Danilo Dolci, nel tempo dell’indifferenza e della disperazione
Danilo Dolci (28 giugno 1924 Sesana, Slovenia – 30 dicembre 1997) fu sociologo, poeta, educatore e attivista della nonviolenza italiano. Fu convinto assertore della pedagogia della liberazione mediante il metodo maieutico...
Danilo Dolci [1] dimenticato dalla cultura ufficiale, ci ha donato nei suoi innumerevoli scritti e poesie la necessaria differenza tra dominio e potere: il primo è gerarchizzato e gerarchizzante e si fonda sulla logica della trasmissione dei comandi e dei saperi senza mediazione razionale e comunitaria, mentre il secondo appartiene a tutti.
Il dominio ha il fine di rendere i soggetti spettatori dello spettacolo del mondo. Uno spettacolo scritto da altri e che riduce molti ad esecutori passivi degli ordini e degli imperativi delle oligarchie. Lo sfruttamento non avviene solo in fabbrica o solo nel terziario, ma lo sfruttamento è l’ordinaria normalità che investe ogni aspetto della vita e del quotidiano. Si è sfruttati e dominati, quando si ripete in modo inconsapevole i in maniera costrittiva modelli esistenziali e linguistici calati dall’alto. Si sempre sotto ricatto, in quanto i dissenzienti sono puniti con la marginalità sociale.
Il potere è possibilità diffusa e comunitaria che ha come principio primo la comunicazione maieutica, ovvero il mettere in comune, in modo che ciascuno possa trasformare in atto le proprie potenzialità nella vita comunitaria, la quale è prassi politica, poiché in essa si decide della vita di ciascuno senza escludere nessuno.
La vera rivoluzione auspicata da Danilo Dolci è la demassificazione mediante lo sviluppo delle personalità in un clima di positiva dialettica sociale che non esclude il conflitto, il quale è capace di segnare positivamente la vita interiore di ogni cittadino. Il metodo maieutico non fu per Danilo Dolci un semplice metodi finalizzato alla conoscenza di sé, la pratica del metodo maieutico ebbe una valenza politica ed etica. Esso si contrapponeva alla violenza mafiosa e capitalistica. La violenza per essere pensata necessita di un modello alternativo che con il suo operare denuncia l’irrazionalità dolorosa della violenza. La violenza rende gli individui massa informe su cui il dominio trasmette i suoi tragici comandi. La violenza è il mezzo con cui il dominio si assicura la stabilità nel presente e nel futuro. La violenza è muta, non conosce contraddizione ma solo dolore. La contraddizione consente il confronto con cui dosare la forza logica ed etica dei propri giudizi e delle proprie scelte. Il conflitto dialettico è il fondamento della comunicazione maieutica, poiché il confronto implica una tensione che conduce verso l’universale concreto e partecipato.
In un momento fosco e dubbio per la nostra democrazia ricordare un “partigiano” come Danilo Dolci può essere occasione per riflettere sul senso della politica sepolta dal conformismo del “politicamente corretto”. Danilo Dolci fu rivoluzionario in modo nuovo. La maieutica pone in atto processi partecipativi. La libertà e il lavoro sono la dignità dell’essere umano, essi sono parte integrante della partecipazione alla vita politica. Rivoluzionario in una realtà di incuria e di indifferenza è colui che cura la vita e le vite senza compromessi. Definì la rivoluzione con il linguaggio della poesia:
“rivoluzione”
forse non ha capito.
Non è rivoluzione
tirare una sassata in testa a uno sbirro,
sputare addosso a un poveraccio
che ha messo una divisa non sapendo
come mangiare;
non è incendiare il municipio
o le carte in catasto
per andare da stupidi in galera
riforzando il nemico di pretesti.
Quando ci si agita per giungere
al potere e non si arriva
non è rivoluzione, si è mancata;
se si giunge al potere e la sostanza
dei rapporti rimane come prima,
rivoluzione tradita.
Rivoluzione è distinguere il buono
già vivente, sapendolo godere
sani, senza rimorsi,
amore, riconoscersi con gioia.
Rivoluzione è curare il curabile
profondamente e presto,
è rendere ciascuno responsabile.
Rivoluzione
è incontrarsi con sapiente sapienza
assumendo rapporti essenziali
tra terra, cielo e uomini: ostie sì,
quando necessita, sfruttati no,
i dispersi atomi umani divengano
nuovi organismi e lottino nettando
via ogni marcio, ogni mafia.
Rivoluzione è cura del presente, responsabilità verso il presente ed il futuro, aprirsi a dimensioni che pongano in tensione realtà apparentemente separate. Rivoluzione è scoprire la verità senza la quale nessun movimento di profonda trasformazione può esserci. Ogni partigiano lavora per la Rivoluzione anche quando la storia sembra fare pericolosi giri di boa e tornare indietro. Siamo tutti implicati nella Storia, la quale è di tutti. L’esperienza partigiana ha visto la partecipazione di persone appartenenti a realtà ideologiche diverse, perché quando il pericolo è vicino, la salvezza necessita della partecipazione di tutti, ognuno ha il suo compito per impedire nuove regressioni sociali. Il rivoluzionario è uomo di coraggio, sa che si inerpica per un sentiero nel quale gli sputi e gli insulti diverranno il suo Leitmotiv quotidiano:
Chi è avanti mille anni
lo sputano, lo trascinano in galera,
l’ammazzano se possono
(quando non si interessi di esperienze
riguardanti bombe e veleni universali).
Chi è avanti cento anni
lo criticano.
Chi è indietro
l’applaudono.
Ma chi sputa (anche a lupara), o applaude?
Spesso mi domandano:
“Cosa pensa la gente del vostro lavoro?”
Pochi gli amici attivi
che muovono il mondo dal fondo.
Chi sa pensare guardando avanti
per meglio profittare dell’altrui confusione
è il nemico duro: sono pochi.
Tra gli uni e gli altri la grande massa
degli incerti aspetta di scorgere
chi vince.
Tra chi sputa e tra chi lotta per la rivoluzione vi è la massa grigia degli incerti che attendono il vincitore per schierarsi. La zona grigia già descritta da Primo Levi svela la miseria degli esseri umani, eppure il rivoluzionario sa che nella zona grigia vi sono energie sopite che la sua azione può destare.
L’indifferenza opportunistica non è l’ultima parola della storia, Danilo Dolci testimoniò con tutta la sua vita che la “zona grigia” non è la natura dell’essere umano. La zona grigia è la palude del dominio ed è la sua linfa vitale. Coloro che non scelgono hanno introiettato i processi di alienazione al punto da non concepire e da non desiderare di essere protagonisti di una scelta autentica, libera e consapevole. Chi non sceglie è proprietà altrui diventa “cosa” gestita dal dominio e dal suo fedele servidorame. L’alienazione è il male, essa penetra come piombo nella psiche collettiva fino a rendere gli esseri umani soggetti passivi e sgabello del dominio. La politica è cura della città nella quale umanizzarsi:
“Oggi dalla città si scappa. Come si può costruire una città–territorio come parco di pace? Solo l’utopia può salvarci dalla alienazione angosciata dell’attuale città. Riscoprire il territorio come parco di pace significa cambiare il nostro modo di vivere, significa togliere il dominio a chi ha trasformato le città in luoghi di emarginazione, di fuga, incomunicabilità, sfruttamento, consumismo, spreco e criminalità. Dove la cultura è ridotta a quella di regime, in mano a pochi, dove le tradizioni vengono ridotte a occasioni di guadagno privato. […] Le città devono essere governate da chi le ama esprimendo il bene comune. Pensare ai nostri figli significa anche rinunciare allo sfruttamento esasperato delle risorse” [2].
Danilo Dolci fu tutto questo e molto di più. Nel tempo dell’indifferenza e della disperazione il suo nome riscalda i cuori.
[1] Danilo Dolci (28 giugno 1924 Sesana, Slovenia – 30 dicembre 1997) fu sociologo, poeta, educatore e attivista della nonviolenza italiano. Fu convinto assertore della pedagogia della liberazione mediante il metodo maieutico. Il dialogo che parte dal basso e dona la parola agli ultimi consente loro di emanciparsi dai processi di dominio e di reificazione. Si trasferì in Sicilia nel 1952 a Trappeto e lottò per la liberazione dai processi di sudditanza della mafia.
[2] Danilo Dolci (a cura di), Contributi, in Variazioni sul tema comunicare, II, 1991, p. 96.
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