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Contro la guerra / di Alex Langer

Questo testo è stato scritto più di 30 anni fa (1991), da Alexander Langer - ambientalista e pacifista, uno dei riferimenti culturali di Girodivite -, e pubblicato su “Terra Nuova Forum”.

di Redazione Antenati - sabato 26 febbraio 2022 - 2562 letture

Contro la guerra, cambia la vita: come si sa, le guerre scoppiano "a valle", quando tutta una infausta concatenazione di soprusi, violenze e fallimenti si è già prodotta e sembra diventata irrimediabile, i popoli, la gente comune, sono poi chiamati a pagare il conto finale senza essere potuti intervenire sulle singole voci che lo hanno via via allungato. Ma dinanzi al fallimento della politica e delle negoziazione, che sfocia nella guerra, bisognerà pur rafforzare gli "anti-corpo" a disposizione di ogni singola persona per prevenire le guerre e non lasciarsene, comunque, catturare, una volta che sono scoppiate.

Se tutto uno stile di vita (consumi, produzioni: trasporti, energia, banche...) nel quale siamo largamente coinvolti, per potersi perpetuare ha bisogno di condizioni assai ingiuste che regolano le relazioni tra i popoli e con la natura, e contengono dunque delle spinte immanenti alla guerra, bisognerà intervenire "a monte" e mettere in questione la nostra partecipazione (anche individuale) a un "ordine" economico, politico, sociale, ecologico e culturale che rende necessarie le guerre che lo sostengono.

Se il consenso alla guerra (anche sotto forma di nazionalismi, razzismi, pregiudizi, stereotipi, ecc.) può con tanta facilità diventare maggioritario - non certo soltanto tra "fondamentalisti islamici!", - si dovrà intervenire anche qui "a monte" e disintossicando cuori e cervelli.

Se è considerato scontato che, una volta scoppiata la guerra non resta che allinearsi e arruolarsi (materialmente e culturalmente) bisognerà purché qualcuno lavori per suscitare e consolidare scelte di "obiezione alla guerra".

Sono dunque tante le forme di azione che si possono scegliere per "cambiare la vita di fronte alla guerra", nel senso di negarle ogni consenso e sostegno e nel senso di farle mancare - ognuno - almeno un pezzettino di apparente giustificazione.

Più difficile appare oggi la seconda delle linee proposte: sviluppare strumenti "di forza", ma il meno possibile violenti e comunque non bellici. Di fronte all’occupazione violenta del Kuwait da parte dell’Iraq e alla sistematica azione degli USA e di alcuni fra i loro alleati per arrivare comunque alla guerra con l’Iraq e realizzare una globale "resa dei conti" per impedirgli di muovere in futuro, la scelta nonviolenta a molti sembra andata improvvisamente in crisi.

La "guerra giusta" è riapparsa solennemente all’orizzonte - questa volta con tanto di voto a schiacciante maggioranza nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU e quindi con la legalità internazionale assicurata. Non poteva mancare qualche vescovo, qualche moralista e qualche elzevirista a benedire il tutto. L’argomento più forte dei sostenitori della "guerra giusta" (magari ribattezzata "azione di polizia internazionale") è di ordine storico morale: "Se Hitler fosse stato fermato già nel 1934, al momento dell’occupazione della Renania, si poteva forse risparmiare al mondo intero la tragedia del nazismo e della seconda guerra mondiale".

Dove per "fermare Hitler" si dà per scontato che si debba leggere "fare la guerra a Hitler". E dove si dimentica che la coalizione anti-Hitler avrà, sì, battuto l’incubo del totalitarismo nazifascista, ma rifondato anche - su 40 milioni di morti - un ordine internazionale che ha tranquillamente consegnato mezza Europa a un altro totalitarismo e l’intero Sud del pianeta allo sfruttamento e, in molti casi, a vecchi o nuovi colonialismi e totalitarismi.

Se quindi è giusto fare tutto il possibile per fermare aggressioni, ingiustizie e soprusi, a partire dal chiamarli per il loro nome e identificarli come tali, non mi sembra invece nè giusta, nè risolutiva l’idea di farne derivare con una sorta di funesto automatismo la sanzione bellica.

Piuttosto la guerra nel Golfo (che fin d’ora appare - a dispetto di tutte le censure nell’informazione - ben più "sporca" di quanto non sia stata presentata, camuffata in geometrica potenza dell’azione chirurgia elettronica) dimostra che si devono inventare nuovi strumenti alternativi e non-violenti, persuasivi ed efficaci, per ridurre il tasso di violenza nel mondo e per risparmiare bagni di sangue (che si chiamino guerra o repressione, che siano internazionali o interni. Ne provo ad indicare quattro, di cui mi sembra ci sia bisogno (potendoli qui appena accennare naturalmente):

sviluppare l’arma dell’informazione e della disarticolazione della compattezza derivante da repressione, disinformazione, censura; perché non "bombardare" con trasmissioni radio, con volantini, con documentari piuttosto che con armi? ("Radio Free Europa" o "Radio Vaticana") hanno fatto probabilmente di più per la destabilizzazione dei regimi dell’Est che non le divisioni della Nato. Perché non fornire supporti e aiuti ai gruppi impegnati nei diversi regimi totalitari per i diritti umani, piuttosto che fornire armi agli stati che un giorno si spera facciano loro la guerra?

Costruire e moltiplicare gruppi/alleanze/patti/tavoli inter-etnici, interculturali, inter-religiosi di dialogo e di azione comune, piuttosto che dialogare solo da campo a campo o da blocco a blocco; è l’abbattimento dei muri, o perlomeno lo sforzo di renderli penetrabili (vedi l’esperienza inter-etnica dell’"altro Sudtirolo"!). Oggi uno dei "buchi neri" in questa crisi è l’assenza di forti legami interculturali ed inter-etnici tra arabi ed israeliani, tra Europa e mondo arabo, tra Cristianesimo ed Islam; non sono quindi da disprezzare anche modesti strumenti quali i "gemellaggi" tra comuni, regioni, associazioni, ecc., che avvicinano concretamente i popoli e rendono più difficile il consenso a "bombardare l’altro" (che si accetta di bombardare tanto più quanto meno lo si conosce).

Lavorare seriamente per un nuovo diritto internazionale e per un nuovo assetto dell’ONU basato oggi non solo sugli esiti della seconda guerra mondiale (con le sue "Grandi Potenze", i loro diritti di veto, ecc), ma anche su un concetto ed una pratica di "sovranità degli stati" poco consono al destino comune dell’umanità. La tradizionale distinzione tra "affari interni" che esigono la non-ingerenza degli altri (per cui torture e massacri non riguardano la comunità internazionale, finché non scoppia un contenzioso fra almeno due stati) e "internazionali", non regge alla prova delle emergenze ecologiche, ne dei diritti umani.

Chiedere all’ONU di promuovere una sorta di "Fondazione S. Elena" (nome dell’isola in cui alla fine fu esiliato Napoleone, tra gli agi e gli onori, ma reso innocuo), per dare la possibilità ai dittatori ed alle loro insanguinarie corti di servirsi di un’uscita di sicurezza prima che ricorrano al bagno di sangue per tentare di salvarsi la pelle (Siad Barre, Ceausescu, Marcos, Fidel Castro, Hassan II, Saddam Hussein... potrebbero o potevano utilmente beneficiarne piuttosto che giocare il tutto per tutto); la questione di amnistie e indulti per chi è abbastanza lontano e abbastanza vigilato da non poter più fare danni, non dovrebbe essere insolubile.

Ho scelto appena alcuni esempi, tra i molti che si potrebbero fare (pensiamo solo alle diverse possibili articolazioni dell’embargo commerciale, sportivo, scientifico, ecc.), perché sono convinto che oggi il settore "R&S" (ricerca e sviluppo) della non-violenza debba fare grandi passi avanti e non fermarsi solo alle ormai tradizionali risorse della disobbedienza civile. E la spaventosa guerra in corso non deve farci fare tutti quanti un salto indietro, riammettendo la guerra tra i protagonisti della storia e tra gli strumenti - seppur estremi - della convivenza tra i popoli. Con il livello odierno di armamenti, di affollamento demografico del mondo e di precarietà ecologica del pianeta comunque non ci può essere "guerra giusta" se mai ne sono esistite in passato.

Alex Langer


Tratto da Peacelink



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