Dall’età degli indizi alla storia virtuale
In margine alla segnalazione del libro di Andrea Augenti
Sappiamo che anche nel passato sono esistiti rapporti “globali”. Per quanto ne sappiamo, l’ecumene ha cominciato a saldarsi in età alessandrina, per poi perdere pezzi (le regioni europee) e rinsaldarsi successivamente con l’ondata eurocoloniale che ha investito il mondo e da ecumene l’ha fatto diventare globo “moderno”. In tutto questo sempre e ovunque, ogni civiltà ha avuto un rapporto e una consapevolezza con il proprio passato: attraverso la tradizione orale, familiare, matri o patri-lineare; attraverso simboli, disegni o forme di comunicazione scritta. La morte di ogni civiltà significa sempre la soppressione di gran parte dei segni che quella civiltà ha prodotto per significare se stessa.
Nel settore archeologico non sappiamo com’è andata per le civiltà del passato. Se qualcuno nel passato abbia avuto “archeologi”, e come lavorassero e cosa li motivasse. Sappiamo come è andata a noi. Nell’europa meridionale, reduce da un periodo di decadenza, si ricominciò a studiare il passato. Con un preciso programma culturale: viene individuato il periodo di decadenza come Medioevo, e il periodo immediatamente precedente a esso come periodo aureo, di civiltà, a cui guardare quale exemplum da imitare. La civiltà greco-romana da recuperare. È un programma culturale che rimette in moto la filologia (Lorenzo Valla), e il collezionismo antiquario. I ruderi delle civiltà precedenti esistevano, ma ora non vengono più visti come semplici mucchi di pietra o ottimo materiale da riutilizzare nelle costruzioni; si comincia a identificare quelle pietre in maniera diversa, come appartenenti a un passato, a un passato “glorioso” da rispettare, per cui quelle pietre ricevono l’aura del rispetto sacrale (da parte del ristretto gruppo di intellettuali e del ristretto gruppo di governanti che iniziano il percorso umanistico-rinascimentale). Il collezionismo antiquario isola un oggetto del passato, lo fa diventare “bello” e lo pone al riparo da agenti destabilizzatori; l’oggetto diventa oggetto da ammirare, da far vedere (ad altri pari); l’azione antiquaria diventa azione da imitare per quanti sentono di appartenere alla classe colta e di potere. La cosa si allarga, lentamente all’inizio, ma a macchia d’olio e ad ondate per tutta Europa. Tutto questo è stato parte del successo in Europa del programma umanistico-rinascimentale.
Accade poi che gli Stati europei in competizione gli uni con gli altri iniziano a riversare all’esterno occhio e l’interesse. Gli europei scoprono l’altro, l’esotico. Che sono esistite civiltà oltre quella greco-romana, a iniziare da quella egizia. Fanno azione di rapina: i potenti dell’epoca dopo aver decontestualizzato isolandoli come beni antiquari gli oggetti dell’epoca greco-romana, vanno alla ricerca di reperti antichi di cui impossessarsi e custodire nelle proprie capitali. Non diversamente da quanto facevano i romani d’età augustea e repubblicana con i reperti provenienti dalla Grecia: razzia, duplicazione in copie dove non era possibile; viene diffusa l’idea che il bello sia nelle statue bianco-marmoree, prive degli antichi pigmenti.
Ma poi accade ancora una cosa. Archeologia, scienza medica e criminologia scoprono il valore “scientifico” dell’indizio. Il frammento che è parte di qualcosa, che rimanda a un qualcosa di cui si vuole ricostruire, attraverso la “scienza” appunto, l’indagine che si avvale della tecnologia, una interezza: che sia un crimine e individuare l’assassino (Edgar Allan Poe, su su fino a Sherlock Holmes), o l’esistenza di una città perduta attraverso il coccio di un reperto. In questo momento archeologia e tecnologia cominceranno a muoversi assieme.
Mentre l’esotismo diventa colonialismo e poi antropologia, l’antiquariato collezionista diventa archeologia, cioè disciplina in cui il metodo conta quanto i risultati che si ottengono. L’influenza della geologia - rafforzatasi con i compiti militari e con le necessità dell’industria di sfruttamento delle materie prime - permette di dare valore alla stratigrafia. Il Novecento dilata l’attenzione anche alle civiltà non greco-romane (o egizie). Si scopre che il novero di “civiltà” non è esclusiva delle civiltà monumentali dell’ecumene. Americhe, Oceania, Africa entrano in lista. E “le cose” non tornano più. La borghesia va al potere e scalza l’antica aristocrazia, si appropria delle nozioni di bello e di valore, e dilata gli interessi. E subito dopo, non è più solo l’alta borghesia, fondiaria o commerciale, ma è la media borghesia, e poi la piccola borghesia: sono dilatazioni sociali che incidono su ciò che un archeologo include o esclude dalla sua attenzione, ciò che lui considera “reperto” e quello che butta via come “inutile terra o pietrisco”. La modernizzazione continua che costringe il “moderno”, non solo a livello generazionale, ma sociale e politico. Ed ecco che nel corso di una di queste fasi di modernizzazioni, nella fase o strato archeologico della “democratizzazione” post-bellica, l’archeologo scopre che nell’indagine stratigrafica non interessa solo individuare la pietra che reca il segno di una manifattura umana; ma che sono interessanti anche i residui di cibo, e i segni di socialità più vasta. Il contesto diventa altrettanto importante del vaso. Quando la modernizzazione entra nella fase antropocenica, si comincia ad avere anche in archeologia un occhio ecologico. La decolonizzazione costringe a fare i conti sull’aspetto razziatore dell’archeologia; forse non è proprio giusto che il bianco europeo solo perché si crede più intelligente e ricco trasferisca nei suoi musei ciò che appartiene ad altri.
La storia del metodo in archeologia va di pari passo con i mutamenti (che abbiamo chiamato “modernizzazione del moderno”) che la società subisce. C’è ad esempio il problema del restauro, e della presentazione del reperto al pubblico - a scopo pubblicitario, di insegnamento, di trasmissione dei saperi ma anche dei “valori” culturali che si vuole abbiano i propri contemporanei. È lo stesso problema che hanno coloro che scavano i dinosauri: problemi legati alla conservazione (tecnologica) dei reperti; l’assemblaggio (filologia: ma siamo davvero sicuri che questo coccio faccia parte di questo vaso? siamo sicuri che questa tibia appartenga a questo Tirannosauro, o a questo ominide?); lo studio e l’esposizione al pubblico. C’è il problema legato alla tecnologia, che incide sullo studio: la tecnologia cambia negli anni, i risultati che si ottenevano negli anni Cinquanta per un dato reperto cambiano quando li si studia con strumenti tecnologici degli anni Ottanta o degli anni Venti del Ventunesimo secolo; e così si pone il problema di come fare a conservare il reperto, proteggendolo dalle stesse distruzioni che una determinata tecnologia causa al reperto e al suo contesto. E c’è il problema posto dalla contaminazione: cosa succede al un reperto quando viene estratto dal luogo in cui ha “riposato” per millenni, esposto alla luce del sole (si pensi agli affreschi egizi, o etruschi ecc_), e all’inquinamento dell’epoca dell’industria?
Nella fase digitale e informatica della modernizzazione, abbiamo cominciato a far fruire determinati reperti in maniera “virtuale” al pubblico. Ciò perché il pubblico è abituato all’effetto televisivo - capisce le cose solo se appaiono in televisione, opportunamente confezionate e adattate per questo mezzo di comunicazione di massa; e perché il “virtuale” fa tanto figo e “al passo coi tempi” e cattura l’interesse degli sponsor. Il passo conseguente è l’uso del virtuale per l’individuazione e lo studio dei reperti, che in questo modo possono essere lasciati al loro posto. L’affinamento di tali metodiche - stante la dronizzazione spinta che proviene dalle tecnologie applicate in ambito militare e aerospaziale - potrebbe rispondere a uno dei problemi che l’archeologia ha davanti a sé, finita l’era delle razzie. Rimane il problema di come proteggere i reperti una volta individuati; la protezione immediata (dai curiosi, dai balordi razziatori ecc_) e nel tempo (tombaroli, sfruttatori economici delle aree, ma anche cataclismi ed eventi distruttivi). Abbiamo visto che neppure il tabù (la “maledizione di Tutankamen”) o rendere radioattive certe aree permette di proteggere i reperti. Si cerca ancora una soluzione.
La talpa del titolo
La talpa che scava… la talpa che trova, ma anche la talpa che prepara qualcosa sottoterra, nascosto alla vista… C’è un sottile filo che lega Shakespeare (Hamlet), Hegel, Marx [1], Marco Belpoliti e l’operazione culturale che è stata “La Talpa dei libri” de Il Manifesto negli anni Ottanta del secolo scorso e...
[1] Cfr. Daniele Luglio.
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