le donne acquattate sugli scalini erano grasse e trascurate
[…]
E ovunque misi piede c’era un gatto e un neonato
[…]
(“MacDougal Street”, trad. di Laura DiLiberto Klinkon)

In una delle sue liriche più celebri, “Rinascita”, complessivamente d’impronta più ontologica che “sociologica”, dopo aver dichiarato la sua inclinazione empatica («per ogni dolore del mondo / condannata a patire, inutilmente / imploravo sollievo, […] feroce / il fuoco di migliaia di persone / mi bruciava, morivo insieme a loro, / per ciascuno di loro mi struggevo!»), descrive queste due scene e ne esplicita la loro introiezione:

A Capri un uomo per fame languiva,
lo sguardo a me levava, e quello sguardo
sentivo su di me, e i suoi lamenti
udivo – mio il suo strazio diveniva.

Nel mare vidi un gran banco di nebbia
fra due navi distrutte che affondavano,
grida a migliaia il cielo laceravano
e ogni grido in gola mi feriva.
(“Rinascita”)

Malgrado il titolo di questo articolo (“Edna St. Vincent Millay, tra impegno e sentimento”) – volutamente ingannevole e riduttivo, pretestuosamente utilizzato per mettere in evidenza gli argomenti principali per cui la poetessa è famosa – il repertorio poetico della Millay è vario, non ha solo la duplice intonazione “socio-politica” e sentimentale, include anche altri temi topici della poesia come la transience (il carattere transitorio e precario dell’esistenza), la speranza, l’amore filiale, la morte e la palingenesi, la bellezza e il suo sfiorire.

In “Primavera” sembra fare il verso alla Terra desolata («April is the cruellest month») di T.S. Eliot. Ma, in verità, così non è perché questa sua poesia è stata pubblicata nella raccolta del 1921, Second April, il poema del premio Nobel l’anno successivo. E osserva che nulla ha senso se il destino di ogni cosa è contrassegnato dall’impermanenza:

A che scopo ritorni ancora, Aprile?
[…]
Ha un buon odore la terra.
La morte sembra proprio non esista.
Ma ha un senso tutto ciò? Non solamente
sottoterra i cervelli degli uomini
son rosi dai vermi.
La vita in sé
non è davvero nulla,
calice vuoto, scale senza stuoia.
(“Primavera”)

E, quando avverte presagi di morte, non può fare a meno di evocare ancora una volta il suo adorato mare:

Il mio corpo nel mare ha da morire!
La sua tomba non vuole nella terra,
di sette piedi, pari alla sua altezza,
ma sopra sé soltanto l’acqua e l’onda!
(“Sepoltura”)

Spargete le mie ceneri nel vento
che soffia verso il mare. Incontrerò
magari, prima o dopo, un pescatore
poco lontano da Capri, a pescare.
(“La maledizione”)

Ma c’è sempre spazio per la speranza, associata – nella già citata “Rinascita” – alla trascendenza:

[…] a un tratto la pesante notte
lasciò i miei occhi, e io tornai a vedere! –
ecco il melo grondante, le cascate
della pioggia argentina, e un cielo sgombro
di nuovo, ancora azzurro da ammirare!
[…] Da terra

mi sollevai, con un possente grido,
che si può udire solo da creature
morte e risorte a una nuova vita.
[…]
Mio Dio!, gridai, nessuna oscura insidia
d’ora innanzi potrà offuscare mai
la Tua radiosa identità!
(“Rinascita”)

In una poesia invoca la defunta madre perché possedeva una virtù, il coraggio, che – lo confessa – a lei manca (ma, conoscendo il suo temperamento audace, c’è il sospetto che si tratti solo di un espediente retorico):

Il coraggio che aveva mia madre
se ne andò insieme a lei per non tornare:
una roccia scavata nel New England,
ora granito in colle di granito.

[…]

Oh se invece mi avesse lasciato
quello che nella tomba si portò! –
quel coraggio di roccia, di cui lei
non ha ora bisogno, e io ne ho.
(“Il coraggio che aveva mia madre”)

Nonostante le innumerevoli traversie che la vita riserva agli uomini, c’è sempre un barlume di bellezza – spesso identificata con l’amore o con la poesia stessa – che rende liete le loro vite ma che prima o poi sfiorirà. Allora è meglio approfittarne e goderne il più possibile. Rievocando l’immagine della farfalla la poetessa celebra il suo carpe diem:

Bianche e azzurre le farfalle
nel pianoro che stiamo attraversando.
Lascia, sì, che ti prenda per la mano.
La morte viene in un sol giorno o due.

Tutte le cose che abbiamo imparato
In un’ora saranno solo cenere:
tu guarda lei, l’effimera farfalla,
come s’avvinghia alla sua preda, il fiore.
(“Mariposa”)

Eppure nell’ultimo sonetto presente nell’antologia crocettiana Edna revoca in dubbio l’asserto keatsiano secondo cui «Bellezza è verità, verità bellezza» (“Ode su un’Urna greca”, trad. di Silvano Sabbadini), chiedendosi:

La bellezza è davvero verità?

Conclude però che, nonostante la realtà tenda a smentire la convergenza dei due valori, occorre perseverare a tutti i costi in quella direzione:

Ma tu scandaglia il fiume, ricerca la Bellezza
e trovala, se puoi: anche annegata
non smentirà il tuo credo – e ancora tu
potrai gridare a tutti che è stata ritrovata.
(“La bellezza è davvero verità?”)

L’inquieta modernità, un tempo considerata una postura eterodossa della Millay, rende la sua poetica vivida e partecipe del mondo odierno soprattutto in ragione di alcuni suoi nuclei tematici. A dimostrazione di ciò, in chiusura, è quasi d’obbligo riportare per intero quest’amarissima “Apostrofe all’uomo (pensando che il mondo sia pronto per un’altra guerra)” – quasi del tutto ignorata dai vari commentatori dell’opera di Edna e dai recensori del libro in parola – un componimento di piglio modernista e di portata universale, scevro da ogni leziosità, che suona, oggi come non mai, di sconcertante attualità:

Deprecabile stirpe, annièntati, scompari.
Produci più in fretta, avanza, usurpa, canta inni,
costruisci più macchine da guerra; continua a blaterare,
per monumenti, denaro, sfilate; ancora una volta
trasforma la sbigottita ammoniaca e la cellulosa perplessa
in esplosivi; e in putridume gradito alle mosche
corpi giovani pieni di speranza; esorta, prega,
sdègnati, scrupolosa, accetta tutto tranne la sconfitta;
fatti fotografare; consùltati, raffina le tue formule;
metti in vendita batteri nocivi alla pelle,
metti pure la morte sul mercato;
produci, avanza, usurpa, espanditi, annièntati e muori,
“homo” cosiddetto “sapiens”.
(“Apostrofe all’uomo”)


[1] La frase di Schwartz è stata così tradotta ipotizzando l’allusione, da parte dell’autore, alle abitudini sessuali della poetessa. Il testo originale («Edna St. Vincent Millay sold free love to the women’s clubs of America and burned her scandals at both ends») cita il primo verso della poesia “First Fig” (“Primo fico”) della Millay: «My candle burns at both ends» («La mia candela brucia da due lati»).


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