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Della tristezza del pensiero. Dialogo sul saggio di George Steiner

"L’uomo è un Dio quando sogna un mendicante quando pensa" (Holderlin). "Credo nel sesso e nel decesso" (Woody Allen)

di Antonio Carollo - martedì 24 aprile 2007 - 6153 letture

Dalla mia recensione del libro di George Steiner “Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero”, è scaturito il seguente dialogo tra me, Umberto Guidi, giornalista e scrittore e Riccardo Mazzoni, ricercatore di storia e d’arte, poeta, regista.

“C’è un pensiero razionale e c’è un pensiero sentimentale. Il primo abbisogna totalmente di un linguaggio non solo per essere espresso ma anche in quanto facoltà pensante. Quando penso e insieme sento il linguaggio mi serve soltanto eventualmente per esprimere, ma già non è parte necessaria della facoltà pensante (e "sentente"). Diceva Holderlin che l’uomo è un Dio quando sogna un mendicante quando pensa. Vorrei sentire e sognare senza per forza di cose sentirmi un Dio, o perdere la cognizione del mondo - se davvero l’ha persa o non è passato piuttosto a una cognizione superiore - come Holderlin. Ciao, Riccardo

Riccardo, la difficoltà di varcare la soglia del linguaggio è comune al pensiero e al sentimento. La loro esistenza può prescindere da qualsivoglia forma di espressione. Le due configurazioni intellettive sono accomunati, altresì, dal fondo oscuro delle loro radici. Per il resto viaggiano su dimensioni non assimilabili: la mente da una parte e l’insondabile groviglio di sensibilità fisiche e psichiche dall’altra. Il sentimento è una facoltà che sentiamo più nostra in quanto meno sfuggente e più controllabile. Horderlin ha intuito perfettamente la differenza tra sogno e pensiero. Il sogno è l’illusione nel fulgore del suo spiegarsi, il pensare mette subito la mente di fronte ai suoi limiti e alle conseguenti disillusioni. Ciao, Antonio

Antonio, se guardo dentro me stesso, percepisco vari gradi di pensiero malinconico. Se la tristezza è un velo sottile, non è neppure tanto male. Non voglio dire che si verifichi una sorta di compiacimento nell’assaporare la tristezza, ma quasi. E’ una dolce malinconia che non impedisce di vivere. Invece emerge a tratti una tristezza più disperata, che viene dalla contemplazione del nulla: il nulla dal quale usciamo e il nulla nel quale ritorneremo dopo una breve parentesi. Mi pare che Ionesco abbia detto che i morti sono sempre più numerosi dei vivi, perché il loro numero, dalla notte dei tempi, aumenta costantemente. La vita è un’eccezione, la morte la regola. Non stiamo qui a riscoprire l’esistenzialismo - è già stato detto tutto, ma l’esperienza dello ’scacco’ è comune a chiunque sia dotato di un minimo di capacità riflessiva. Se ne esce? Dal nichilismo non c’è via d’uscita, se non provvisoria. La rimozione, gli affetti, per alcuni la sessualità - che a ben vedere però è legata alla nostra mortalità. Non solo Freud, ma anche Schopenhauer: proviamo il desiderio sessuale perché dobbiamo riprodurci, dobbiamo riprodurci perché siamo mortali e provvisori. Woody Allen sintetizza così, genialmente: ’Credo nel sesso e nel decesso’. Se però il cielo non è vuoto, allora tutto cambia. La dimensione religiosa - che non combatto, ma che in questo momento non mi appartiene - è una formidabile ancora di salvezza. Un saluto - moderatamente triste Umberto

Umberto, proprio George Steiner ci ricorda quali siano i limiti del pensiero umano. E’ un’indagine che mi trova consensiente in quanto è tutta basata su dati della nostra quotidiana esperienza intellettuale. La mente non riesce a dominare il pensiero; non riesce a farne uno strumento idoneo ad illuminarci su ciò che sta oltre, al di là della sua potenza investigativa. Molto rimane nell’oscurità. Ma c’è altro: non solo non riusciamo a penetrare il mistero dell’ultramondo, ma neanche riusciamo a dare risposte certe agli enigmi che ci pone la nostra stessa esistenza e sui suoi rapporti col mondo; non siamo capaci di avere cognizioni certe e definitive sull’essere. Sappiamo cosa è successo con Heidegger: ha rivoluzionato il concetto e la natura stessa dell’essere, ben radicati nel pensiero occidentale da oltre duemila anni. Non abbiamo cognizioni definitive, incontrovertibili sull’essere, figuriamoci sul nulla; la mente umana non è capace di pensare il nulla. Non c’è contemplazione del nulla: nessun pensiero o immagine lo ha mai attraversato. Quindi limitatezze, finitudini sono caratteri propri di questo essere vivente che tuttavia si erge ad un’altezze siderali rispetto agli altri esseri. Il nichilismo, come conseguenza diretta del divenire, ci viene presentato come verità ineluttabile. Ma è solo il prodotto di quell’impasto di finitudine che è il pensiero dell’uomo. Rimangono spazi infiniti, dentro e fuori dell’io, non percepiti dall’uomo con lo strumentario della sua razionalità; spazi appena sfiorati dal sogno, dall’estasi, dalla fantasia, dall’immaginazione. Ed ecco la malinconia, non la disperazione. Anche se molte domande rimangono senza risposte, il pensiero, in parte, aiutato dalle altre facoltà umane, riesce a tradursi in atti concreti, verificabili, i quali sono il modo di essere nel mondo di questa individualità che è l’uomo. Gli atti di pensiero, che hanno varcato la soglia del linguaggio, fondano la storia dell’uomo, il suo spazio vitale, il campo in cui si esprime e si materializza il suo essere nel mondo. In questo modo l’uomo, immergendosi nelle risorse della quotidianità attiva o trasferendo l’attenzione sui misteri dell’ignoto, riesce a porre sullo sfondo, ad attenuare, gli effetti della consapevolezza della sua morte ed a vivere la propria vita nel bene e nel male dei suoi pensieri e delle sue azioni. Umberto, mi sembra che queste mie modestissime idee non sono altro che un infinitesimale frammento di quel che il pensiero umano può percepire e concepire: nonostante i limiti la sua potenza di fuoco (vedi, tra l’altro, gli sviluppi delle scienze) è molto vasta e può essere motivo di qualche scintilla di felicità. Non credi? Ciao, Antonio

D’accordissimo sui limiti del pensiero raziocinante. Però resto convinto che il sollievo dall’angoscia esistenziale, che tutti troviamo nell’agire quotidiano, negli affetti, nei figli, nel lavoro o in quello che vuoi tu, sia in fondo ciò che Freud definisce ’rimozione’. Non pensare al nulla, al deficit di senso dell’universo. Mi sembra chiaro che che il senso, a tutto quanto, dobbiamo darglielo noi. Che poi la realtà sia più complessa di ciò che il pensiero umano possa rappresentare, è altamente probabile. Personalmente (sarà che invecchio) trovo molto conforto nel sentimento. Faccio un esempio cinematografico. Hai presente il finale del film di Fellini ’Le notti di Cabiria?’ La protagonista, Giulietta Masina, ingannata, vilipesa e derubata, vaga disperata nella notte. A un tratto arrivano dei giovani festanti, qualcuno suona la chitarra, si canta. Cabiria ritrova quasi suo malgrado un sorriso, la fiducia e la forza di andare avanti. E’ una sequenza per me molto bella, perché racconta con semplicità come, nonostante il pessimismo della ragione, la speranza sia sempre e comunque pronta a riaffacciarsi. Ci salverà l’arte? Umberto

a cura di Antonio Carollo


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