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Come raccontare la storia del comunismo ai malati di mente

Dal 13 al 25 aprile sarà in scena al teatro Ambasciatori di Catania lo spettacolo “Come raccontare la storia del comunismo ai malati di mente”, regia di Giampiero Borgia.

di Serena Maiorana - mercoledì 21 aprile 2010 - 5219 letture

Come raccontare la storia del comunismo ai malati di mente? Yuri Petrovski, scrittore russo premiato da Stalin in persona, ha l’incarico di trovare lo stile narrativo più adatto, dato che il direttore dell’ ospedale centrale per le malattie mentali di mosca (personaggio un po’ strambo maniaco di una fraintesa arte terapia) è convinto del potere terapeutico della Grande Storia del Comunismo Sovietico e Yuri è lo scrittore scelto per raccontarla.

Inizia da qui il viaggio, allegorico e paradossale, nel matto mondo del manicomio metafora e pretesto, per mettere in scena e indagare le veramente folli dinamiche che si innescano quando una società s’innamora di un idolo, fino a perdere il senno e trasformarsi nella folla di manzoniana memoria.

“Come raccontare la storia del comunismo ai malati di mente”, pluripremiato e pluritradotto racconto dello scrittore romeno Matei Visniec messo in scena dal teatro Stabile di Catania con la regia di Giampiero Borgia, è un racconto brillante, ironico e spericolato votato più all’analisi poetica delle dinamiche umane che alla denuncia storica e sociale. L’accento del racconto si pone infatti più sui soggetti che sulle questioni, mettendo in scena deliri e paradossi dell’idolatria.

Coerente col tempo della storia la scelta registica di ispirarsi ai modi della tradizione del teatro musicale weimariano trasformando il racconto in uno “spettacolo social comunista musical danzante”, per definizione dello stesso regista, che però pecca di una certa debolezza nell’insieme della messa in scena, che a tratti pare sfilacciarsi e diluirsi, perdendo per strada parte della forza che invece appartiene al testo. In particolare l’uso ripetuto delle belle musiche (di Papaceccio MMC e Francesco “Cespo” Santalucia) e dei begli elementi scenici (i palloncini, la prigione, le camicie di forza delle scene di Giuseppe Andolfo e dei costumi di Giuseppe Avallone) rischiano di annoiare piuttosto che incalzare lo spettatore.

Lo spettacolo comunque vale e lo da a vedere, grazie soprattutto alla credibilità delle atmosfere d’epoca e dei folli paradossi umani di fronte alla resa della ragione.


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