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Delmore Schwartz, il poeta dell’Atlantico

America! America! / di Delmore Schwartz; a cura di Angelo Guida; traduzione di Angelo Guida; introduzione di Alessandra Calanchi. - Senigallia: Ventura Edizioni, 2022 - 262 p. - ISBN 979-12-80-51754-8

di Angelo Guida - mercoledì 30 ottobre 2024 - 1255 letture

Il componimento da cui è tratto il titolo della prima antologia italiana, da me curata (con un’ottima introduzione di Alessandra Calanchi), delle poesie di Delmore Schwartz – anche se scritto poco più di un decennio prima (1954) della sua morte – è quasi un manifesto della poetica dell’autore.

La critica ha rilevato la discendenza di America! America! da Walt Whitman, di cui ricalca lo stile. Anzi, si può dire che Delmore abbia qui dato vita a un vero e proprio d’après: c’è lo stesso tono assertivo dell’artefice di Leaves of Grass; i versi, liberi, sono lunghi, prosastici; ci sono anafore (“I am”) ed epifore (“in the city”), assonanze, consonanze, allitterazioni e iterazioni varie. Ma, al di là dello stile, la poesia in questione richiama il precursore di Schwartz anche nei contenuti, ribaltandoli.

In un verso di Song of Myself, uno dei poemetti e/o sezioni di cui si compone Leaves of Grass, Whitman definisce se stesso: “Walt Whitman, a kosmos, of Manhattan the son” (il corsivo è mio). Ovviamente, qui Manhattan è una sineddoche dell’America. Perciò lui è “il” figlio dell’America e probabilmente qualcosa di più. Infatti, fra le righe, Whitman sembra voler suggerire al lettore che è “il” cantore per eccellenza della sua terra. E, d’altronde, chi più di lui può vantare il titolo di bardo americano?

In America! America! Delmore Schwartz devia, rispetto alla traiettoria tracciata dal suo precursore, asserendo di essere “un poeta del fiume Hudson” (anche questa una sineddoche), ovvero semplicemente “uno” dei tanti poeti americani. Ma, subito dopo, si definisce “l’autoproclamato poeta laureato dell’Atlantico” e adopera l’articolo determinativo perché vuole imporsi come il poeta per eccellenza dell’ambito culturale simboleggiato dall’oceano che separa il continente europeo da quello americano.

Ed è questa la differenza sostanziale fra i due: Whitman si sente americano perché è nato da genitori americani (“Born here of parents born here from parents the same, and their parents the same”, sempre da Song of Myself), Schwartz è americano in quanto discendente di immigrati. E cos’altro è l’America se non una terra di esuli, profughi e immigrati?

Lo sguardo di Delmore non è dunque rivolto unicamente alla sua nazione e al suo popolo, si volge di continuo verso l’Europa. In primo luogo verso le sue radici ashkenazite: Delmore Schwartz è un ebreo di origine rumena, fa parte dei cosiddetti immigrati di seconda o terza generazione, e ce lo ricorda non solo nei racconti ma anche nelle poesie, come per esempio La Ballata dei Figli dello Zar, e nello sfortunato e incompiuto poema Genesis. Pur consapevole delle sue origini ebraiche, Delmore, a differenza dei fratelli Singer e di Jonathan Safran Foer (Ogni cosa è illuminata), non menziona mai lo shtetl. È un ebreo “moderno” come Philip Roth e il proprio allievo Saul Bellow. Non è però indifferente alla religione, componente identitaria essenziale del popolo ebraico (la seconda moglie, Elisabeth Pollet, nell’introduzione al volume Portrait of Delmore, in cui ricostruisce il diario del marito, asserisce: “He always said he believed in God”). La prima volta si sposa in una sinagoga. Dedica una serie di poesie a patriarchi e personaggi biblici (Abramo, Sara, Giacobbe) e perfino evangelici (Gesù e gli apostoli in Starlight Like Intuition Pierced the Twelve: cosa inconsueta per un ebreo, ma non troppo se si pensa che quando era studente alla New York University aveva meditato di convertirsi al cattolicesimo). Una sua poesia, At a Solemn Musick, è stata inclusa da Harold Bloom nell’antologia American Religious Poems. Difende con orgoglio il suo essere “ebreo”: litiga con Ezra Pound quando scopre che è antisemita e dà le “dimissioni” da suo ammiratore; nel racconto Una farsa amara, al suo alter ego Shenandoah Fish – che insegna agli studenti della Marina militare americana (anche Delmore aveva insegnato in una scuola simile per evitare il servizio di leva) – fa dire, in risposta a uno di loro che ha manifestato pregiudizi antisemiti: “I miei antenati [...] erano eruditi, poeti, profeti e studiosi di Dio quando la maggior parte dell’Europa adorava pietre e bastoni” (trad. di Attilio Veraldi). E poco prima, sempre nello stesso racconto, il protagonista (alias Delmore Schwartz) ha tirato fuori il suo orgoglio di “discendente di immigrati”: “Per quel giorno era stato assegnato un saggio di Louis Adamic sugli immigrati in America, appropriatamente intitolato Plymouth Rock e Ellis Island, e il cui succo, [...], era che il potere e la gloria dell’America erano stati resi possibili dal lavoro degli immigrati, dall’accettazione delle differenze fra gli esseri umani e dalla diversità di molti ceppi razziali. Se il mondo riponeva le sue speranze nell’America, diceva Adamic, era proprio in ragione di questa diversità di popoli; il che rendeva possibile una cultura universale, una cultura pan-umana, come non era mai esistita sulla terra. Ecco cos’erano il Sogno americano e la Tradizione americana” (trad. cit.).

Ma ad attrarre Delmore verso l’Europa non sono solo le radici familiari ed ebraiche: sono soprattutto i suoi idoli letterari, i “poeti precursori” (come li chiama Harold Bloom), i poeti che lo hanno influenzato: Shakespeare, Yeats, Swift, Sterne, Joyce (anche gli ultimi tre a loro modo, e comunque in senso lato, sono dei poeti!). Non a caso, l’ultimo capitolo dell’antologia pubblicata da Ventura Edizioni si intitola La cosa più bella del Nord America. Leggendo l’incipit dell’omonima poesia, si constata che “È l’Europa la cosa più bella del Nordamerica”. E non l’Europa dell’hic et nunc, bensì l’Europa intesa come “estasi” spazio-temporale poiché la “torsione” dell’autore verso il nostro continente è duplice: in senso storico-genealogico e in senso storico-letterario. Difatti tutti i suoi maestri appartengono al passato (Elisabeth Pollett, nella citata introduzione, dice di lui: “was obsessed with his past, both in a personal and in a more universal sense”), prossimo o remoto che sia. E in testa a tutti mette Shakespeare: la poesia a lui dedicata è la prima nella sezione di Summer Knowledge intitolata The Kingdom of Poetry. In questo Schwartz si pone, a sua volta, anche in veste di critico letterario, come un “precursore” di Harold Bloom il quale fa del bardo inglese uno dei cardini del suo Canone occidentale. In aggiunta, Delmore, nei suoi versi, sembra considerare Shakespeare alla stregua di un semidio (“Lui sapeva già tutto di noi prima che nascessimo”), lo definisce “re e sovrano / Della realtà, del lògos e della speranza”. E qui, nella mia traduzione, con l’adozione del termine “lògos”, quale corrispettivo di “speech”, ho intenzionalmente calcato la mano per accentuare l’ipotizzata prossimità di Shakespeare a Dio. Ma tant’è che la venerazione del nostro autore per il bardo inglese e per gli altri suoi “eroi” letterari fa di lui una “vittima” della bloomiana “angoscia dell’influenza” di cui, nel corso della sua carriera, non si è mai liberato. Ed è forse questa la ragione principale che gli ha impedito di diventare il poeta “canonico” che avrebbe voluto essere.


America! America!

Sono un poeta del fiume Hudson e delle alture sovrastanti,
........delle luci, delle stelle e dei ponti
Sono anche l’auto-proclamato poeta laureato dell’Atlantico
..........— dei cuori delle genti che lo attraversano
...................... per andare verso la nuova America.

Sono gravato dal peso dei traffici e dei miraggi, dalla speranza,
........... acquisita con il sudore della fronte nelle nauseanti ed emozionanti traversate
...................... in terza classe, straniero ed estraniato
Da qui devo discernere e descrivere il regno delle emozioni.

Perché sono un poeta dell’asilo (urbano)
............. e del cimitero (metropolitano),
Dell’estasi e del ragtime e anche della città nascosta nel cuore e
........ nella mente
Questo è il canto del consueto ego urbano del XX secolo.

È vero ma solo in parte vero che la città è una “tirannia dei numeri”
(Questo è il canto dell’ego metafisico urbano e metropolitano
Successivo alle prime due Guerre Mondiali del XX secolo)

— Questo è l’ego metropolitano, che da una finestra scruta un’altra finestra illuminata
Nel momento in cui i riquadri e i rettangoli delle flebili luci gialle
Risplendono nella notte, sulle lapidi e sugli enormi tabelloni pubblicitari appena rischiarati,
Celando agli sguardi i propri inquilini. È la coscienza metropolitana
Che guarda e dice: di più: ancora di più: sempre di più.

(1954)


Sterne

A Gloria Macdonald

Sono prigioniero giorno e notte
Del mio caro Lord Fauconberg. Con cui ho cenato
Al Boar’s Head. C’era tutta l’allegra
Compagnia. Ho appena divorato un pollo, ma piango,
Sono seduto e piango, le lacrime cadono nel piatto,
Un amaro intingolo.

Ho doppiato il Capo di Buona Speranza.
Ho guardato in faccia Yorick.

Vorrei essere in Valdarno,
Sebbene qui a Coxwold il soggiorno sia principesco
—È il paese della cuccagna, e ceno
A base di trote, carne di cervo e selvaggina.

Eppure mentre mangio le fragole, la tua assenza
Mi rende triste come un gatto. Ho un gatto ora.
È seduto accanto a me, silenzioso e solenne fa le fusa
Ai miei dispiaceri, mi fissa con gravità
Come se conoscesse la causa della mia sofferenza!

—Sapessi quant’è di conforto al mio povero cuore, cara Elisa!
Quando va pietosamente a fondo la povera bestia
Lo incoraggia facendogli dolcemente le fusa!
Quando il povero gatto fa le fusa in pianissimo
Io, io, povero Yorick mi abbandono a lui, un sedativo
Gradevole e tenebroso come il papavero, impertinente e incauto come il chicchirichì di un gallo!

. . . L’amore, ahimè, è fuggito con te,
Te che tutta la notte i miei occhi insonni
(Mentre di giorno brancolo come un cieco!)
Sognano, invocano, idolatrano
In piedi davanti a vaghi cancelli o aspettando
(Tale è la mia speranza, tale è la mia vanità!)
Pateticamente e pazientemente nel grande parco verde!

(1959)


*Il presente articolo è stato pubblicato in forma leggermente diversa, con il titolo Il poeta dell’Atlantico, su Poesia n. 23 Gennaio/Febbraio 2024 (Crocetti Editore – IF-Idee editoriali Feltrinelli).


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