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Ciao Teresa

Teresa Sarti: 28 marzo 1946 - 1 settembre 2009.

di Redazione - mercoledì 2 settembre 2009 - 4613 letture

Il gruppo di amici di Emergency ne ha dato notizia con queste parole:

"Dopo avere insieme condiviso per quindici anni il tempo dell’amicizia, del rispetto per la vita e per la sofferenza di tutti, dopo il lungo tempo di affetto, di speranze, di timore per la sua sorte personale, Emergency annuncia la morte della sua presidente Teresa Sarti Strada.

Con la stessa apertura e con la stessa semplicità che aveva voluto per la vita di Emergency, Teresa ha accettato anche in questi suoi ultimi giorni la vicinanza di tutti coloro che hanno voluto esserle accanto. La serenità consapevole con la quale è andata incontro alla conclusione del suo tempo ha espresso il coraggio e la determinazione che rappresentano la verità della nostra azione in un’attività che ha dato senso alla sua e alla nostra esistenza. La dolcezza del ricordo coincide per noi con il rinnovo dello nostro impegno per la pace e per la solidarietà".

Questo pomeriggio (1 settembre 2009), a Milano, è morta Teresa Sarti Strada, presidente di Emergency. Teresa, malata da due anni, aveva 63 anni ed insieme al marito, Gino, aveva fondato 15 anni fa l’organizzazione che nel mondo si occupa delle vittime di guerra.

Al capezzale, accanto a Teresa c’erano il marito Gino e la figlia Cecilia.

Girodivite si unisce al cordoglio della famiglia ed ad Emergency, le cui attività abbiamo sempre condiviso e (nel nostro piccolo) appoggiato.


Scheda: Emergency

Nei conflitti contemporanei il 90% delle vittime sono civili. Ogni anno la guerra distrugge la vita di milioni di persone nel mondo.

Emergency è un’associazione italiana indipendente e neutrale, nata per offrire assistenza medico-chirurgica gratuita e di elevata qualità alle vittime civili delle guerre, delle mine antiuomo e della povertà.

Emergency è un’associazione umanitaria fondata a Milano nel 1994 per portare aiuto alle vittime civili delle guerre e della povertà.

Dal 1994 a oggi, Emergency è intervenuta in 15 paesi, costruendo ospedali, centri chirurgici, centri di riabilitazione, centri pediatrici, posti di primo soccorso, centri sanitari, un centro di maternità e un centro cardiochirurgico. Su sollecitazione delle autorità locali e di altre organizzazioni, Emergency ha anche contribuito alla ristrutturazione e all’equipaggiamento di strutture sanitarie già esistenti. Dal 1994 a dicembre 2008, i team di Emergency hanno portato aiuto a oltre 3.177.000 persone.

Proprio perché conosce gli effetti della guerra, sin dalla sua costituzione Emergency è impegnata nella promozione di valori di pace.

Nel 1994 Emergency ha intrapreso la campagna che ha portato l’Italia a mettere al bando le mine antiuomo. Nel 2001, poco prima dell’inizio della guerra all’Afganistan, ha chiesto ai cittadini di esprimere il proprio ripudio della guerra con uno "straccio di pace".

Nel settembre 2002, insieme ad altre organizzazioni, ha lanciato la campagna "Fuori l’Italia dalla guerra" perché l’Italia non partecipasse alla guerra contro l’Iraq.

Con la campagna "Fermiamo la guerra, firmiamo la pace" Emergency ha promosso una raccolta di firme per la legge di iniziativa popolare "Norme per l’attuazione del principio del ripudio della guerra sancito dall’articolo 11 della Costituzione e dallo statuto dell’Onu", depositata alla Camera dei deputati nel giugno 2003.

Nel 2008, insieme ad alcuni paesi africani, Emergency ha elaborato il Manifesto per una medicina basata sui diritti umani per rivendicare una sanità basata sull’equità, sulla qualità e sulla responsabilità sociale.

Emergency è stata giuridicamente riconosciuta Onlus nel 1998 e Ong nel 1999.

Per sostenere gli obiettivi di Emergency su una più ampia scala internazionale, nel 2005 negli Stati Uniti si sono costituiti alcuni gruppi di volontari e nel 2007 si è costituita Emergency UK.

Dal 2006 Emergency è riconosciuta come Ong partner delle Nazioni Unite - Dipartimento della Pubblica Informazione.

Fonte: sito di Emergency

Altre informazioni: la voce Emergency su Wikipedia


Scheda: Gino Strada

Luigi Strada detto Gino (Sesto San Giovanni, 21 aprile 1948) è un chirurgo e scrittore italiano oltre che uno dei fondatori dell’ONG Emergency.

Laureatosi all’Università Statale di Milano in medicina nel 1978 e successivamente specializzato in chirurgia d’urgenza, durante gli anni della contestazione fu uno degli attivisti del Movimento Studentesco, anche come responsabile nel gruppo di servizio d’ordine della facoltà di Medicina.

Dopo aver fatto pratica nel campo del trapianto di cuore fino al 1988, si è indirizzato verso la chirurgia traumatologica e la cura delle vittime di guerra. Nel periodo 1989-1994 ha lavorato con il Comitato Internazionale della Croce Rossa in varie zone di conflitto in Pakistan, Etiopia, Perù, Afghanistan, Somalia e Bosnia-Erzegovina. Questa esperienza sul campo ha motivato Strada ed un gruppo di colleghi a fondare Emergency, un’associazione umanitaria internazionale per la riabilitazione delle vittime della guerra e delle mine antiuomo, che dalla sua fondazione nel 1994 alla fine del 2006 ha assistito più di 2.500.000 pazienti.

Nel marzo 2007, durante il sequestro in Afghanistan del giornalista de La Repubblica, Daniele Mastrogiacomo, ha assunto una posizione di rilievo nelle trattative per la sua liberazione.

In Italia, Gino Strada ha spesso assunto posizioni critiche nei confronti dei governi guidati da Romano Prodi e da Silvio Berlusconi, entrambi accusati di avere portato l’Italia a partecipare a guerre.

La maggior parte delle lamentele sono relative al supporto italiano all’intervento NATO in Afghanistan contro il precedente governo talebano. Questo supporto è percepito da Gino Strada e dalla sua organizzazione come un atto di guerra contro la popolazione afghana, in aperta violazione della Costituzione della Repubblica italiana:

« L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. » (Art. 11, Costituzione della Repubblica italiana)

Dall’altra parte, alcuni considerano la posizione di Gino Strada come un mero esempio di pacifismo radicale e utopico. A questo proposito, Strada stesso ha dichiarato:

« Io non sono pacifista. Io sono contro la guerra. » (Gino Strada, Intervista a Che tempo che fa)

Fonte: Gino Strada su Wikipedia.


Documenti: Una Intervista a Teresa Sarti Strada, Presidente di Emergency. A cura di Grazia Casagrande, 27 marzo 2008. Dal sito Wuz.

Dalle parole di Teresa Sarti Strada possiamo capire meglio la situazione odierna di un paese martoriato dalle guerre. La presenza fondamentale di Emergency è riuscita in questi anni a salvare molte vite umane e ad accogliere, qualsiasi fossero l’etnia e le scelte politiche o religiose, chi era stato colpito dalle mine o ferito negli innumerevoli e quotidiani scontri a fuoco.

Da quanti anni Emergency è impegnata in Afghanistan?

Emergency ha iniziato a lavorare in Afganistan nel 1999, durante la guerra civile che opponeva mujaheddin e taleban. Il primo centro chirurgico di Emergency è stato costruito nella valle del Panshir, la zona allora controllata dal comandante Massoud, che ci ha messo a disposizione una vecchia caserma della polizia nel villaggio di Anabah. Una caserma trasformata in ospedale: un buon inizio, anche da un punto di vista culturale.

Quali sono stati i risultati della vostra presenza?

Dal 1999, il programma di Emergency in Afganistan non ha smesso di crescere. I centri chirurgici oggi sono tre: oltre a quello di Anabah, nel 2001 abbiamo aperto un ospedale nella capitale Kabul, e dal 2004 è attivo anche il terzo centro, a Lashkargah, nel sud del paese, in quello che è diventato – negli ultimi due anni – l’epicentro del conflitto afgano. Nel nord è attivo anche un centro di maternità, dove sono nati quasi quattromila bambini, e poi abbiamo una rete di 28 posti di primo soccorso e centri sanitari dislocati nelle aree più remote, dove ogni mese curiamo decine di migliaia di persone. Negli ultimi nove anni abbiamo curato quasi un milione e mezzo di cittadini afgani. E, nei nostri ospedali, un paziente su quattro ha meno di quattordici anni.

Come vedete oggi la situazione?

Drammatica. Nel sud la guerra non conosce sosta, i nostri centri chirurgici sono pieni di feriti: sparatorie e attentati taleban, ma anche tante, tantissime vittime dei bombardamenti della Nato, che non fanno distinzione tra nemici e semplici civili. La scorsa settimana all’ospedale di Lashkar-gah sono arrivati in undici, fra donne e bambini, sfigurati dalle ustioni: vittime di un bombardamento Nato nel villaggio di Yakhdan. Qualche giorno prima invece abbiamo ricoverato una ragazza, Halima: un elicottero ha aperto il fuoco contro la sua casa. Lei è rimasta senza una gamba. E senza parenti: era una famiglia di quindici persone, lei è l’unica sopravvissuta. Il popolo afgano è stretto in una morsa: da una parte i taleban, dall’altra le bombe occidentali. E non se ne vede la fine.

Vedete una via d’uscita dalla tragedia quotidiana?

Fintanto che si cercherà di combattere la violenza con la violenza, non ci sarà una via d’uscita, ma solo morte e distruzione. E la gente dell’Afganistan ne ha vista fin troppa.

Chi è più colpito da questa guerra?

I civili. Tutti quelli che non possono scappare, perché non hanno nessun posto dove andare: povera gente, che vive in case di paglia e fango, e che rischia la vita ogni giorno. Pensate a come dev’essere la giornata di un afgano: cercare di coltivare il campo o pascolare le bestie, per riuscire a dare da mangiare alla famiglia, senza saltare su una dei milioni di mine che ancora infestano il paese, eredità della guerra contro i sovietici. Comprare qualcosa al mercato senza rimanere ucciso da una pallottola o un attentato taleban. Passare la notte senza che la tua casa sia distrutta da un raid aereo della Nato. E ci sono milioni di persone in questa situazione.

Come è possibile aiutare l’attività di Emergency in Afghanistan?

Si può adottare un ospedale, ad esempio: chi sceglie di fare una donazione per un progetto specifico poi riceverà periodicamente una rendicontazione dettagliata di come sono stati spesi i suoi soldi, e tutti gli aggiornamenti sul programma che si è deciso di aiutare. A chi convidide i nostri valori e obiettivi – fornire cure mediche di alta qualità e gratuite, senza distinzioni politiche, etniche o religiose – chiediamo di aiutarci in modo continuativo, magari con lo strumento del Rid: una piccola donazione mensile, fatta direttamente dalla banca, che ci permette di pianificare meglio le nostre attività, conoscendo le risorse su cui possiamo contare. Per continuare a fare quello che facciamo dal 1999: aiutare chiunque ne abbia bisogno.


Documenti: CATI SCHINTU INTERVISTA TERESA SARTI. Da "Donne in viaggio" (sito: www.donneinviaggio.it), ottobre 2006.

Teresa Sarti e’ presidente di Emergency, l’organizzazione umanitaria che porta assistenza medico-chirurgica alle vittime dei conflitti armati e che promuove una cultura di pace e di solidarieta’. Oltre alla chirurgia di guerra, l’attivita’ di Emergency si e’ estesa all’assistenza sanitaria di base e all’attenzione ai bisogni sociali delle popolazioni che vivono in situazioni di poverta’ e di abbandono. Teresa Sarti e’ moglie di Gino Strada, medico chirurgo, fondatore di Emergency.

- Cati Schintu: Chi e’ Teresa Sarti prima di Emergency?

- Teresa Sarti: Io insegnavo in un liceo milanese, insegnavo e allevavo una figlia. Mi verrebbe da dire quasi da sola perche’ da quando Cecilia aveva 9 anni Gino ha cominciato ad essere in giro per il mondo con la sua attivita’ di chirurgo di guerra, anche se con noi e’ sempre stato molto presente. Da questi lunghi periodi di assenza Gino ci portava le storie di guerra, una realta’ che non conoscevamo, in cui a finire in ospedale nove volte su dieci sono civili, tre volte su dieci sono bambini e ragazzini. Il contatto con queste realta’ era allora soprattutto un momento di crescita e maturazione personale, privata, che ci serviva anche a capire il senso della lontananza, noi qui, lui la’. Non e’ stato facile.

- Cati Schintu: Quali sono state le ragioni del tuo impegno in Emergency?

- Teresa Sarti: Quando, alla fine del 1993, intorno al tavolo di cucina con 4 o 5 amici, Gino ci ha proposto di creare un’organizzazione umanitaria, piccola, agile e indipendente, per curare le vittime civili delle guerre, io non l’ho inizialmente preso sul serio, mi sembrava una follia, non sapevamo bene da che parte cominciare. Ma lui e’ molto cocciuto e dopo tante insistenze, agli inizi del ’94, abbiamo coinvolto gli amici, e il 15 maggio del ’94, dopo aver raccolto 15 milioni e mezzo di lire, il capitale iniziale, abbiamo costituito Emergency. Il mio impegno nasce con Emergency, di cui sono diventata presidente un po’ per caso. Nel tempo credo di aver meritato l’onore e l’onere di questa carica, per cui lavoro a tempo pieno, molto spesso anche di sabato e domenica.

- Cati Schintu: Che significato ha avuto per te crescere con Emergency, con un impegno che e’ arrivato ad occupare tutti gli spazi della tua giornata?

- Teresa Sarti: Intanto ho potuto conoscere un mondo straordinario, che e’ il mondo della solidarieta’ in Italia, forte e vitale nonostante tutto, nonostante gli scandali, gli sprechi. E’ sorprendente la risposta delle persone alla richiesta di solidarieta’. Noi informiamo sulla realta’ delle popolazioni che subiscono conflitti armati, proponiamo soluzioni anche se piccole per aiutarle. E mostriamo, soprattutto, che lavoriamo con professionalita’ e trasparenza: allora non c’e’ neanche bisogno di domandare, la gente vuole fare la propria parte, per quel che puo’. Emergency e’ anche una grande famiglia allargata, quasi cinquemila volontari davvero fantastici. Tutti i chirurghi di Emergency che si trovano a operare in zone di guerra sanno di poter lavorare grazie all’attivita’ di informazione e di raccolta fondi dei volontari. Un’altra ragione di crescita e arricchimento per me e’ la constatazione di quel che Emergency e’ riuscita e riesce a fare. Quando sono troppo stanca e preoccupata, qualche volta depressa perche’ le difficolta’ sono sempre tante, io ripenso a visi e storie che sono diventate per me simboliche. Ad esempio, penso a quando nel ’97 abbiamo ricevuto dai nostri infermieri kurdi nell’ospedale di Sulaimaniya, nel nord Iraq, delle immagini filmate che ritraggono Soran, il nostro ragazzino di 12 anni a cui era stata amputata la gamba destra, maciullata da una mina antiuomo, che infila la protesi e corre per il corridoio dell’ospedale. Ecco, tutte le volte che ne parlo, e ne ho parlato moltissime volte, ho sempre quasi la stessa emozione. Valeva la pena di creare Emergency anche solo per quella corsa di Soran e degli altri ragazzi nel corridoio dell’ospedale che escono nel cortile a giocare al pallone. Cosi’ come ho presente il viso di tanti altri che grazie all’intervento di Emergency hanno ripreso a vivere. Sono queste le cose da cui ricavo un grandissimo arricchimento personale e che mi danno il senso della giustezza della mia scelta. Adesso non e’ piu’ che Gino e’ la’ e io sono qui, facciamo tutti la stessa cosa, con altrettanta passione e impegno.

- Cati Schintu: Dall’osservatorio di Emergency, com’e’ cambiato il tuo sguardo sul mondo?

- Teresa Sarti: Be’, ad esempio, adesso mi arrabbio moltissimo quando vedo i telegiornali, sembra che siamo chiusi in un cortile senza finestre e guardiamo appena a quello che si svolge nel resto del mondo. A volte mi chiedo come sia possibile dare tanto rilievo, non so, alla dieta mediterranea perche’ siamo nel periodo delle vacanze estive o allo scandalo di turno, ignorando quel che di grave sta avvenendo. Mi rendo conto che non si puo’ fare del moralismo rispetto al fatto che c’e’ sempre qualcosa di piu’ grave, ciascuno ha diritto al proprio osservatorio privato, pero’ davvero e’ fuorviante e limitante questo sguardo attento solo a quel che ci accade nel cortile di casa. E poi c’e’ il modo di intendere la solidarieta’. Io ho ricevuto un’educazione cattolica e sono sempre stata convinta che l’attenzione verso l’altro sia un valore, qui a Emergency pero’ mi sono resa conto che non basta voler essere utili, bisogna anche sapere essere utili. In tutti i nostri interventi la professionalita’ e’ un aspetto fondamentale, anche rispetto alla passione. Se ci fosse piu’ attenzione alla solidarieta’, gestita in maniera professionale, senza sprechi e con onesta’, se ognuno facesse il suo pezzettino, per quello che puo’, che sia un aiuto economico o mettendo a disposizione il proprio tempo e la propria competenza, davvero io credo che questo cambierebbe il mondo.

- Cati Schintu: Nella tua esperienza, hai mai avuto la percezione che esista una modalita’ diversa tra uomini e donne nel prestare la solidarieta’?

- Teresa Sarti: Io credo di no. Lo vedo ad esempio dalla composizione dei volontari di Emergency, che e’ trasversale al genere, all’eta’, alla provenienza culturale e politica e alla appartenenza sociale. Soprattutto ho osservato l’atteggiamento di medici e infermieri nei nostri ospedali. Siamo abituati a pensare che le donne sappiano esprimere meglio la commozione perche’ gli uomini se ne vergognano, invece tante volte l’ho vista sui visi dei nostri chirurghi. Anche nel modo di accudire, o semplicemente con una carezza al bambino appena operato, davvero io non ho mai notato in questo una differenza di genere. Invece, proprio io che sono una donna, all’inizio ho dato giudizi diversi rispetto a chi decide di partire per molti mesi nelle nostre missioni, ho avuto la tentazione di giudicare diversamente a seconda che la scelta fosse stata fatta da un uomo piuttosto che da una donna. Ti spiego: io non ho mai considerato Gino un incosciente perche’ aveva lasciato moglie e figlia per portare assistenza alle vittime di guerra, l’ho sempre ritenuta una scelta difficile ma compatibile con la famiglia. Pero’ la prima volta che ho incontrato all’aeroporto un’infermiera che era stata via sei mesi e ho notato che c’erano ad aspettarla i suoi due figli e il marito, mi sono sorpresa a chiedermi mentre la osservavo che tipo di persona fosse una donna che lascia la famiglia per tanto tempo. Anziche’ dare per scontato che anche una donna ha il diritto di fare una scelta del genere, mi sono ritrovata a giudicarla per questo. Con l’attivita’ di Emergency ho capito che questo era solo un pregiudizio, quando si selezionano volontari per le missioni all’estero e’ giusto che la possibilita’ di partire e gestire una situazione professionale e familiare sia data indipendentemente dal genere. E l’impatto emotivo e’ poi forte per tutti, non c’e’ differenza, un’esperienza cosi’ cambia la vita e il modo di guardare alla realta’, anche quando si ritorna a casa.

- Cati Schintu: Per le donne Emergency ha curato dei progetti. Vuoi illustrarceli?

- Teresa Sarti: Prima di tutto vorrei partire da una considerazione piu’ generale. Emergency da subito ha posto grande attenzione alle donne, dando loro priorita’ nell’assunzione del personale locale per i nostri ospedali. Dare lavoro alle donne irachene, afgane, cambogiane, sudanesi ha voluto dire insegnare loro l’importanza della professionalita’ come patrimonio che poi resta. Nei criteri di selezione del personale, a pari capacita’, noi tendiamo a scegliere donne e prevalentemente donne che sono di sostegno a bambini, anziani, handicappati. E’ un criterio che utilizziamo abitualmente. Ad esempio, in Afghanistan per cercare personale abbiamo fatto circolare nei villaggi dei volantini ma le donne non si proponevano. Poi, quando e’ cresciuta la fiducia nei nostri confronti, a poco a poco si sono avvicinate e noi abbiamo fatto il possibile per assumerle. Il che ci ha creato molti problemi con i talebani. A Kabul, i talebani avevano firmato con noi un protocollo di intesa in cui, al quinto punto, accettavano che nell’ospedale di Emergency le donne potessero lavorare ed essere curate. Nonostante l’accordo, il 17 di maggio del 2001 gli uomini del mullah Omar sono entrati nel nostro ospedale, hanno picchiato il personale, col pretesto che le donne mangiavano nello stesso luogo dei maschi, pur separati da una tenda, e prendevano il cibo dai cuochi, anche loro maschi. Allora abbiamo chiuso il nostro ospedale perche’ non potevamo accettare questa discriminazione rispetto alle donne. Poi con le vicende della guerra abbiamo riaperto. Questa e’ la nostra pratica, in tutti gli ospedali. Non solo, cerchiamo di affidare alle donne funzioni direttive, laddove e’ possibile, e questo ha conseguenze positive in paesi prevalentemente islamici, dove la donna ha un ruolo forte nella famiglia ma nullo fuori, lo riteniamo un messaggio culturale importante.

- Cati Schintu: Uno dei progetti di Emergency per le donne e’ la mostra "Prima le donne e i bambini" in cui molte bellissime fotografie raccontano di come la guerra, ogni guerra, colpisca soprattutto loro. Il ricorso massiccio allo stupro o l’uso di bambini soldato ci dice di una differenza di genere fra le vittime civili delle guerre. La mostra nasce da questa riflessione?
- Teresa Sarti: Le donne non prendono parte alle guerre ma sono quelle che ne patiscono particolarmente le conseguenze. La donna, nei paesi in guerra, e’ quella che mette al mondo dei figli sapendo che in qualsiasi momento possono saltare su una mina, che possono diventare loro stessi portatori di morte. E’ su di lei che ricade maggiormente il peso dei conflitti, sostiene economicamente la famiglia perche’ gli uomini sono in guerra o perche’ l’uomo e’ stato ucciso, lo stesso le accade con i figli. La guerra toglie di mezzo le strutture sanitarie, e una conseguenza diretta e’ l’aumento della mortalita’ prenatale. Queste donne non hanno mai visto un medico, hanno gravidanze numerosissime, a rischio, ma non hanno strutture sanitarie che le possano accudire. E’ anche per questo motivo che Emergency ha deciso di aprire un centro per la maternita’, ad Anabah, in Afghanistan, proprio sulla base del bisogno: questo paese ha uno dei tassi di mortalita’ materno-infantile piu’ alti al mondo. All’inizio mi chiedevo se le donne sarebbero venute all’ospedale, l’ospedale di un’organizzazione straniera, per quanto molto nota e stimata; mi chiedevo se i loro uomini avrebbero accettato che venissero curate. Poi a poco a poco il centro ha ospitato un numero sempre maggiore di donne, di recente sono nati diversi bambini. Lo considero una sorta di risarcimento nei confronti delle donne afgane. Per raggiungere le donne che vivono nei villaggi piu’ lontani abbiamo poi creato una rete di centri sanitari di assistenza di base. Inoltre, per offrire assistenza anche alle numerose donne che partoriscono in casa, negli ultimi mesi del 2005 e’ stato avviato un programma di educazione al parto e sono stati distribuiti kit sanitari di base per migliorare le condizioni igieniche e prevenire le infezioni. Un aspetto positivo e’ che adesso le donne afgane vengono da noi anche a chiedere il contraccettivo e vengono accompagnate dai loro uomini.

- Cati Schintu: Questo dice anche del tipo di impegno di Emergency, del rapporto di fiducia che si crea?

- Teresa Sarti: Adesso non siamo piu’ visti come un’organizzazione straniera, facciamo parte della comunita’, soprattutto la’ dove siamo da piu’ tempo. Un esempio sono i risultati che abbiamo ottenuto finora in Afghanistan col progetto Carpet Factory, un laboratorio artigianale di tappeti rivolto inizialmente alle vedove di guerra, poi esteso anche ad altre donne in gravi difficolta’. E’ un progetto che abbiamo avviato dopo aver constatato che la condizione delle vedove e’ tra le peggiori, sia dal punto di vista sanitario che dell’integrazione sociale. Affinche’ le donne potessero essere libere di lavorare abbiamo prima di tutto cercato il consenso della loro comunita’.

- Cati Schintu: Nello scenario delle organizzazioni umanitarie, Emergency ha una modalita’ nuova e diversa di portare soccorso alle persone. Ad esempio, nel progetto Carpet Factory la donna e’ al centro dell’attivita’ ma come parte di un tessuto sociale complesso, mentre invece spesso i progetti umanitari sono concepiti per settori, un po’ come se dividessero in compartimenti stagni le aree di intervento e raramente si crea un rapporto vero con le persone.

- Teresa Sarti: La nostra concezione di intervento cerca di essere il piu’ possibile lontana da un atteggiamento "colonialista". Per quel che riguarda Carpet Factory non solo abbiamo coinvolto la comunita’, ma abbiamo anche cercato di rispettarne la cultura, solo cosi’ i progetti vanno avanti. Un esempio banale: inizialmente il laboratorio era in un edificio costruito apposta perche’ le donne potessero avere un luogo di lavoro comune fuori casa, in cui le sei maestre avrebbero potuto insegnare il disegno tradizionale del tappeto. In questi ultimi anni i tappeti afgani raffiguravano disegni di elicotteri o di carri armati, o la faccia di Massud. Noi abbiamo inteso recuperare l’uso del disegno tradizionale afgano, e abbiamo fatto in modo che le donne venissero a lavorare tutte insieme. Questo inizialmente andava bene, poi e’ iniziato l’attacco durissimo del mullah, l’autorita’ religiosa in Afghanistan, che regolarmente ogni venerdi’ nel suo discorso attaccava le donne che andavano a lavorare fuori casa e Emergency. Allora, c’erano due possibilita’: o soccombere a questo attacco pesante, molte donne avevano dovuto lasciare il lavoro obbligate dai loro uomini, o trovare una soluzione. Allora abbiamo spostato il laboratorio all’interno della struttura dell’ospedale di Emergency con, ahime’, un ingresso riservato solo alle donne. Anche grazie alla mediazione degli anziani del villaggio, il mullah ha smesso di farci la guerra e le donne hanno ripreso a lavorare piu’ serenamente. A me sembra un’assurdita’, per la nostra cultura e’ un’assurdita’, pero’ bisognava trovare un compromesso.

- Cati Schintu: La guerra in Afghanistan e’ stata propagandata dai media occidentali come modo di liberare la donna dall’oppressione dei talebani, simbolicamente rappresentata dal burka. Per te che hai una conoscenza piu’ interna della situazione afgana, e’ davvero cambiata la condizione delle donne?

- Teresa Sarti: All’interno degli ospedali di Emergency, le infermiere, le addette alle pulizie ma anche le visitatrici non potevano portare il burka, neanche nel periodo talebano. Questo per motivi igienici e di sicurezza, perche’ sotto il burka si puo’ portare qualsiasi cosa. All’ingresso depositano il burka e gli diamo il velo. Pero’ le nostre infermiere immediatamente dopo, quando escono per andare a casa, indossano il burka. E’ il loro costume tradizionale, non vedo perche’ ci si debba indignare se lo indossano. Nel marzo 2002, mentre presentavo un libro con Tiziano Terzani a Bologna, commentando i giornali ancora pieni di questa fola che le donne afgane s’erano tolte il burka, ho detto: "Saranno fatti loro se lo indossano o no" e ho ancora il ricordo commovente di Tiziano che si e’ alzato in piedi in tutta la sua altezza, vestito di bianco, e si e’ messo ad applaudire assentendo: "Finalmente sento una donna dire questa cosa. Mia mamma, che abitava in Toscana, neanche sotto tortura si sarebbe messa i pantaloni, e allora non si capisce perche’ ci dobbiamo scandalizzare per il fatto che le donne afgane scelgono di indossare il burka". E sottolineo che si tratta di scelta, perche’ ad esempio nel Panshir dove non c’erano i talebani le donne non avevano nessun obbligo di indossare il burka, eppure lo indossavano. Quando siamo andati per la prima volta in Afghanistan, nel ’99, la prima persona che ci ha dato una mano per trovare il luogo in cui costruire l’ospedale e’ stato il comandante Massud. Gino ha ragionato con lui sulla liberta’ delle donne, Massud si diceva convinto che le donne si sarebbero liberate grazie all’istruzione e al lavoro, una considerazione che non ci aspettavamo da un "signore della guerra". Lui non ha fatto in tempo ad assistere al bombardamento "per liberare le donne", e’ stato ucciso qualche giorno prima. Ma e’ chiaro a tutti che la liberazione della donna puo’ arrivare solo nel rispetto e all’interno della loro cultura.

- Cati Schintu: In questa direzione, un progetto come Carpet Factory ha cambiato concretamente la vita delle donne?

- Teresa Sarti: L’esperienza del laboratorio tessile e’ stata strutturata in modo da offrire alle donne la possibilita’ di lavorare insieme e fuori casa. Le donne che lavorano conquistano un ruolo diverso all’interno della comunita’. Discutono liberamente dei problemi che incontrano nel lavoro, cercano soluzioni comuni, e soprattutto esprimono la loro opinione senza piu’ timore. Hanno acquisito maggiore sicurezza di se’ e maggiore senso di responsabilita’, cosa che ci fa sperare di potere un giorno passare la gestione del laboratorio interamente nelle loro mani.

Cati Schintu, intellettuale femminista e libertaria, scrive su "Donne in viaggio", e’ webmaster del sito di "A. Rivista anarchica".

Fonte: Voci e volti della nonviolenza n. 42


L’ultimo saluto di Vauro


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