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Del coraggio e della speranza in carcere

La scelta del Papa di aprire una porta del Giubileo nel carcere di Rebibbia è un segno di coraggio e di speranza rivolto ai detenuti, a quanti lavorano e operano nelle istituzioni carcerarie.

di Massimo Stefano Russo - sabato 28 dicembre 2024 - 586 letture

La scelta del Papa di aprire una porta del Giubileo nel carcere di Rebibbia è un segno di coraggio e di speranza rivolto ai detenuti, a quanti lavorano e operano nelle istituzioni carcerarie. Focalizzare l’attenzione sulle problematiche che riguardano il contesto carcerario e chiedere di occuparsi e preoccuparsi delle carceri è un segno di civiltà e umanità.

Il coraggio in carcere, dove il tempo richiede pazienza e il pensiero esige riflessione, acquista un valore infinito che passa attraverso il quotidiano per riuscire a vivere o meglio sopravvivere. Il carcere lo si può raccontare solo attraverso chi lo vive sul proprio corpo e la propria mente.

Il 19 dicembre sono “entrato” in carcere, o meglio sono “ritornato” alla casa circondariale di Fossombrone (vi mancavo da più di un anno) per tenere un seminario sul tema del coraggio: mi sono soffermato a lungo sul senso da assegnare al coraggio nel vivere la quotidianità del carcere. “Scortato” e supportato dalla tutor Vittoria Terni de Gregory che segue con impegno e passione il percorso avviato dall’Università di Urbino “Carlo Bo” intrapreso con determinazione dalla prof. Daniela Pajardi sin dal 2015: negli anni ha dato i suoi frutti per numero di corsi attivati e studenti già laureati.

Avevo chiesto a Chatgpt uno schema di riferimento sugli argomenti da sviluppare, mi ha dato degli spunti interessanti con riferimento alle varie forme di coraggio che ritroviamo in quel particolare contesto. Nel corso dell’incontro ho fatto riferimento a esempi materiali di coraggio per sfatare il mito degli eroi coraggiosi; ho riportato l’attenzione sulla storia di Virginia Piazza Di Porto che il 16 ottobre salvò il figlio Emanuele scacciandolo dal camion che l’aveva catturata per deportarla ad Auschwitz, al comandante Salvatore Todaro alla guida del sommergibile “Cappellini” che salvò dal naufragio in mare nemici che aveva sconfitto.

Abbiamo riflettuto su come il coraggio si traduca in resistenza e resilienza, ma anche sopportazione hanno voluto precisare e sottolineare i miei interlocutori.

Puntare gli occhi sul carcere ci fa vedere un mondo ai più sconosciuto. In carcere si entra in contatto con la logica e l’irrazionalità del male. Del carcere si ha paura, il carcere mette paura. Del carcere si temono le restrizioni severe e i provvedimenti eccezionali a cui si va incontro. L’esperienza del carcere, senza interesse alcuno per la vita, ha delle conseguenze traumatiche. Difficile immaginare quale trasformazione subisce chi viene condannato. La società considera il carcere un’organizzazione istituita in forma preventiva e repressiva quale sistema che si propone come garante di sicurezza. L’intento di colpire le attività criminali e illecite lo ritroviamo nella pena detentiva da scontare in carcere, per evitare di continuare a rimanere un pericolo, ma il carcere spesso si rivela luogo di riproduzione dell’esperienza di attività illecite. Bisogna tenere in mente che in carcere si trovano soggetti fortemente disagiati espressione degli strati più deboli della società.

Entrare in carcere da “visitatore” quale significato assume? Bisogna dare senso ai valori in cui riconoscersi e da ricreare insieme, consapevoli dello spazio e del luogo di sofferenza in cui ci si ritrova. Si tratta di mettere in campo tutte le proprie forze per affermare un nuovo ordine e una nuova vita. In carcere nel tenere fisso lo sguardo sul palmo della mano e seguire il filo del discorso, ci si racconta poco per volta e si rimane a inseguire la propria fantasia, nello scambio di brevi frasi, spesso parlottando a bassa voce. Le idee che circolano, ispirate dal desiderio di concrete attività di riscatto, alimentano i sogni e le speranze. Diventa estremamente importante promuovere strumenti alternativi, in modo efficace e coraggioso. La speranza, come motivazione esistenziale in prospettiva, la si proietta con fiducia in un futuro aperto alla libertà.

Le conseguenze del carcere innescano timori molto forti che permangono nello shock di rimanere oltre che reclusi anche esclusi, emarginati dalla società. L’immagine del detenuto viene svalutata in ragione dei reati commessi e delle pressioni della società. In carcere nel chiamare alla responsabilità si cerca di arrivare a costruire buone relazioni da condividere, indispensabili per migliorarsi. In carcere si apprende attraverso il mettersi in discussione nel divenire capaci di rivisitare il passato e gli errori, i reati commessi: il darsi e farsi coraggio evita che tutto appaia sbiadito e deteriorato. Con i cardini che cigolano e il rumore dei passi ad avvertire che sta per arrivare qualcuno i suoni assumono una risonanza insolita. Rassegnati allo scorrere del tempo che in silenzio trafigge il cuore, sono i sogni a lasciare una impressione profonda e duratura nel ricordare vividamente i minimi particolari della vita vissuta e i fatti veramente accaduti. Senza sapere bene cosa rispondere capita di soffermarsi ad annuire in silenzio, capaci con gli occhi di leggere e interpretare l’altro, nel dare senso all’intendersi, così da evitare le domande inutili, le parole confuse e sconnesse. Ci si vuole ritrovare capaci, nel parlare con facilità, di esprimere i propri pensieri e sentimenti.

Nell’immaginare il carcere bisogna affrontare il dolore e superare i sensi di colpa. Chi si rende conto di aver sbagliato, senza poter rimediare al danno fatto vive conseguentemente il suo senso di colpa. In carcere la dimensione della libertà viene annullata, vittime di sé stessi e della tragicità del proprio destino. Si tratta di tenere conto e affrontare con coraggio il dolore delle persone che si sono fatte soffrire e farlo proprio. Un dolore che porta a una nuova consapevolezza di sé. Nel sentirsi in colpa il pensiero attiva un dialogo interiore. L’espiazione della pena è una componente necessaria, nell’andare oltre il ruminare per il dispiacere che si prova per come sono andate le cose rispetto a come sarebbero potute andare. Come accogliere la sofferenza e il dolore? Si tratta di avere consapevolezza dell’atto compiuto, le motivazioni che hanno spinto all’azione e le conseguenze da subire per averla compiuta.

In lotta con sé stessi bisogna trasformare l’energia distruttiva in opportunità di crescita e cambiamento. Responsabilizzare l’individuo porta a sviluppare le forze interiori per restituire alla persona dignità e valori.

Spetta al perdono ripristinare il rispetto. Come impegnarsi concretamente nel riparare la colpa commessa? In carcere si riflette a partire dall’ordinaria routine della propria vita quotidiana, di un vissuto carico di luci e ombre, amore e rabbia, di vita e di morte, in un turbinio di emozioni e sensazioni. In carcere dove non si ha fretta di tempo, perché se ne ha quanto se ne vuole, nel sentire vaghi e confusi mormorii si rivedono spezzoni sfocati di immagini di vita. Si segue l’ordine prestabilito, con calma, metodo e sguardo concentrato nella sequenza dei propri gesti, spesso senza un criterio temporale nel portarsi dietro la propria ombra. Oltrepassato il portone e varcata la soglia, con l’animo dilaniato, consapevoli che tutto non sarà più come prima, bisogna abituarsi alla nuova condizione e stringere taciti patti con sé stessi, nel dover lasciare il mondo esterno. Consapevoli che per confessare una colpa occorre poter saper dire Io e arrivare così a sentire chi si è veramente, mentre il silenzio senza bisogno di parole ravviva i ricordi e la memoria, con i passi incerti che rendono il rumore qualcosa di malinconico.

La pacificazione, nel carcere richiede il coraggio di ragionare in termini di giustizia, per arrivare a celebrare il perdono, con la consapevolezza che se il tempo resta vuoto facilmente ci si smarrisce.


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