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{{DIGNITA’ E (R)ESISTENZA- I delitti Vaccaro Notte e un briciolo di giustizia dieci anni dopo

di Giuseppe Tramontana - martedì 24 novembre 2009 - 4322 letture

Forse il 21 ottobre scorso qualcuno a Sant’Angelo di Muxaro, Agrigento, lontana periferia di questo scalcinato impero, ha gioito o, al contrario, ha santiato. Quel giorno la Corte di Assise di Agrigento ha condannato i mafiosi Stefano Fragapane, Giuseppe Fanara e Giovanni Aquilina all’ergastolo. Ma perché, chi sono? Per capire chi sono occorre raccontare una storia. Un’atroce, disperata storia del Sud. Ma non basta. E’ anche una storia assurda, nella quale amore per la propria terra, dignità e morte si fondono. Insomma, nello specifico, è una storia profondamente siciliana. Punto. Anche perché, come accade spesso nell’isola, appartiene a quel novero di vicende che si dispiegano quasi senza senso. O meglio, si parte da un dato assodato e si arriva – non si sa perché e non si sa per come – ad un risultato enorme, esageratamente sproporzionato. Eppure, se sfogliate i grandi racconti di mafia, le storie più ricche, corpose, puntuali su Cosa Nostra, gli excursus storici, le ricostruzioni documentali, questa vicenda non la trovate. Io c’ho provato. Nisba. Tutto muto. Proviamo a ricostruirla noi, allora.

Tutto inizia con due fratelli, anzi tre. I fratelli Vaccaro Notte. Vincenzo, detto Enzo, Salvatore, detto Salvo, e Angelo, il più giovane. I tre sono nati e vivono a Sant’Angelo di Muxaro, Agrigento, quasi mille e settecento anime arroccate su un monte ai confini della Valle del Belice. C’è una foto molto significativa di Enzo e Salvo. E’ la foto di due signori sulla quarantina. Si assomigliano come due gocce d’acqua, benché uno sia palesemente più giovane dell’altro. I due sono a cavallo. Montano due bellissimi bai, possenti, lucidi, il petto, i garretti segnati dal turgore della muscolatura, gli zoccoli saldi. I fantini hanno capelli ricci, stivali e pantaloni stretti. Quello che sembra il più anziano, Enzo, indossa un gilet nero su una camicia cilestre e una cravatta rossa. Salvo una blusa gialla. Sorridono lievemente. Sembrano sereni. Tranquilli. Magari qualche preoccupazione ce l’avranno, ma dalla foto non trapela. Sereni come chi ha la coscienza a posto, pulita, nulla da rimproverarsi e nessuno da ingraziarsi. A testa alta. Quella foto è stata scattata nel settembre dell’ ’87, durante la Festa dell’Addolorata. Probabilmente si trovano a Sant’Angelo per le ferie, perché loro, in realtà, stanno in Germania, dove vivono e lavorano ormai da più di dieci anni. Ma è chiaro che il paese natio, a loro, piace e ci tornerebbero volentieri a vivere. Sono andati via perché non c’era lavoro. Solo speco della vita nell’attesa di favori, contando le mattonelle in piazza. Che vita è? Basta, hanno detto, e se ne sono andati. Prima a Spotorno, vicino Savona, poi in Germania, a fare i pizzaioli. Il terzo fratello, Angelo, invece un lavoro ce l’ha: è guardia forestale. L’unica alternativa possibile tanto all’allevamento delle bestie che all’arruolamento nelle cosche. In Germania si danno da fare. Sognando il ritorno. Da trionfatori. Avendo da mangiare per sé e per i propri figli, non chiedendo nulla a nessuno. Senza padroni, a testa alta. Fatica e nostalgia, sotto il corrusco cielo teutonico. Il sole, il caldo, il passeggio, lo struscio in piazza o nel corso, lo scirocco che, come un capriccioso amante, viene dall’Africa per accarezzare i capelli delle donne, delle santangelesi. E poi la granita di mandorle e il vino buono, la salsiccia che come quella del paese non ce n’è da nessuna parte del mondo e le pesche di Bivona che fanno impazzire dal profumo. Alzarsi presto, imparare quelle quattro parole di tedesco giusto per capire i clienti, tenere duro, non lamentarsi. E guardare lontano. Con speranza. Conoscono un mondo civile, però, un mondo fatto di sacrifici, ma anche di rispetto per chi lavora, senza baciamolemani e vossignoria. Solo la libertà di dire ancora e la necessità di dire basta.

Il paese. E’ lì che si vuol tornare. E un giorno ce la fanno. Siamo all’inizio degli anni Novanta e loro sono pronti per tornare. Da vincitori, come volevano. Portando un prezioso bagaglio, un bagaglio di libertà. E la dignità di chi sa che può contare su bene che non lo abbandonerà mai: il sudore della propria fronte. Certo, i pericoli ci sono. Primo fra tutti, la mafia che si incarna, a Sant’Angelo, in una cosca, la “cosca dei pidocchi”, scassapagghiari convertitisi in rispettati mafiosi, parassiti che maramaldeggiano per diventare padroni. Ma loro, i fratelli, non hanno paura. Deve avere paura chi ne ha motivo, non gli onesti, pensano. La paura è un corvo che volteggia nell’aria finchè non trova un ramo su cui appollaiarsi o un cadavere da becchettare. Solo che la paura cerca un animo pavido che dia riparo, non un ramo. E, poi, se uno non ha paura e non vuole essere servo, sta sicuro che padroni non ne trova: come si dice?, ad ogni schiavu ‘nu bonu patruni…

Con il gruzzolo accumulato in Germania mettono su un’agenzia di pompe funebri. Aspettano sei anni per avere le autorizzazioni, le certificazioni, le dichiarazioni, le autorizzazioni sulle autorizzazioni, i nulla osta sulle attività, le delibere del Consiglio comunale che approvano, concedono, riconoscono. Sei anni. Ma la legalità è anche questa.

Ora, c’è da specificare che, la loro, non è l’unica agenzia del paese. Ce n’è un’altra. Senza autorizzazioni, senza nulla osta, senza certificazioni. Ma non per questo ha mai avuto problemi. Appartiene ai fratelli Angelo e Alfonso Milioto, vicini – dicono in paese – alla cosca dei Fragapane di Santa Elisabetta, paese confinante.

A Sant’Angelo c’è aria pesante. Si sente, si avverte. Qualcuno è scontento e non lo nasconde. I Vaccaro Notte intuiscono, si sentono osservati, come intrusi, elementi disturbatori. Abituati a vivere, lavorare, darsi da fare in Germania, ritornare in paese è come muoversi in un acquario pieno di pece. Tutto è cupo, ambiguo, torbido. E vischioso. Pericolosamente incrinato rispetto alle norme della legalità, ottuso. E’ un paese in cui la storia e la civiltà hanno davanti un muro. Il muro della paura e dell’omertà. Il muro della mafia. E nessuno fiata, ché lu trivulu e lu beni, cu ci l’havi si li teni. Tutti ci stanno dentro. Gli impiegati che girano sottobraccio ai mafiosi, i politici locali che danno e si fanno dare del ‘cuscì’ (cugino) o del ‘cumpà’ ai delinquenti, assessori che gozzovigliano gomito a gomito con i malavitosi e i loro ruffiani. E tutto per i voti. Come in altri mille posti d’Italia, a dire il vero. Come a Palermo, a Catania, ad Agrigento, a Napoli, a Roma. Nulla di strano, in fondo. Scandaloso sì, ma strano proprio no. Eppure Enzo e Salvo ci credono, all’onestà. O si illudono. Tappezzano i muri del paese di manifesti pubblicitari: “Per i vostri funerali – c’è scritto – rivolgetevi a noi, siamo gli unici autorizzati. Prezzi convenienti. Un milione di lire per ogni funerale, bara compresa.” Non si fa così dappertutto? La pubblicità non è l’anima del commercio? E, allora, che c’è di male? Si pubblicizza onestamente la propria attività, la gente vede, valuta, sceglie. Se è contenta ritorna, sennò adios. Liberamente. Ecco qua: liberamente. E’ questa parolina che a Sant’Angelo non funziona. Qui – come in tanti altri posti – chi è libero è un nemico. E come tale va trattato. A questo punto i ‘pidocchi’ si fanno vivi. Uno di loro, uno che si fa passare per imprenditore, ha quasi il loro stesso nome – Giuseppe Vaccaro . Una sera, in piazza, avvicina Enzo. Con il solito fare ammiccante, tra detto e non detto, fa capire che è meglio, per loro, non insistere. Anzi, è meglio darci un taglio. Quella è zona coperta. E anche quel settore delle pompe funebri. Insomma, non bisogna dar fastidio. Loro, il fastidio lo danno, invece. Pretendono di lavorare senza tutele di padrini o uomini d’onore, vogliono persino fare loro i prezzi. Ora persino la pubblicità. Amici belli, qui non siamo in Germania. Lì, certo, funziona diversamente, ma qua le regole sono altre e vanno rispettate. Qua le regole le facciamo noi. Così è sempre stato. Gli altri le rispettano e basta. Enzo incassa. E’ turbato, ma non lo dà a vedere. Parla con Salvo e Angelo. Non hanno paura, loro. Male non fare, paura non avere. E loro, di male, non ne stanno facendo a nessuno. Anzi, sono convinti di portare un soffio rinfrescante su quell’acqua stagnante. Si va avanti.

Arrivano così i primi avvertimenti. Una notte qualcuno si avvicina alla casa di Angelo. Ha cinque cani a cui tiene particolarmente. Sono belli, cani lupo, pastori tedeschi. Li cura, li accudisce, sono i figli che non ha. Quella notte, tre vengono uccisi e due feriti. Che fare? Angelo è uomo dello Stato, è guardia forestale. Sporge denuncia contro ignoti. Che tali resteranno per legge.

I santangelesi osservano. Osservano tutto. E parlano. Nei bar, dai barbieri, nelle autofficine. Col cinismo di chi la sa lunga ed il sottile piacere di chi, essendosi piegato, non sopporta che altri restino integri, pretendendo di passare per diversi, migliori. Si parla dei Vaccaro Notte. Si fanno scommesse su di loro. Su come andrà a finire. Pochi hanno dubbi: come vanno a finire certe cose? Male. Chi credono di essere quei beccamorti?

Le minacce aumentano e proporzionalmente si accresce anche la determinazione di Enzo, Salvo e Angelo. E così accade ciò che tutti hanno pronosticato. La sera del 3 novembre 1999, un commando armato avvicina Enzo. Gli sparano a bruciapelo. Non ha neanche il tempo di un sospiro. In piazza. Sotto gli occhi opachi, indifferenti di un’umanità senza nome, che pensa solo a defilarsi. Nessuno parlerà. Nessuna testimonianza, manco un bah. Pupille di vetro e lingue di basalto in facce di bronzo. E’ Angelo che va dai carabinieri. Racconta. Racconta delle intimidazioni, degli abboccamenti, delle parole sussurrate e delle minacce palesi. Fa i nomi e i cognomi, ricostruisce fatti e circostanze, indica luoghi e tempi. Adesso lo Stato – pensa – interviene per fare giustizia. Ma lo Stato non interviene. Anzi, si comporta come un tanghero, un fellone. Non solo non viene assegnata nessuna protezione ai fratelli superstiti, ma la notizia delle dichiarazioni di Angelo filtra, la gente si dilegua, prende le distanze, nessuna commissione, nessun cliente, nessun amico. E nel vuoto si può essere colpiti più facilmente, si sa, lo sanno. Ma non importa. Salvo e Angelo vanno avanti. Anche senza Enzo c’è una dignità da difendere. Anzi, proprio per lui. Il vuoto, il silenzio ed i borbottii, le occhiate in tralice ed i giri larghi della gente tradiscono la loro solitudine. Sono soli e nessuno può aiutarli. O cedono o vanno via. O muoiono, naturalmente. Niente di questo vogliono loro, benché isolati e indomiti. Ma anche vulnerabili. Il 5 febbraio 2000 un altro commando assassino scorazza per la piazza del paese. Scovano Salvo e gli sparano due colpi di lupara in testa. Lo sfigurano come una bestia feroce. Così deve morire chi non si arrende, chi vuole l’onestà.

Dopo quel giorno, Angelo deve seppellire il secondo fratello e la speranza. Il 30 marzo lascia la Sicilia, l’Italia e va in Argentina. Ci resterà quasi un anno e mezzo, poi ritorna. Per sfidare i boss. Si rivolge alla magistratura, diventa collaboratore di giustizia ed entra in un programma di protezione insieme alla sua famiglia.

Passano sei anni. Sei anni di passione per Angelo, che deve ricominciare da zero. La sua attività è bloccata. Bloccata come la giustizia. Così pare, almeno. Giorno dopo giorno ripensa ai fratelli caduti. Alla loro volontà di non piegarsi. Alla loro onestà, alle scelte coraggiose pagate a caro prezzo, alla loro determinazione incorllabile. Sei anni pensando che quel posto, Sant’Angelo, è stato la loro bara. Il posto che più al mondo hanno amato, agognato. E che invece li ha traditi, inghiottiti. Senso di sconfitta, senso di sgomento, rabbia e delusione. E’ dura riattaccare. E dove, poi? I giorni rotolano come macigni dentro la testa di Angelo, senza pace, senza tregua. Ma lentamente qualcosa spunta. E’ l’intraprendenza di due magistrati agrigentini, Annamaria Palma e Costantino De Robbio, a fare la differenza tra giustizia e impunità, mafia e legalità. Siamo nel maggio del 2006. I giudici hanno fatto posizionare microspie in due punti caldi: la masseria dei fratelli Stefano e Francesco Fragapane, a Santa Elisabetta, e la casa in campagna di Pietro Mongiovì, a Sant’Angelo. Quando gli inquirenti ascoltano le registrazioni vanno in solluchero. C’è dentro di tutto: traffico di droga e di armi, estorsioni a tappeto, gare d’appalto truccate e pilotate, copertura di latitanti eccellenti, indicazioni per eliminare esponenti di famiglie rivali. Insomma, la sagra del delitto mafioso. Scatta la prima operazione ‘Sikania’, a cui ne seguirà una seconda. Tra i dodici mandati di arrestato spiccati, uno si posa sulla capoccia di Stefano Fragapane, già in carcere dal luglio 2002, quando i carabinieri interruppero un bel summit mafioso in un casolare nei pressi di santa Margherita Belice.

Ma, come si dice, non tutti ci sono, non tutti lo sono. Se è vero che non tutti i siciliani sono mafiosi, è anche vero che non tutti i mafiosi sono in Sicilia. Così, nel corso delle due operazioni, ‘Sikania’ e ‘Sikania 2’, due arresti eccellenti vengono effettuati a Piove di Sacco, Padova, più di mille e cinquecento chilometri a nord di Sant’Angelo. Vengono acciuffati Giuseppe Vaccaro, quello che aveva ‘consigliato’ di desistere, e Pietro Mongiovì. Entrambi ufficialmente imprenditori edili, ché la stampigliatura ‘mafioso’ sulle carte di identità non è ammessa. Giuseppe Vaccaro è accusato di essere il mandante dell’omicidio di Enzo. Valuta. Decide che gli conviene collaborare. Ammette di aver fatto parte del gruppo di fuoco che ha ucciso entrambi i fratelli Vaccaro Notte. Dello stesso gruppo faceva parte anche Pietro Mongiovì. Anche lui inizierà a collaborare, ma il 23 aprile 2007 decide di dimettersi da questa vita menzognera. Chiuso in una cella del carcere ‘Due Palazzi’ di Padova, fa un cappio resistente con le lenzuola in dotazione e s’impicca. Angelo, ora, vive in una imprecisata località del Nord. Lavora e dà lavoro. E’ attivissimo sul fronte antimafia. Ha messo su due blog visitatissimi, sicania.spazioblog.it e vaccaronotte.spazioblog.it. Ed ha fatto l’abitudine a non arrendersi. Non perde occasione per insultare i mafiosi. Ironizza ferocemente su di loro, sulla loro supposta ‘mascolinità’. Vengono definiti ‘pulci’, ‘pulci inutili’, ‘pidocchi’, ‘scoglionati’, ‘lampe da 5’ cioè lampadine di pessime qualità e luminosità. E fa presente che tra coloro che hanno beneficiato della protezione degli amici santangelesi vi sono galantuomini come Gerlandino Messina, uno dei più feroci killer agrigentini, e Luigi Putrone, arrestato nel 2003 a Praga e coinvolto nel sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo, undicenne figlio del pentito Santino, strangolato da Giovanni Brusca e sciolto nell’acido.

Ora la sentenza del 21 ottobre, che ha comminato i tre ergastoli, ma ha prosciolto altri due ‘compari’, tra cui Francesco Leto (75 anni, per il quale il PM aveva chiesto 10 anni di carcere), padre dell’attuale sindaco di centro-destra Giuseppe Aurelio Leto. La sentenza non ha, invece, riguardato Giuseppe Vaccaro, la cui posizione è stata stralciata perché collaboratore. Lui, i suoi trent’anni, confermati definitivamente in Cassazione, se li è visti assegnare a parte.

Angelo intanto continua a lottare. Ed a sostenere che la storia, in realtà, non è finita. A suo avviso, tra quanti hanno partecipato agli omicidi dei suoi fratelli, ce ne sono altri che aspettano di essere identificati ed assicurati alla giustizia. E lui non ha intenzione di mollare. L’ha promesso ad Enzo e Salvo. E si sa, come insegna Durenmatt, una promessa è una promessa. Soprattutto quando si è davvero uomini d’onore e non ignobili parassiti.


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