"È tutto teatro"

La vicenda di Giovanni Falcone, alla pari di quella di altri uomini stroncati per il loro impegno civile, si ravviva alla luce ipocrita di ricorrenze gestite da un’agenda politica in cui l’iniziativa antimafia risulta la grande assente o un fronte da manipolare.
Domenica 23 maggio un’altra ricorrenza, quella di Capaci.
Sfogliando il calendario, sgraniamo un rosario quotidiano, passiamo da un ricordo all’altro di quanti hanno avuto in sorte di cadere uccisi dal fuoco nemico e amico, come con formula pregnante ha osservato qualche anno fa Salvatore Borsellino dinanzi agli studenti di un liceo artistico torinese. Stavolta tocca al ricordo di Giovanni Falcone, di sua moglie, Francesca Morvillo, dei tre agenti di scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Sono passi ventinove anni, Capaci era un cratere nel terreno, alcuni cittadini di buona volontà hanno cercato e cercano di riempirlo, di sanare quel vuoto, di azzerare la distanza fra la straordinaria stagione giudiziaria legata al Pool antimafia guidato da Antonino Caponnetto e il drammatico corso impresso dalla politica, ai più alti livelli, ai suoi rapporti con le organizzazioni mafiose.
Perché questo è il punto e va ricordato, come un mantra. Mentre alcuni magistrati – Nino Di Matteo, Nicola Gratteri, Giuseppe Lombardo, tra i più noti – continuano a costruire un’idea di società civile fondata sul contrasto diretto alla criminalità organizzata, sulla ricerca rigorosa di una verità storica e giudiziaria insieme, sul riconoscimento di una linea di confine tra legalità e illegalità, il nostro ceto dirigente si è come smarrito dinanzi alla questione, pare smemorato, distratto, occupato altrove.
Non è soltanto un caso il fatto che, nel corso delle elezioni politiche nazionali del 2018, i programmi delle diverse coalizioni avessero espunto qualsiasi riferimento a uno dei temi più scottanti di questo Paese. Certo, riferendosi a quelle elezioni, andrà fatto qualche distinguo tra il vuoto assoluto del problema nell’agenda del Centro Destra e la menzione sbrigativa del Pd, «ribadiamo il nostro impegno in patri contro tutte le forme di illegalità, a cominciare dalla criminalità organizzata di stampo mafioso», o, ancora, la più consistente attenzione al fenomeno mafioso riservata dal Movimento 5 Stelle, anche se in un’ottica di sostanziale contrasto al solo fenomeno corruttivo. Qualcosa di più emergeva nel programma di Liberi e Uguali, il cui leader, al tempo, era un ex magistrato a lungo impegnato sul quel fronte, ossia Pietro Grasso.
Ma il silenzio di quei programmi era eclatante. E lo è ancora. Se si cercasse di avere qualche riscontro analitico minimamente dettagliato dei processi giudiziari che hanno scosso e stanno scuotendo il Paese, si resterebbe delusi cercandoli nei commenti non occasionali, nei convegni, negli eventi istituzionali legati alla politica nazionale. Un buco, come quello di Capaci, si apre guardando all’impegno del ceto dirigente nostrano, tranne quando, giunta la ricorrenza, fioriscono, com’è noto, dichiarazioni di principio così oleografiche da risultare offensive.
Non solo. Si tratta di cartoline auto-celebrative impastate con una dose altrettanto offensiva di sfacciataggine: perché, come ricordava l’avvocato Fabio Repici in un recente dibattito (di cui si è dato conto su questa rubrica), il sacrificio di Falcone sarà ricordato e pianto da quelle stesse bocche e da quegli stessi occhi che stanno cercando di erodere i punti qualificanti del magistero investigativo e giudiziario dell’uomo ucciso ventinove anni fa. Ci si riferisce, in particolare, al recente dibattito sull’ergastolo ostativo.
Del resto, quando il fronte antimafia finisce per essere istituzionalizzato, così come è capitato nel nostro Paese, è difficile immaginare che possa continuare ad avere quel ruolo di cane da guardia del potere che dovrebbe essere nella sua natura. È quanto sostiene un altro magistrato dal robusto impegno su questo fronte, Sebastiano Ardita. Lo fa in «Cosa Nostra S.p.A. Il patto economico tra criminalità organizzata e colletti bianchi» (PaperFirst, 2020), un testo già chiaramente definito nel sottotitolo e denso peraltro di suggestioni sul tema dell’antimafia. Dopo le stragi, ragiona il magistrato, la cultura antimafia «si è diffusa, fino al punto che a qualcuno è venuto in mente di portarla al potere», ma ciò crea il paradosso per cui, se l’essenza dell’antimafia è la denuncia dei rapporti tra la mafia e il potere, essa «per definizione non può gestire un’attività che dovrebbe controllare». Una sorta di conflitto di interessi, non unico in Italia, capace di sfilacciare gli sforzi reali volti a sottolineare il corto-circuito del potere colluso con le mafie e di creare una tale confusione da rendere impossibile ai cittadini, e talvolta agli addetti ai lavori, di comprendere chi stia con chi e contro che cosa. «Questa roba non ha nulla a che spartire con la santità di Rosario Livatino, col sacrificio consapevole di Falcone e Borsellino; sembra invece assomigliare al metodo dei rosacroce, in cui quel che conta è la legge dei vivi».
Così, Ardita. Al suo intendimento, che è anche quello di chi scrive, le dichiarazioni di circostanza dell’antimafia di potere si associano, poi, alle periodiche grida di vittoria contro le organizzazioni mafiose, quando magari la componente militare di qualche cosca siciliana o calabrese viene sgominata. Ma le mafie sono altrove, hanno rigovernato le loro politiche, nei quartieri cercano ancora disgraziati disposti a uccidere e a morire, mentre gli azionisti e gli assetti forti delle organizzazioni vestono panni più puliti e preziosi. A qualcuno conviene che i quartieri catanesi o crotonesi o napoletani siano teatro di repulisti, perché così pare possibile convincere che la mafia è vinta o, almeno, all’angolo.
In tal modo, dirottando l’attenzione su un problema di minore entità, è possibile si affievolisca lo spirito della rivoluzione del 1992, quella che suscitò la reazione contro la mafia stragista a vari livelli della società – politici, giudiziari e della società civile –, che diede vita alla risposta dura contro Cosa nostra e, in seguito, iniziò a scoperchiare i pentoloni torbidi di chi, nello Stato, decise di prendere una strada diversa.
Le menti raffinatissime operavano e operano tuttora, è evidente. Sono state in grado, almeno in parte, di istituzionalizzare l’antimafia, di ammorbidirla scientemente al fine di depotenziarne l’efficacia, di ritualizzarne i costumi, di appropriarsi dei suoi simboli, svilendoli fingendo di celebrarli, di accendere i fari sulla componente più rozza delle mafie per garantire ai colletti bianchi la frequentazione, quieta e priva di scosse, con gli azionisti mafiosi più raffinati. In effetti, in questi trent’anni, quelli che ci separano dalla morte del magistrato palermitano, qualcosa è cambiato, quelle menti raffinatissime possono contare su un esercito crescente di utili idioti e di collaboratori volonterosi, la zona grigia, via via ramificatasi, disposta a ibridarsi con le mafie dal volto rassicurante. Zona grigia che si garantisce, così, l’illegalismo dei diritti e dei servizi, lasciando ai reietti l’onere della visibilità e della cella.
I contorni netti, così, si sfrangiano. Del resto, era lo stesso Falcone a dire «è tutto teatro», riferendosi alle sirene spiegate, ai poliziotti armati sino ai denti che lo scortavano all’incontro con uno scrittore spagnolo. È tutto teatro, è vero, anche se non tutti credono agli «hurrà» dell’antimafia istituzionale o ai lamenti di plastica per la morte del magistrato palermitano.
Nell’attesa forse utopistica che qualche bimbo cresciuto punti l’indice contro questa messa in scena e dica «il re è nudo», a sintesi di questa riflessione è opportuno adottare e adattare le parole di un grande artista, siciliano anch’esso, che ci ha salutati qualche giorno fa, Franco Battiato: «com’è misera la vita negli abusi di potere».
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