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Disobbedienza, resistenza e rivoluzione con Costanzo Preve

La rivoluzione rileva Costanza Preve è termine che indica in politica il ristabilimento della natura umana offesa nel lungo processo della storia. In Marx, di conseguenza, il comunismo conserva l’utopia del ristabilimento della natura che si coniuga con la scientificità del comunismo.

di Salvatore A. Bravo - domenica 8 giugno 2025 - 514 letture

Dalla Rivoluzione alla disobbedienza

Costanzo Preve è stato un filosofo, e non è poco nel tempo dei mercanti della filosofia, e fu maestro nella scrittura. Grafomane lo era, e nell’immensa e, a volte ancora sconosciuta produzione, vi sono testi d’autore che toccano con maestria non comune plessi teorici del nostro tempo ricostruendoli all’interno della cornice del concetto. Il nostro è il tempo del “desiderio” che ha divorato i “bisogni autentici”. Il capitalismo si nutre di desideri indotti, esso reifica mediante l’ipertrofia del soggetto narcisistico che si spazializza fino a consumarsi nell’estroflessione nichilistica. Il desiderio riduce il soggetto ad autoreferenzialità e lo rende presenza derealizzata. Si attacca il soggetto con la distopia del desiderio per uccidere la politica. Il soggetto spazializzato è eternamente indefinito in quanto ha rinunciato all’agire politico per l’adattamento al mercato con la sua ridda di desideri. Lo sfruttamento è così perenne; al lavoro e nel privato si desidera ciò che il mercato vuole fino ad appartenergli. Si è sconosciuti, di conseguenza, a se stessi e al mondo e le relazioni si mutano in un inferno incomprensibile e al capezzale del soggetto indefinito giungono i professionisti della resilienza a curare i sintomi del “male” per celare la “verità”. Il pensiero è, così, calcolo del solo piacere personale; il mondo storico si inabissa e riemerge la “barbarie seconda del nostro tempo.

Al desiderio “categoria usata anche dai critici più arditi del capitalismo che in tal modo dimostrano di essere parte integrante del capitale”, si deve contrapporre il “bisogno autentico”, esso marca la liberazione dalle sovrastrutture del dominio per affermare l’io profondo e solidale. Solo chi ascolta i bisogni autentici è in contatto con il proprio sé e in esso si apre alla relazione comunitaria, in quanto è individualità che accoglie l’universale. La razionalità argomentativa in tal modo è un contatto con l’eros vitale del soggetto che in tal modo vive con la totalità di sé la relazione comunitaria e può definirla razionalmente, perché l’ascolta, la oggettivizza e la trasforma in progetto onto-assiologico.

La rivoluzione, dunque, rileva Costanza Preve è termine che indica in politica il ristabilimento della natura umana offesa nel lungo processo della storia. In Marx, di conseguenza, il comunismo conserva l’utopia del ristabilimento della natura che si coniuga con la scientificità del comunismo:

“l termine di rivoluzione nasce in un ambito direttamente utopico. Si tratta del ristabilimento, per definizione utopico, di una situazione originaria ottimale nel frattempo perduta.   Come in tutte le utopie precapitalistiche, si ha un concetto naturalistico dei bisogni da soddisfare in modo possibilmente giusto ed egualitario, e non si ha assolutamente in mente il quadro economico della produzione capitalistica, in cui i bisogni vengono artificialmente sollecitati con la pubblicità e con la diversificazione dell’offerta. In proposito, per quanto concerne il “comunismo” di Marx è possibile pensare sia che esso sia appunto “scientifico” (il socialismo scientifico di Engels, il comunismo critico di Labriola), sia che invece esso sia di fatto “utopistico”. Questa è per esempio la mia personale opinione. Per essere più esatti, ritengo che la teoria di Marx del modo di produzione capitalistico e delle sue dinamiche strutturali sia scientifica (ed ovviamente modificabile come avviene in tutte le teorie scientifiche), mentre la sua concezione del comunismo sia di fatto intrisa di utopismo. Ma per me “utopismo” non è una parolaccia, o una parola dispregiativa. Essa connota soltanto un ideale naturalistico dei veri bisogni dell’uomo” [1].

Il comunismo posteriore al 1968 ha gradualmente perso e disfatto il comunismo utopico e scientifico che in Marx riuscivano a disporsi in sapiente rapporto non sempre armonico. Anche gli anarchici del primo novecento conservavano la progettualità forte. Il modo di produzione capitalistico doveva essere trasceso nel concetto e nella prassi. La fine dello Stato senza transizione dal capitalismo al comunismo affermava i bisogni autentici del soggetto liberato dalle tossine disgreganti del desiderio acefalo.

Il comunismo dopo il 1968 gradualmente si è congedato da Marx per assumere forme anarcoidi ben distanti dallo spessore politico e teoretico della stagione nobile dell’anarchia. La dimensione del desiderio è così divenuta centrale. M Foucault, G. Deleuze e T. Negri sono divenuti i trombettieri del desiderio e in tal modo hanno consolidato, malgrado le intenzioni con una strana eterogenesi dei fini, il capitalismo:

“Mai dimenticare che il vecchio anarchismo fu un movimento di spiriti liberi, di produttori e di lavoratori.  In terzo luogo, e qui viene il difficile, bisogna brevemente ricostruire i due fondamentali elementi, almeno in Europa, di questo nuovo anarchismo post-moderno della disobbedienza e del consumo parassitario.            

Veramente sarebbero più di due, e scrivendo due si semplifica. Ma senza semplificare un po’ è difficile fare cogliere l’essenziale. In breve, ci sono due elementi, un elemento sociale e politico, ed un elemento psicologico ed antropologico, fusi insieme. L’elemento sociale e politico viene dal cosiddetto operaismo italiano, e sarò allora costretto a ricostruirne almeno la dinamica di fondo.         

La figura di Toni Negri è in proposito importante, anche se provo un certo fastidio nel doverci tornare sempre sopra. L’elemento psicologico ed antropologico, invece, viene dalla cosiddetta scuola francese del desiderio e della differenza, scuola che in realtà comprende molti esponenti, che qui per brevità verranno ridotti a due, Gilles Deleuze e Michel Foucault. Il punto essenziale sta nel comprendere la fusione fra le due convergenti tradizioni, l’operaismo italiano e la scuola francese del desiderio e della differenza. Storicamente, questa fusione comincia ad effettuarsi a metà degli anni Settanta del Novecento. È già passato più di un quarto di secolo, ma questo non deve stupire. Ci vuole almeno un quarto di secolo nella storia perché una corrente possa costituirsi, consolidarsi, dotarsi di un linguaggio di riconoscimento, e per usare un termine di Antonio Gramsci aspirare alla “egemonia” [2].

Rivoluzione e bisogni autentici

Rivoluzione e bisogni autentici sono un unico plesso teorico, poiché il comunismo è il soggetto che si definisce e si delimita all’interno di bisogni che gli consentono di vivere la pienezza ontologica e assiologica del proprio io relazionale. Nella relazione comunitaria i bisogni autentici prendono forma e diventano consapevoli. Rivoluzione e desiderio non sono coniugabili. Il desiderio è dimensione fondata sull’illimitato e sull’io narcisistico ed esso predispone all’obbedienza al capitalismo che si manifesta con le metamorfosi del desiderio nel soggetto abitato dalla grammatica emotiva e linguistica del capitale. Il capitalismo non solo domina ma possiede. La politica è così sostituita dal mercato e dal pan-economicismo che liquida la rivoluzione e al suo posto lascia la trasgressione infinita a cui il capitalismo risponde con l’efficienza del mercato. La rivoluzione è così declassata a consumo di merci e di desideri. Il desiderio è rivoluzione dei consumi e dunque conferma e consolida il sistema capitalistico:

“Il motivo per cui generalmente i marxisti dicono che è impossibile realizzare una rivoluzione comunista dentro il modo di produzione capitalistico sta appunto nel fatto che essi ritengono che il capitalismo sviluppa falsi bisogni. Se invece partiamo dal “desiderio”, come lo interpretano Deleuze e Negri, effettivamente non c’è più nessun bisogno di una rivoluzione, perché il soddisfacimento dei flussi desideranti delle moltitudini può tranquillamente essere esaudito dentro il quadro della produzione capitalistica stessa. Si ha così una tipica rivoluzione senza rivoluzione, ed è esattamente per questo che Negri piace ai due poli opposti delle oligarchie capitalistiche al potere e dei centri sociali autoghettizzati di consumo detto “alternativo” [3].

In Toni Negri la dimensione del desiderio non solo trova la sua attuazione con il progetto delle “moltitudini che sciamano irriverenti nella dimensione del desiderio”, ma l’irrilevanza diventa fondamentale nella corsa verso il dionisiaco stordimento, al punto che esseri umani, animali non umani e organismi cibernetici sono equiparati. Tutti indistintamente desiderano e possono diventare oggetto di desiderio. Il soggetto si dissipa nell’indifferenziato e gradualmente la rivoluzione si oblia nell’obbedienza al modo di produzione capitalistico:

“Mentre Deleuze è scusabile, il Negri che parla di fine della differenza fra esseri umani, animali ed organismi cibernetici (cfr. Impero, Rizzoli, Milano 2002, p. 98) invece no. Si tratta di coglionaggine purissima, che però è anche particolarmente affine alla visione del mondo di una nuova classe media globale che vive nella virtualità, e che ha sostituito l’esperienza materiale, corporea e mentale con una rete di simulazioni. Effettivamente, fare l’amore con una donna, con una cavalla e con un robot non è eguale, se ci si mette da un punto di vista psicologico e corporeo. Ma in sede di simulazione, perché no? Everything goes, tutto va bene” [4].

L’io minimo

L’io minimo descritto da Cristopher Lasch ha dunque i suoi aedi filosofici. L’io minimo è destrutturato e fragile, poiché è preso dalla condizione perenne immaturità. Vorrebbe definirsi e dunque trascorre la sua vita a cercare una forma che risulta sempre temporanea e solitaria e dunque la soggettività si desoggettivizza nell’irrazionalità, mentre si consuma nel cattivo infinito del desiderio. L’io è minimo, in quanto la precarietà e l’oblio del progetto lo radicano nel presente e in tal modo si rifugge dal futuro, in quanto esso è luogo e tempo di incognite ingovernabili. Per C. Lasch l’io minimo è strategia di difesa dal vuoto progettuale e metafisico, ma la causa della difesa è il capitalismo che con la sua corsa verso il niente rende l’io precario e indefinito. L’io adulto e progettante trova la sua compensazione nel narcisismo della seduzione e del desiderio che tutto banalizza nella girandola caotica del desiderare senza concetto. Il capitalismo fiorisce con le sue ammorbanti tossine sulla morte del soggetto autentico, esso fonda un mondo di spettri informi:

“Beh, per esempio io l’ho capito da tempo. Ma siccome non faccio parte dell’alta cultura internazionale, rimando il lettore sveglio al saggista americano Christopher Lasch (cfr. L’io minimo, Feltrinelli, Milano 1985). Lasch mostra di capire tutti i termini teorici essenziali del problema. Precedentemente aveva scritto un libro sul narcisismo ed il tipo umano narcisista, che descrive perfettamente con due decenni di anticipo Nanni Moretti e soprattutto l’adorazione prestatagli dai girotondari rincoglioniti. Il nesso fra narcisismo e fase attuale del capitalismo è descritto con stupefacente realismo, anche se Lasch non si dichiara affatto marxista, ed anzi il mondo radical americano politicamente corretto lo isolò sempre fino alla morte, per il semplice fatto che lo descriveva in modo michelangiolesco. Ma torniamo all’io minimo. Lasch chiarisce come l’io minimo sia una strategia di difesa dell’individuo di fronte alla banalizzazione del passato e della memoria storica e soprattutto di fronte all’incertezza del futuro. Ma la banalizzazione del passato e l’incertezza del futuro sono proprio due caratteristiche culturali del capitalismo contemporaneo. La sovranità assoluta del consumo banalizza la morte, che diventa solo l’interruzione di ogni possibile consumo, dopo l’ultimo consumo che sono i funerali. Banalizza il passato, che anzi potrebbe scoraggiare la continua obsolescenza dei prodotti da cambiare continuamente. Banalizza il futuro, perché il futuro è solo un contenitore storico vuoto di possibili consumi futuri. Ha capito Deleuze che l’indebolimento dell’io è una strategia ultracapitalistica, e non un passo verso la libertà? Non credo. Se lo avesse capito, data la statura del personaggio, avrebbe preso delle misure filosofiche. Ci possiamo chiedere se Toni Negri lo capisca. Sicuramente no. Il personaggio è troppo arrogante ed anguillesco per accettare il principio base di ogni etica filosofica. Ammettere di aver sbagliato” [5].

Il modo di produzione capitalistico coltiva il desiderio e le sue trasgressioni sempre più accentuate e disinibite, in quanto in tal maniera il soggetto politico si decompone e il capitalismo si eternizza. In Marx la rivoluzione necessitava di un elemento oggettivo (la dialettica della storia) e di un elemento soggettivo (soggetto rivoluzionario). La morte dell’io e il trionfo dell’io minimo rendono la rivoluzione una chimera senza prospettiva nell’attualità storica:

“La teoria della rivoluzione di Marx, in estrema sintesi, comporta due aspetti interconnessi, l’uno oggettivo e l’uno soggettivo. L’aspetto oggettivo è la crisi complessiva del modo di produzione, attraverso la contraddizione dialettica fra sviluppo delle forze produttive e natura dei rapporti sociali di produzione. l’aspetto soggettivo è la formazione del soggetto rivoluzionario, che dopo il 1858 non è assolutamente la classe operaia e proletaria, ma è il lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, alleato con le potenze mentali della produzione capitalistica, da Marx connotate con la paroletta inglese di general intellect” [6].

Col disfarsi dell’io il conflitto tra borghesia e proletariato si muta in semplice contesa economica. Non è in discussione l’alienazione e il modo di produzione capitalistico, ma la difesa del potere d’acquisto dei salari con cui poter accedere al superfluo. Bauman è stato autore di grande rilievo nello svelare che la classe operaia non è rivoluzionaria, ma si è accucciata all’ombra del capitale:

“In breve, Bauman sostiene tre tesi, e riesce anche ad argomentarle. Primo, la classe operaia non ha costituito storicamente la propria identità differenziale guardando ad un futuro progressista (l’ideologia del progresso è borghese, e solo borghese), ma guardando indietro alla propria precedente identità comunitaria prevalentemente contadina ed artigiana. Secondo, questa identità comunitaria, che era comunque alternativa alla borghesia, è stata gradatamente abbandonata (in Inghilterra già negli anni Venti e Trenta dell’Ottocento) per quella che Baumann correttamente chiama “l’economicizzazione del conflitto”, cioè per la lotta per una più equa spartizione delle merci prodotte capitalisticamente. Terzo, questa economicizzazione del conflitto può portare facilmente a forme di neocorporativismo salariale, di per sé non negative, ma certamente prive di qualunque possibilità di universalizzazione alternativa, cioè anticapitalistica e postcapitalistica. A mio avviso qui Bauman coglie il centro della questione. Ma i marxisti pensano che Marx ed Engels abbiano già detto tutto, e sia sufficiente chiosarli all’infinito. Ma chi non capisce niente di quanto sta avvenendo è già predisposto a passare dalla Rivoluzione alla Disobbedienza. La disobbedienza infatti è facile. Basta disobbedire. Ma qui il discorso appunto non solo non finisce, ma comincia soltanto. Prestiamo attenzione” [7].

“Capire è più importante che appartenere”, affermava Costanzo Preve, pertanto è necessario capire come si giunti all’anarchia del desiderio. Il nuovo anarchismo si è formato dalla fusione della tradizione dell’operaismo con la filosofia della differenza francese (G. Deleuze F. Guattari):

“Il nuovo anarchismo post-moderno non c’entra niente con gente in gamba come Bookchin. Esso si è formato, secondo l’interpretazione che esporrò a partire da questo paragrafo, attraverso la fusione di due tradizioni diverse, quella politica dell’operaismo italiano e quella antropologica dell’ideologia francese della differenza. Esporrò brevemente queste due tradizioni, ma prima mi porrò una domanda preliminare: come è successo che a partire dagli anni Sessanta sia sorto in Italia l’operaismo e nello stesso periodo sia sorta in Francia quella scuola filosofica? Discutiamo entrambe le ipotesi” [8].

Mario Tronti fondò l’operaismo e ribaltando Marx descrisse una inesistente classe operaia che assediava il capitale e i padroni nelle fabbriche, al punto da indurre gli industriali a investire nel capitale costante per superare il lavoro e rompere la dipendenza dalla classe operaia; l’assedio della classe operaia all’interno della fabbrica avrebbe dovuto condurre alla fine del capitalismo e all’estinzione del lavoro grazie allo sviluppo tecnologico:

“Mario Tronti, romano, iscritto al vecchio PCI, è stato dunque secondo Merli il vero fondatore dell’operaismo italiano. Sono d’accordo. Il modello operaistico è semplicissimo, perché si basa su di un solo fondamento teorico elementare: il rapporto di produzione capitalistico è fondato dall’attività contestativa della classe operaia, che ne determina i successivi mutamenti tecnologici con la propria attività, cui il capitale risponde con ondate di innovazione. Come si vede, la concorrenza inter-capitalistica è di fatto respinta nello sfondo. Da una parte il Capitale, dall’altra gli Operai. Ma sono gli operai a porre il capitale, non viceversa” [9].

Il desiderio è stato legittimato da Foucault e Guattari, in realtà i francesi lottavano contro il comunismo autoritario e stalinista e contro di esso auspicavano la liberazione di ogni desiderio dalla claustrofobia del complesso di Edipo e del puritanesimo del PCI.

Toni Negri portato a termine tramite processo con una proposta impossibile (le moltitudini che sciamano per godere), e di conseguenza ha reso la rivoluzione una farsa, in quanto il suo progetto neutralizzato il soggetto politico con il godimento illimitato organico al capitalismo assoluto:

“ Foucault, Deleuze, Guattari, eccetera, si sono limitati ad auspicare una politica del desiderio, e solo Negri ha fatto il vero salto dall’auspicio alla proposta vera e propria. Ma una proposta impossibile dà luogo ad una pratica inesistente. Quella di Negri non è allora una politica, ma una vera e propria anti-politica. L’anti-politica, per sua stessa natura, lascia un vuoto, ed in questo vuoto possono entrare tutte le politiche opportunistiche del cosiddetto movimento No Global. Questo è il segreto del favore con cui i vertici No Global considerano questa filosofia. Essa non è una loro rivale, poiché si pone su di un altro terreno, puramente virtuale e fantasmatico. La lunghezza d’onda del desiderio non incontra mai la politica, e per questo può essere lodata e raccomandata. Come nella cosiddetta dottrina sociale della Chiesa, l’annuncio di salvezza di Gesù di Nazareth non è traducibile in termini politici, ed appunto per questo non dà nessun fastidio agli apparati ecclesiastici e sacerdotali, che non se ne sentono in alcun modo minacciati. Se infatti si sfoglia l’ultimo libro di Hardt-Negri, Impero, questa dimensione religiosa è ossessivamente presente, appunto perché nasconde la sua totale inapplicabilità politica: la teleologia della moltitudine è teurgica (p. 366); il comunismo è amore e innocenza (p. 382); il povero è la condizione di qualsiasi possibilità dell’umanità (p. 152); S. Francesco di Assisi è il nuovo modello di annuncio rivoluzionario (pp. 382-383)” [10].

Sperare ancora

Costanzo Preve conclude con sano realismo, ovvero la congiuntura storica è pessima, ciò malgrado gli esseri umani non passano. La loro natura è stabile, per cui le generazioni si avvicendano, ma il futuro non potrà che riportare il tema dei bisogni identici al centro della lotta politica, perché il soggetto si disfa e muore sotto la forza tirannica del desiderio e pertanto il pensiero e la politica non potranno che riemergere, in quanto il logos lo si può annegare con il desiderio, ma esso riemergerà. A ciascuno il compito di favorire la congiuntura storica favorevole. La politica è senso del limite, è prassi in funzione dei bisogni ed essa non potrà che riaffacciarsi, perché l’essere umano è “animale politico”:

 “E con questo concludiamo. Telegraficamente, una diagnosi, una prognosi ed una terapia. La diagnosi è pessima. Non è infausta, cioè mortale, solamente perché sono gli uomini e le generazioni che muoiono, mentre gli esseri umani non muoiono mai, sempre che non ci sia un grande meteorite annientatore di dinosauri e di confusionari. Per quanto riguarda questi uomini di questa generazione, se non cambiano gli scenari storici in modo imprevedibile, mi aspetto l’egemonia provvisoria di Agnoletto, Naomi Klein e Toni Negri. Hanno dietro anche il sistema mediatico ed il sistema politico.

Una prognosi. La loro egemonia è forte nell’immediato, ma è debole anche solo nel medio periodo, per una ragione semplicissima. Essi si basano sul fatto che non c’è più l’imperialismo, e che in questo quadro post-imperialista possono promuovere la Tobin Tax, l’accesso all’acqua, il basso prezzo delle medicine. Sia chiaro che io non disprezzo affatto questo programma riformistico, ed anzi lo sostengo. Ma c’è l’imperialismo, e questo dato ineludibile gli porterà via lo sgabello da sotto il loro mediatico sedere” [11].

La terapia d’urto Costanzo Preve la consiglia ai coraggiosi che vogliano abbandonare il “politicamente corretto per inoltrarsi sul sentiero del futuro”:

“Una terapia. La terapia è razionalità, razionalità ed ancora razionalità. In proposito, le dosi di marxismo, anche rinnovato radicalmente, non bastano. Ci vuole un nuovo orientamento culturale. Marx non basta assolutamente. Ci vogliono Platone e Kant, Aristotele ed Hegel. Ma per il momento, non ne vedo neppure l’ombra. Chi vivrà vedrà” [12].

Chiunque diverga dal sentiero che conduce all’obbedienza mascherata da disobbedienza è già rivoluzionario. La scelta dei bisogni autentici testimonia e veicola nel presente con la disobbedienza razionale e reale la possibilità della rivoluzione iscritta nelle possibilità oggettive della storia e del soggetto umano in quanto individualità politica. Non resilienza ma resistenza questo è il messaggio forte e progettante di Costanzo Preve.

Il resistente è creativo e critico in quanto è in armonia creante con il proprio io, egli si sottrae al mercato e dunque progetta l’alternativa con la prassi. Teoria e prassi sono il binomio senza il quale nessuna rivoluzione è possibile, pertanto non ascolteremo le voci dei falsi dissenzienti che incitano ancora al desiderio e all’agire per l’agire. Resistenza è definizione dei bisogni universali e pratica politica per la trasformazione del modo di produzione capitalistica in modo olistico. Marx, Platone Kant, Aristotele ed Hegel sono filosofi con cui confrontarsi per decodificare il presente al fine di superarli conservandone la spinta motivazionale alla rivoluzione critica e libertaria insita in ogni filosofo che non risponde al mercato ma al logos e dunque è per fondazione epistemica e onto-assiologica disobbediente e rivoluzionario. Con loro si spera e per questo il mercato del desiderio li avversa e li riduce ad ombre depotenziate.

Sta a noi riprendere il cammino con loro e Costanzo Preve senza “obbedienza” e sottrarci all’epithumia, alla concupiscenza, che come Platone ci ha insegnato nel mito della “biga alata” fa precipitare il soggetto in una cieca immanenza segnata dalla disperazione. Ancora una volta la cultura dei bisogni ci rimanda alla cultura classica a cui il comunismo marxiano e la filosofia veritativa attingono per dialettizzare il modo di produzione capitalistico. I percorsi per uscire dal “cuore di tenebra” del capitalismo necessitano di complessità teoretica e non certo del semplicismo dell’azione.

[1] Costanzo Preve, Dalla Rivoluzione alla disobbedienza, in: Comunismo e comunità 30 marzo 2020, paragrafo V

[2] Ibidem, paragrafo IV

[3] Ibidem, paragrafo V

[4] Ibidem, paragrafo XV

[5] Ibidem, paragrafo XVI

[6] Ibidem, paragrafo VIII

[7] Ibidem, paragrafo XIII

[8] Ibidem, paragrafo XX

[9] Ibidem, paragrafo XXV

[10] Ibidem, paragrafo XXXVII

[11] Ibidem, paragrafo XLV

[12] Ibidem, paragrafo XLV


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