Sei all'interno di >> :.: Primo Piano | Attualità e società |

Carceri. La pietà è morta mentre continuano i suicidi

Un suicidio ogni cinque giorni. Poteri speciali al direttore del Dap che diventa il Bertolaso delle carceri. Rispuntano le carceri galleggianti che ci costeranno 90 milioni di euro.

di Adriano Todaro - mercoledì 10 marzo 2010 - 3369 letture

Sono 13. Sino a questo momento tredici persone, dall’inizio dell’anno si sono ammazzate in carcere. Se lo scorso anno erano stati 72, quest’anno siamo sulla buona strada per superare questa terribile cifra. Tredici persone che non ci sono più, tredici persone che erano stati affidati allo Stato, che erano stati messi in galera per “pagare il loro debito con la giustizia” e hanno pagato il loro debito con la vita. Tredici vite recise dall’indifferenza, dall’ignavia, dall’affollamento delle carceri, dal menefreghismo delle autorità, dai tagli ai fondi per le carceri.

I primi dodici si sono ammazzati nei primi 59 giorni dell’anno che significa un morto ogni cinque giorni. L’ultimo, in ordine di tempo, il 4 marzo scorso nel carcere di Livorno.

Sono tanti, tantissimi. Eppure queste morti sono confinati, quando va bene, nelle pagine interne dei giornali ad una o due colonne. E’ un rimosso generale e d’altronde se erano in carcere erano delinquenti ed allora… Meglio occupare paginate intere sulle imprese canore di Filiberto o spiegare, nei minimi particolari, che Silvio ha acquistato o vuole acquistate il “lettone” di Napoleone. Eppure, a ben vedere, dovrebbe interessare molto a noi tutti perché se è vero che il tasso di democrazia si vede anche da come funzionano le carceri, ebbene allora significa che siamo messi proprio male.

Forse sbaglio a scrivere che i giornali non si interessano delle morti in carcere. Quando, poco tempo fa, un detenuto cubano, dopo uno sciopero della fame di 87 giorni, è morto, i giornali si sono interessati, giustamente e ampiamente, della vicenda. La vicenda cubana è stata stigmatizzata. Il potere criticato, si è parlato di mancanza di democrazia ed altro ancora. Tutte cose giuste, sacrosante.

E in Italia? Nulla, meglio tacere. Lasciamo parlare di queste cose gli “specializzati” che tanto nessuno se li fila. Lasciamo protestare i quattro gatti radicali, i visionari di “Antigone”, quelli del giornale Ristretti Orizzonti. Qualche protesta ogni tanto non fa male. Qualche comunicato furente di “Radiocarcere”, delle associazioni “Detenuto ignoto” e “A buon diritto”. Poi tutto torna nel dimenticatoio. Riprendiamo a parlare di Murinho e delle cazzate dell’ultimo leghista. In realtà parliamo anche di cose serie, dall’inquinamento del Lambro all’ultimo scandalo economico. Lo facciamo, però, con rassegnazione, assuefazione, come se fosse inevitabile tutto questo. Ci rubano, continuamente, miliardi e non diciamo nulla, ma se uno straniero viene sorpreso a pisciare in un angolo del nostro quartiere è rivoluzione: si scende in piazza, si grida inneggiando alle nostre cristiane radici, che non ne possiamo più di zingari e negri, culattoni e fannulloni che dovrebbero stare tutti in galera, precisando, però, che non siamo razzisti.

Ormai nelle carceri italiane si viaggia verso 70 mila detenuti (sono esattamente 66.574). Le celle ne possono contenere 43.220 e allora ci si stringe e in celle di 6 metri quadri ce ne mettiamo 3/4, in quelle da 12 metri quadri ci ficchiamo 10 detenuti. Difficile la convivenza? E cosa vogliono la suite dell’hotel? La Convenzione dei Diritti dell’Uomo recita, all’articolo 3, che ogni detenuto deve avere a disposizione 3,5 metri quadri di spazio per poter vivere con dignità e passare fuori dalla cella almeno 6 ore al giorno. In certe carceri italiane, invece, la maggior parte del tempo la si passa “in branda” perché non c’è neppure lo spazio fisico per stare tutti assieme in piedi mentre le ore d’aria si riducono sempre più e in alcuni istituti bisogna fare i turni per poter passeggiare nei cortili. Passeggiare però non basta. Per recuperare un detenuto è necessario mettere in campo tutta una serie di attività che in Italia esistono solo in pochissimi istituti, particolarmente a Bollate (Milano). Negli altri è il deserto: mancano 6.261 agenti penitenziari e 402 educatori. C’è un solo psicologo, per poche ore la settimana, ogni 187 detenuti. Le carceri sono pieni di detenuti in attesa di giudizio (sono il 50%). Il 30% di loro, al giudizio, sarà riconosciuto innocente e liberato.

Numeri e ancora numeri. Sono aridi i numeri, lo so. Eppure danno il senso delle cose compiute, fanno pensare o, almeno, dovrebbero. E allora per completare le cifre ne facciamo altre: su 66.574 detenuti gli stranieri sono 24.152 di cui 8.441 europei, 11.986 africani, 1.109 asiatici e 1.301 americani. In Italia, nelle carceri, ci si ammazza tre volte di più che negli Stati Uniti.

Pierpaolo Ciullo, 39 anni; Celeste Frau, 62 anni; Antonio Tammaro, 28 anni; Giacomo Attolini, 49 anni; Abellativ Sirage Eddine, 27 anni; Mohammed Ed Abbouby, 25 anni; Ivano Volpi, 29 anni; Detenuto tunisino, 26 anni; Vincenzo Balsamo, 40 anni; Aloui Walid, 28 anni; Rocco Nania, 42 anni; Roberto Giuliani, 47 anni, Snoussi Habib, 30 anni. Sono questi i nomi (quando si sanno) dei suicidati. Sette di loro avevano meno di 30 anni. Erano tutti in carcere per reati non gravi, alcuni appena arrestati, altri prossimi alla scarcerazione; solo tre avevano lunghe detenzioni, 8 erano italiani, 5 stranieri.

Al di là, però, delle statistiche, ognuno di loro era una persona che aveva il diritto di vivere. Con loro muore la speranza di recupero, la possibilità di dimostrare di essere uno Stato giustamente inflessibile nei confronti di coloro che fanno del male, ma nello stesso tempo così forte da permettersi di salvaguardare la loro integrità fisica e psichica. Quando la commissione parlamentare chiama il capo del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), Franco Ionta, per capire il perché dei 72 suicidi del 2009, si sente rispondere che sì è vero che nel 2009 ci sono stati 72 suicidi, ma che in realtà, per essere precisi, è necessario dire che sono stati 58 perché gli altri 14 sono morti all’ospedale. Sì perché la burocrazia è precisa all’eccesso: se uno s’impicca in cella e non muore subito, ma muore sull’autoambulanza mentre lo trasportano in ospedale o in ospedale l’indomani, per il ministero questa morte non è da ascrivere a suicidio in carcere. Un bizantinismo che non sposta per nulla il problema. Un commissario leghista ha anche aggiunto che si sono ammazzati a causa del “rimorso per il male fatto”.

Se fosse così semplice, se esistesse questo rimorso, allora come si spiega che al governo non si è ancora suicidato nessuno? La realtà è che molti detenuti dovrebbero essere non in carcere ma agli arresti domiciliari o in altre strutture che possano superare il carcere. La realtà è che in 10 in una cella non si fa nulla, se non far aumentare violenza e cattiveria. La realtà è che i più fragili se non hanno un referente con cui aprirsi, se mancano educatori, psicologi, assistenti sociali perdono la speranza, la possibilità di uscire dal tunnel carcerario.

Franco Ionta sta diventando come San Bertolaso, l’uomo della “emergenza carceraria”. Non è solo il capo del Dap, ma anche capo della Polizia penitenziaria e Commissario straordinario. E tanto per essere venali, oltre al suo giusto stipendio al Dap, Franco Ionta ha alcune indennità, le stesse che spettano al capo della Polizia, al comandante generale dei Carabinieri, al comandante generale della Guardia di Finanza. E per non farsi mancare nulla è anche membro effettivo del Comitato nazionale per l’Ordine e la Sicurezza. Franco Ionta avrà un potere enorme non solo su decidere come e dove costruire nuove carceri, ma anche in tutti i settori del carcere come quello, ad esempio, di secretare gli appalti per vitto e sopravvitto. Per fornire, in pratica, gli alimenti per i detenuti, il Commissario straordinario non farà più bandi pubblici, ma deciderà lui questa o quella ditta che fornirà alle carceri le derrate alimentari. Per quanto riguarda più precisamente il fantomatico “Piano carceri”, si prevedono 20 mila nuovi posti e Ionta avrà la possibilità di decidere senza nessun controllo perché siamo in “emergenza”.

In realtà è tutto un bluff. Lo sa anche Ionta e lo sa il ministro Angelino Alfano. In 15 mesi i detenuti sono aumentati di 10 mila unità. Se si va avanti così i posti non basteranno mai e ci sarà sempre rincorsa bruciando continuamente miliardi. Anche i nostri amati governanti sanno che i soldi non ci sono e allora ritorna la vecchia idea delle “carceri galleggianti”: 320 celle di 16 metri quadri da dividere in due per un totale di 640 detenuti, 300 addetti alla vigilanza ed altri servizi. Il progetto è stato svelato dalla Fincantieri al congresso dei dirigenti delle case di detenzione avvenuto a Trieste il 26 febbraio scorso. I costi? Top secret, ma nei corridoi la Fincantieri fa girare la voce di 90 milioni di euro. Poco meno di quanto si spenderebbe per un carcere in muratura, ma con costi di manutenzione, affermano, dimezzati. Le navi sarebbero ormeggiate nei porti di Ravenna, Genova, Livorno, Civitavecchia, Napoli, Bari, Gioia Tauro e Palermo. I soldi, però, non bastano e allora ecco l’ “emergenza”. Decide Ionta come decideva Bertolaso. Sappiamo del verminaio che c’era sotto la Protezione civile, vedremo come sarà quello sotto la chiglia delle navi.

Insomma, i nostri governanti ne inventano una al giorno. Tutto, escluso la cosa più semplice e meno costosa: l’alternativa al carcere. Si potrebbe applicarla per le condanne fino a 3 anni (sono 20 mila i detenuti con queste pene) e limitare i casi per i quali è prevista la custodia cautelare in carcere. Degli oltre 30 mila detenuti in attesa di giudizio, oltre i 2/3 è accusato di reati cosiddetti minori e il 30% è destinato ad essere assolto.

Questo non si fa. Perché verrebbe meno la conclamata “cattiveria” della campagna elettorale. Ricordate quante cose hanno raccontato? Quante farneticazioni sono uscite dalle bocche dei vari La Russa e Calderoli? Ricordate la “certezza della pena”? E’ questo un Paese che difende i furbetti e vuole gli zingari in galera per sempre, un Paese che non caccia a pedate il presidente del Consiglio in quanto corrotto o corruttore e che dovrebbe stare in galera e non ci va solo perché il suo reato è prescritto e mette in galera poveracci. Un Paese che non si sdegna più, forcaiolo con i deboli e ben predisposto con i potenti.

Chiudo con un fatto di cronaca che riguarda le carceri, uno dei tanti. A Rebibbia c’è un detenuto, malato, che sta su una sedia a rotelle. Dall’82 ha avuto i primi segni di una malattia invalidante molto simile agli spastici. Il detenuto viene mandato nel carcere di Opera. I sanitari lo inviano ad un centro specializzato, il “Besta” di Milano dove gli diagnosticano la malattia. Poi ritorna a Rebibbia e viene messo in una cella “normale”. La carrozzina non passa dalla porta, ha il catetere perché non è possibile accompagnarlo al water e quindi resta in branda 24 ore su 24. Poi gli viene assegnata una cella più larga dove, almeno, la carrozzina passa. Il detenuto viene dalla provincia di Latina. Ha famiglia, moglie, figlie, sorella. E’ detenuto dal 1998 per vari reati compiuti nel sud pontino. In carcere deve dipendere, in tutto e per tutto, dalla buona volontà di qualche compagno di cella anche per l’igiene personale.

E’ compatibile questo detenuto con il carcere? E’ giusto offendere così la sua dignità personale? Ma che recupero ci può essere quando sei costretto a chiedere al compagno di cella di essere accompagnato al water? Di essere lavato? E’ così pericoloso questo detenuto per la società? Non è un caso limite. Nelle carceri italiane ci sono casi anche peggiori di questo.

Nelle carceri italiane la pietà è morta e l’umano non ha più diritto di cittadinanza.


- Ci sono 0 contributi al forum. - Policy sui Forum -