Divisi alla nascita

Le leggi razziali, in Italia e nel mondo, risalgono all’alba della Storia. Nel tempo cambiano soltanto i soggetti colpiti dai vari tentativi di pulizia etnica. Più o meno leciti.
La prima volta,che ho toccato con mano il razzismo, andavo al primo superiore. Me ne diede occasione padre Donzì, non so fino a quanto compianto. Insegnava religione, anzi, la “sua” religione, presso l’Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri di Furci Siculo, in provincia di Messina.
Durante una lezione, ci raccontò un episodio della sua vita alquanto singolare. Rammentò un suo viaggio a Roma, in occasione di una delle tante riunioni di prelati e la sua cena di fine congresso presso un ristorante vicino Termini. I carciofi alla romana che gli portò un ragazzo somalo, che lavorava da cameriere e che padre Donzì declinò, gentilmente.
Era quella mano scura, troppo contrastante con quel rosa accentuato del palmo della mano, a farlo desistere dalla tentazione di addentare quel tipico piatto della cucina capitolina. Ma padre Donzì ci tenne a dire che lui non era razzista, ma a quel rosa shocking non riusciva ad abituarsi. Certo, avesse avuto anche il palmo nero…
Poi, ci fu quella volta del viaggio ad Eastbourne. Una delle più belle località di mare del Regno Unito. Affacciata sulla Manica, da sempre richiamo incontrastabile per le orde di giovani studenti di mezza Europa, che vanno lì per studiare l’inglese e le scandinave a seno nudo.
Una mattina, con il mio amico Vincenzo, decidemmo di restare a casa per fare compagnia ad una ragazza triestina, convalescente da febbre estiva da stress. Andammo a trovarla nella sua stanza, una delle tante stanze occupate nei mesi estivi da giovani multietnici, in queste villette a schiera tipiche di Eastbourne. Cercammo di tirarle su il morale con la nostra “invadenza meridionale”, come la ragazza sottolineò con fastidio palese.
Aggiunse che le ragazze del nord non erano come le quelle siciliane, che danno troppa confidenza ai ragazzi e alla fine, la danno a tutti. Per un istante, io e Vincenzo ci guardammo negli occhi pensando alla stessa cosa. Vedemmo la Sandrelli sotto un foulard nero, in un vecchio film di Pietro Germi ambientato in Sicilia correre per strada e piano piano spogliarsi, fino a restare in sottoveste di raso nero e reggicalze. Sullo sfondo, il fumo del sigaro di Tinto Brass. Il pagamento anticipato dell’affitto per i successivi tre mesi, ci impedirono di anticipare la partenza per la Sicilia, nuova terra di conquiste amorose di facile realizzo.
Come dimenticare, poi, le “sagge” ed “educative” parole dell’insegnante di matematica di una scuola elementare di Monza, rivolte ad una bambina napoletana della terza che, accidentalmente, si ferì un dito mentre giocava. La maestra, originaria di Gela, vedendola in infermeria a farsi tamponare il dito sanguinante, le chiese: da chi ti saresti fatta curare, se fossi stata a Napoli? Un significativo esempio di campanilismo meridionale.
Ma forse, la più bella occasione per toccare con mano il razzismo, mi capitò qualche mese fa in coda davanti allo sportello di un ufficio pubblico. Sala affollata come nelle tradizioni. Un signore distinto ed accaldato rimase a guardare per almeno un quarto d’ora un gruppo di bengalesi, prima di esternare la sua conoscenza profonda delle tradizioni islamiche che imponevano, secondo lui, la scarsa igiene personale di questo antico popolo.
Ironia della sorte, forse involontariamente, l’impiegato allo sportello giunto l’atteso momento dell’islamista, casualmente si alzò ad aprire la finestra, pronunciando la sentenza sottovoce, cercando invano di non farsi sentire: “Lavatevi, ogni tanto!”
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