Dialogo interplanetare : da Micromega / di Voltaire
«O atomi intelligenti, nei quali l’Eterno ha voluto rivelare la Sua abilità e la Sua potenza, voi godrete certamente gioie purissime sul vostro globo, perché avendo così poca materia e sembrando tutto pensiero, dovete passare la vita ad amare e a pensare: è la vera vita dello spirito. Da nessuna parte ho trovato la vera felicità: senza dubbio essa è quaggiù.»
A questo discorso tutti gli scienziati si misero a scuoter la testa, e uno di essi, più sincero degli altri, confessò in buona fede che eccettuati pochi abitanti ben poco rispettati, tutto il resto è una congrega di pazzi, di malvagi e di sventurati.
«Noi abbiamo più materia che non occorra,» disse, «per far molto male, se il male proviene dalla materia, e troppo spirito se il male viene dallo spirito. Non sapete, per esempio, che nel momento in cui vi parlo, vi sono centomila pazzi della nostra specie, con in testa un cappello, che ammazzano centomila altri animali che hanno in testa un turbante, o vengono massacrati da questi, e che su quasi tutta la terra, usa così da tempo immemorabile?» Il Siriano fremette e domandò quale fosse la ragione di queste liti orribili fra animali così miserabili. «Si tratta,» disse lo scienziato, «di qualche mucchio di fango grande come il vostro calcagno. Non che qualcuno di quei milioni d’uomini che si fanno sgozzare voglia aver diritto a un solo filo della paglia che cresce su uno di quei mucchi. Si tratta soltanto di sapere se ne sarà proprietario un certo uomo che si chiama Sultano o un altro che si chiama, non so perché, Cesare. Nessuno dei due ha mai visto, né vedrà mai, quel cantuccio di terra di cui si tratta, e quasi nessuno di quegli animali che si sgozzano l’un l’altro ha mai visto l’animale per il quale si fa sgozzare.»
«Disgraziati!» gridò il Siriano, «chi potrebbe immaginare una rabbia così insensata! Mi vien voglia di fare tre passi e di schiacciare con tre pestate tutto quel formicaio di assassini ridicoli.»
«Fatica inutile,» gli risposero; «faticano abbastanza loro per rovinarsi. Pensate che dopo dieci anni non resta mai nemmeno uno su cento di quei miserabili; pensate che, anche se non estraessero la spada, la fame, la fatica o l’intemperanza li portan via quasi tutti. E poi, non sono loro che devon esser puniti: sono quei barbari sedentari che dal fondo del loro studio ordinano, mentre stanno digerendo, il massacro d’un milione di uomini, e poi ne fanno ringraziare Iddio solennemente.»
Il viaggiatore si sentiva commosso di pietà per la piccola razza degli uomini, nella quale scopriva contrasti tanto stupefacenti. «Poiché siete nel piccolo numero dei saggi,» disse a quei signori, «e a quanto sembra non ammazzate nessuno per denaro, ditemi, vi prego, di che cosa vi occupate.» «Sezioniamo mosche,» disse lo scienziato, «misuriamo meridiani, accumuliamo cifre; e siamo d’accordo su due o tre argomenti che comprendiamo, ma discutiamo su due o tremila che non comprendiamo per nulla.»
Al Siriano e al Saturniano venne subito voglia di domandare a quegli atomi pensanti quali fossero le cose su cui erano d’accordo. «Che distanza calcolate che vi sia,» disse il secondo, «dalla stella della Canicola alla grande stella dei Gemelli?»
Risposero ad una voce: «Trentadue gradi e mezzo.» «Quanto calcolate che ci sia di qui alla luna?» «Sessanta semidiametri della Terra in cifra tonda.» «Quanto pesa la vostra atmosfera?» Credeva di metterli in imbarazzo, ma gli risposero tutti quanti che l’aria pesa circa novecento volte meno d’un ugual volume dell’acqua più leggera e diciannovemila volte meno dell’oro a diciotto carati. Il nano di Saturno, stupito dalle loro risposte, stava per credere che fossero stregoni quegli stessi esseri ai quali, un quarto d’ora prima, negava un’anima. Finalmente Micromega disse loro:
«Dato che conoscete così bene quello che è fuori di voi, conoscete certo ancor meglio quello che avete dentro. Ditemi dunque cos’è la vostra anima e come fate a formare le idee.» Gli scienziati si misero a parlare tutti in una volta come prima, ma tutti avevano opinioni diverse. Il più vecchio citava Aristotile; un altro faceva il nome di Cartesio; questi, di Malebranche; quell’altro, di Leibniz; un altro ancora, di Locke. Un vecchio peripatetico disse ad alta voce, con sicurezza: «L’anima è una entelechia, è una ragione per la quale essa ha la potenza di essere quello che è. Questo lo dice espressamente Aristotile, a pagina 633 dell’edizione del Louvre: $FÇ øõ÷Þ cóôéí cíôåëc÷åéá$... «Non capisco molto bene il greco,» disse il gigante. «Neanch’io,» disse il vermiciattolo filosofo. «Ma allora,» proseguì il Siriano, «perché citate questo Aristotile in greco?»
«Perché,» replicò il sapiente, «è davvero necessario citare quello che non si capisce affatto nella lingua che si capisce meno di tutte le altre.» Il cartesiano prese la parola, dicendo: «L’anima è un puro spirito che ha ricevuto nel seno della madre tutte le idee metafisiche, e che uscendone deve andare a scuola per imparare da capo a fondo quello che sapeva così bene e che non sa più.»
«Allora, non metteva proprio conto,» rispose l’animale di otto leghe, «che la tua anima fosse così sapiente nel seno di tua madre per essere poi così ignorante quando avresti avuto la barba. Ma che cosa intendi per spirito?» «Ma che cosa mi domandate?» disse quel ragionatore. «Non ne ho la minima idea: dicono che non sia altro che materia.» «Ma sai almeno che cosa sia la materia?» «Lo so benissimo,» rispose l’uomo. «Per esempio, questa pietra è grigia e ha una certa forma, ha tre dimensioni, è pesante e divisibile.»
«Benissimo!» disse il Siriano. «Questa cosa che ti sembra divisibile, pesante e grigia, sai poi dirmi precisamente che cosa sia? Tu ne vedi alcune qualità: ma il sostrato della cosa, lo conosci?»
«No,» disse l’altro. «Allora, tu non sai che cosa sia la materia.» Poi, il signor Micromega, rivolgendosi ad un altro sapiente che teneva sul pollice, gli domandò che cosa fosse la sua anima e che cosa faceva. «Non fa nulla affatto,» rispose il filosofo seguace di Malebranche. «È Dio che fa tutto per me, io vedo tutto in Lui, io faccio tutto in Lui, è Lui che fa tutto senza che io me ne occupi.»
«Allora, non mette conto di esistere,» continuò il saggio di Sirio. «E tu, amico mio,» disse a un leibniziano che si trovava là, «che cosa è la tua anima?» «È una lancetta,» rispose il leibniziano, «che segna l’ora mentre il mio corpo batte le ore; o se lo preferite, è essa che batte le ore mentre il mio corpo segna l’ora; ovvero la mia anima è lo specchio dell’universo e il mio corpo è la cornice dello specchio: è chiarissimo!»
Un piccolo seguace di Locke era là vicino, e quando finalmente gli rivolsero la parola: «Non so,» cominciò a dire, «come faccio a pensare, ma so che non ho mai pensato se non quando i miei sensi mettevano in azione il pensiero. Che esistano sostanze immateriali e intelligenti, non ne dubito affatto: ma dubito molto che sia impossibile a Dio dotare di pensiero la materia. Venero la potenza dell’Eterno: non sta a me limitarla. Non affermo nulla: mi accontento di credere che sono possibili più cose di quante non si pensi.»
L’animale di Sirio sorrise: gli pareva che costui non fosse il meno sapiente, e il nano di Saturno, se non fosse stata l’immensa sproporzione, avrebbe abbracciato il seguace di Locke. Ma c’era là, per disgrazia, un piccolo animaletto col berretto quadrato che interruppe tutti gli animaletti filosofi, dicendo che conosceva tutto il mistero, che la spiegazione si trovava nella Somma di San Tommaso; e poi guardò dall’alto in basso i due abitanti del cielo e rivolgendosi ad essi, sosteneva che le loro persone, i loro mondi, i loro soli, le loro stelle, tutto era fatto soltanto a pro dell’uomo. Sentendo questo discorso, i due viaggiatori si lasciarono cadere uno addosso all’altro, soffocando di quel riso inestinguibile che secondo Omero è dote degli Dei. Le loro spalle e il loro ventre ballavano di qua e di là, e nel convulso, la nave che il Siriano aveva sull’unghia cadde in una tasca delle braghe del Saturniano. Quelle due brave persone si diedero d’attorno per ritrovarla, e finalmente ripescarono l’equipaggio e lo rimisero a posto ben in ordine. Il Siriano riprese in mano i piccoli vermiciattoli, e parlò ad essi ancora con molta gentilezza, benché, in fondo al cuore, fosse un po’ irritato nel vedere che gli infinitamente piccoli avevano un orgoglio infinitamente grande. Promise di scriver per loro un bel libro di filosofia, scritto in caratteri molto minuti perché potessero leggerlo, e che nel libro avrebbero trovato la spiegazione di tutto. E davvero, prima di partire, diede a loro questo volume, che venne portato a Parigi all’Accademia delle Scienze; ma quando il segretario l’aprì, trovò le pagine tutte bianche: «Me l’immaginavo!» disse.
(Voltaire, Micromega)
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