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E li chiamano facinorosi

Manifestazioni di strada ieri e oggi. Ha ancora senso parlare di giovani facinorosi, mossi da istinto antagonista?

di Silvia Zambrini - lunedì 20 ottobre 2025 - 770 letture

Quando nel 1968 Pier Paolo Pasolini descriveva una manifestazione studentesca, cui aveva assistito, come uno scontro di classe tra poliziotti poveri e loro coetanei viziati, lo scenario era diverso. Allora gli studenti, frutto del recente Baby boom, erano tanti. Riempivano treni, stazioni, metropolitane, sale da concerto dove ascoltavano in silenzio. Questa massa costante creava già di per se una sorta di contrapposizione tra anziani severi alla vecchia maniera e giovani numerosi, ribelli: un gap generazionale che ha distinto il movimento degli studenti fino a circa gli anni ’80.

Gli anni di piombo, con il terrorismo che uccideva a sorpresa e l’inevitabile reflusso nel privato, avevano contribuito allo spopolamento di strade e piazze precedentemente animate da ragazzi che distribuivano volantini e attaccavano manifesti. Nuovi problemi di immigrazione, emarginazione sociale, mutamenti ambientali si aggiungevano al dibattito politico. In strada si è iniziato a manifestare contro le fabbriche inquinanti, i femminicidi, per la pace attraverso movimenti che raccolgono per lo più la sinistra pur trattando argomenti di interesse trasversale, intergenerazionale: contro la violenza sulle donne e contro le guerre marciano i ragazzini assieme ai genitori e ai nonni. Nelle aree inquinate, oltre agli ambientalisti, si raccolgono i famigliari di chi ha perso la vita a causa dei residui tossici.

Dai tempi in cui i figli contestavano di nascosto si è passati a quelli in cui genitori e figli si riuniscono nelle piazze, sfilano assieme lungo le strade. Sia a destra, che a sinistra, questi eventi si arricchiscono di intrattenimenti musicali, danzanti, mascheramenti, passeggini, cagnolini al guinzaglio: per protestare contro il razzismo, l’omofonia così come per sottolineare i propri confini, la propria identità nazionale. E si è smussato in parte l’antagonismo tra dimostranti e forze dell’ordine perché certe carriere sono diventate più selettive e prestigiose rispetto a quando si entrava in polizia come unica possibilità per uscire da situazioni di povertà e isolamento, coltivando quel risentimento descritto da Pasolini nei confronti di chi aveva avuto una vita più agiata e ora si trovava nelle vesti di avversario. In questo contesto di eterogeneità e intrattenimento i gruppi di provocatori si distinguono nettamente con il resto dei dimostranti: fanno gruppo tra loro, non mostrano il volto, non cantano, non ballano e un po’ fa specie che non si riesca ad arginarli con anticipo. Al contrario li si associa a tutti gli altri compresi nonni coi nipoti, insegnanti coi loro alunni, volontari di associazioni umanitarie.

Anche chi, in passato, ha sfilato assieme a politici storicamente violenti ora condanna le manifestazioni di piazza come atti volutamente destabilizzanti, quasi come trattandosi di fenomeni nuovi, inaspettati. Ma, al di là di motivazioni che si possono più o meno discutere (specie in ambito di questioni controverse come per i conflitti attualmente in corso), partecipazione e condivisione rimangono l’esatto contrario di indifferenza e superficialità: gli anni di piombo hanno coinciso con un impoverimento culturale e dei valori rafforzato dal dilagare indisturbato di emittenti commerciali ad alto contenuto consumistico e sessista. Ed è pericolosa la condanna nei confronti di persone di ogni età e ruolo le quali, pur senza appartenere a partiti o movimenti politici, esprimono sentimenti di solidarietà nei confronti di civili martoriati dalla guerra: lo si potrebbe interpretare come un invito, da parte di chi governa, a non preoccuparsi oltre i propri problemi di vivibilità e sicurezza personale.

Allora Pasolini aveva paragonato gli studenti in lotta a borghesi rivoluzionari da strapazzo, oggi, forse, descriverebbe le recenti manifestazioni a sostegno di Gaza in termini di “eco” collettivo in parte influenzato dai mass media; senza con ciò condannare il coinvolgimento emotivo esteso nei confronti di una popolazione che sta soffrendo.


Questo articolo è diffuso anche da Fana.one.



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