«Con la mafia si lavora, lo Stato toglie»: così parlò Salvatore
Era la fine dello scorso settembre, quando, imbeccato dalla cronista di “Mattino Cinque News” (Canale5), Salvatore aggiungeva alla prima parte della frase – “con la mafia si lavora” – l’espressione “lo Stato toglie”.
Salvatore è un abitante di Castelvetrano (TP), uno dei concittadini di Matteo Messina Denaro, il boss morto il 25 settembre a L’Aquila e tumulato, poi, nella sua città natale. Salvatore non si sa bene chi sia, cosa faccia, compare con occhiali scuri, un po’ di barba e un cappello con la visiera al contrario, le braccia conserte, una certa pacata e sobria parlata. Compare e risponde alle domande, a tratti imbarazzate, dell’intervistatrice, inquadrata dinanzi al cimitero castelvetranese, che intende capire perché lui abbia portato un fiore sulla tomba del boss.
Perché portare un fiore? Umanità, risponde Salvatore. Che aggiunge, poi, di aver voluto rispettare la volontà e le direttive di Messina Denaro di non avere una cerimonia religiosa: sia chiaro, la volontà del boss, non quella dello Stato, per quanto, in studio, Francesco Vecchi si affretti a precisare che, anche se lo avesse voluto, la cerimonia funebre religiosa non si sarebbe potuta officiare – per via delle direttive del questore di Trapani, n.d.r.
Ma insomma, domanda la cronista per capire il senso del gesto di Salvatore che ripete come un mantra di aver compiuto un atto di umanità, che cosa rappresenta per Castelvetrano e per lei Matteo Messina Denaro? «Ma io penso che rappresenta che… ci sarà molto meno lavoro, tutto qua!». Il conduttore in studio gongola, coglie la notizia, finalmente Salvatore è uscito dalla genericità, dà un significato che piace al giornalista, il boss è da celebrare perché è stato un uomo generoso. E lo è stato tanto più se posto a confronto con la pubblica amministrazione: perché Salvatore si appresta a precisare che le terre sequestrate dallo Stato sono state abbandonate, mentre «quando c’era lui queste olive erano in produzione, adesso nemmeno buone per fare la legna sono più, perché hanno preso pure fuoco. Lo Stato non è capace ad amministrare le proprietà sequestrate alla mafia. (…) Allora cos’è la convenienza? Che li gestisce la mafia o li gestisce lo Stato?».
Già, con logica ferrea, priva di enfasi, Salvatore accoglie il dualismo Stato-mafia, non relega la mafia nella categoria dell’inesistente, non la disconosce affatto, anzi, ne precisa le capacità imprenditoriali, a differenza dell’inefficacia statuale. Il discorso di per sé è interessante soprattutto per questa tranquilla celebrazione della mafia, mica una marca di detersivo, come si disse decenni addietro, mica un’invenzione delle opposizioni per screditare il partito di maggioranza, come si disse decenni addietro, ma un’interlocutrice – un competitor economico dello Stato italiano – con la quale fare i conti in virtù delle sue brillanti doti operative e produttive.
«Quando c’era lui», asserisce Salvatore, condensando nostalgia e rispetto per un uomo che ha saputo dare agli abitanti di Castelvetrano più di quanto abbia loro sottratto lo Stato italiano. Non si sa chi sia Salvatore, lo si è detto, parrebbe un gentile emissario della mafia locale, o un fiancheggiatore, un sodale, un simpatizzante. Certo, non si sarebbe permesso di accettare il piano di gioco dell’intervistatrice che, pur con qualche imbarazzo, porgeva la parola mafia come un dato di fatto, se non avesse almeno una tiepida simpatia per la consorteria criminale locale e, a mio giudizio, il benestare della stessa nel definirla in maniera tanto tranquilla e pubblica.
Giochiamo a carte scoperte, senza ipocrisie oppure omertà, senza «non ho nulla da dire, non so, non ho visto». L’intervista a Salvatore, proprio perché priva di tensioni e impacci, ci cala in un’interessante e nuova dimensione strategica mafiosa, se si considera che l’uomo non stava parlando di una qualche nota azienda privata, ma del crimine organizzato trapanese e l’ha fatto con una certa studiata, finta nonchalance. Lavorando di fantasia, si potrebbe pensare a un calcolo mafioso: mandiamo un ambasciatore, più o meno sicuro di sé, che faccia sapere all’intero Paese che si è stati ligi alla volontà del boss e non a quella del questore, così come che si è riconoscenti allo sforzo di Cosa nostra più che a quello delle istituzioni pubbliche, incapaci e lontane. Salvatore onora meno il boss morto che la consorteria viva, ne certifica l’esistenza lodandola e schiaffeggiando pubblicamente il suo ipotetico avversario, lo Stato italiano.
Il re è morto, viva il re. Salvatore ci ha consegnato un pizzino orale, un messaggio neanche troppo in codice. Non è cascato nel trappolone dell’intervista, quello che vuole portare chissà quale novità o scoop, o, per meglio dire, ha assecondato quell’esigenza per comunicare ciò che gli interessava, per interposta persona, comunicare. Il re è morto, viva il re, non tanto nel senso dell’avvenuta consegna di poteri al successore del criminale Messina Denaro, quanto nella sottolineatura fintamente bonaria dell’utilità socio-economica della mafia per quella zona e della perdurante incapacità dello Stato di indossare i panni del referente unico dei cittadini. Salvatore lo ha detto nel modo più disteso possibile, lasciando solo tra gli spettatori e i suoi occhi un paio d’occhiali scuri.
Ciò che qui interessa sottolineare non è tanto la devozione al boss, di cui la storia è piena di esempi; nel caso dello stesso Messina Denaro, va registrata la presenza, nella cittadina sarda di Orgosolo, di manifesti funebri recanti la scritta: «gli amici di Orgosolo sono profondamente scossi per la tragica scomparsa di Matteo Messina Denaro». Scherzo goliardico o vicinanza reale, chissà?! Ciò che qui interessa è, invece, rimarcare il piano del discorso più in ombra, ma non troppo, il livello secondo del discorso, ben chiaro a chi è abituato al linguaggio ammiccante di quelle zone. La mafia esiste, è viva, capace, pronta a sostenere lo sforzo che le istituzioni non sono in grado di reggere.
Sia chiaro, è tutto da dimostrare che la mafia, nella persona del caporione Messina Denaro, sia stata un’efficace macchina imprenditoriale nella produzione delle olive, per quanto siano due secoli che si occupa del settore agroalimentare e, per conseguenza, una qualche esperienza l’ha pur maturata. Altrettanto chiaro dev’essere un altro aspetto del discorso di Salvatore, ossia l’implicito battesimo a mafioso del boss defunto, il quale ultimo si era ben guardato dal dichiararsi tale, preferendo a quello di mafioso il titolo di “criminale onesto” davanti ai magistrati.
Peraltro, ma il discorso non potrà essere sviluppato per intero in questa sede, le considerazioni di Salvatore meritano un’ulteriore riflessione. «Tremendo, non condivisibile» definisce lo stesso Francesco Vecchi il punto di vista dell’ospite sul dualismo Stato-mafia, con questa superiore a quello. Ma Salvatore, al di là dell’apologia scoperta della criminalità siciliana, sta dicendo qualcosa che data da almeno due secoli. Non importa se stia parlando a titolo personale o per conto terzi, come pare più probabile. Non importa a chi giovi o a cosa serva il suo discorso. Importa che, se fosse stata porta da uno storico di professione, la si sarebbe accolta come una riflessione quasi ordinaria e centrata, plausibile, almeno per ciò che riguarda la lontananza di alcune comunità rispetto alle pubbliche istituzioni. Si scorra un volume ormai datato, “La mafia come metodo”, di Nicola Tranfaglia (Laterza, 1991), e ci si concentri sulla seguente considerazione: le mafie rispondono «alle caratteristiche di una società civile che non è mai stata effettivamente colonizzata e integrata dallo Stato di diritto e che ha dunque, nella genericità dei suoi abitanti, un atteggiamento rispetto alle leggi, e alle regole che esse delineano, di diffidenza e di distacco che è peculiare, almeno in Occidente».
E cosa esprime il nostro Salvatore, se non quel distacco e quella diffidenza? Forse è troppo semplicistico questo richiamo alla latitanza, nella cultura isolana, dell’idea di Stato, e un Salvatore non può rappresentare un’intera comunità. Ma, a giudizio dello scrivente, reale o presunta che sia, quella latitanza marca uno dei discorsi sulla mafia, sulle mafie, caratterizza ancora, come secoli addietro, una certa visione, più che della mafia, dello Stato, il grande assente da tempo. Non è il momento di rievocare complesse architetture storiografiche che sottolineano come la mafia sia stata utilizzata, a lungo, quale instrumentum regni, in un accordo implicito che garantiva ai mafiosi una sostanziale impunità a patto che fossero capaci di chetare i disordini sociali. Allo Stato assenteista, rispondeva un presenzialismo mafioso capace di farsi forma di potere violento e organizzato, a tutti i livelli, in funzione del contenimento della protesta contadina, prima, e comunista, dopo, in funzione del mantenimento di certi assetti sociali e di certi privilegi sociali.
Occorre dire che Salvatore ha ragione su almeno due punti: primo, lo Stato è ancora troppo assente in alcune zone d’Italia e, secondo, la gestione del patrimonio sequestrato alle mafie è effettivamente oggetto di polemiche e perduranti problemi di gestione. Dunque, l’ospite di Canale5 va accolto come uno storiografo o un saggio o un cittadino siciliano indignato? No, direi di no. Va accolto come una voce maliziosa e tattica, che, mentre sdoganava la mafia come realtà imprenditoriale ordinaria e protagonista dell’economia locale, svillaneggiava lo Stato italiano non riconoscendogli né autorità giuridica – nessun richiamo al veto del questore sui funerali religiosi – né efficienza gestionale. Tutto ciò in una trasmissione mattutina, scivolando tra un contenuto e l’altro del palinsesto, tra una notizia di cronaca e un folgorante gossip televisivo.
Con buona pace di tutti, la mafia esiste, in Sicilia o, almeno, a Castelvetrano. A differenza dello Stato. Pure questa è una notizia.
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