Caracas
Regia di Marco D’Amore. Un film con Toni Servillo, Marco D’Amore, Lina Camelia Lumbroso, Brian Parisi, Andrea Nicolini. (Genere Drammatico, - Italia, 2024, durata 110 minuti).
Non era facile accettare la sfida di confezionare una trasposizione cinematografica di uno dei libri più riusciti del compianto scrittore napoletano Ermanno Rea. Marco D’Amore ce l’aveva nel sangue, come un incubo notturno da placare nella realtà al più presto, in un mattino di risveglio sudato, dove le tracce del proprio passaggio si possono confondere con quelle degli altri, a sporcare muri sgarrupati di una città che non è mai andata a dormire.
La città è Napoli. Il libro ispiratore: Napoli Ferrovia. Sarebbero sufficienti questi due elementi per fermarsi a riflettere e ponderare, addirittura, un’eventuale rinuncia al progetto. Marco D’Amore non ha proprio l’aspetto e le credenziali di un arrendevole artista che molla tutto al primo assalto di dubbi e scrupoli da rispetto reverenziale nei confronti di un grande scrittore.
La strada, difficile ma già avviata, in questa nuova avventura cinematografica non poteva essere percorsa da sola. Occorreva scegliere un compagno, sufficientemente folle e senza scrupoli, che raccogliesse l’invito per sfidare l’olimpo letterario che Ermanno Rea ha rappresentato per decenni in questa città. Toni Servillo, la risposta. Ma D’Amore ha sempre amato osare di più. Ed ecco un ruolo cucito a pennello su una delle più interessanti attrici degli ultimi anni, la giovane e conturbante Lina Camelia Lombroso, nelle vesti di Yasmina, la compagna tossica di Caracas, personaggio principale della trama, alleati contro le contraddizioni della vita, in cerca di un riscatto che è anche affidare le speranze a un futuro.
Come più volte ripetuto nel film, ad inizio e alla fine, non ha alcun senso confidare nella conoscenza anticipata degli eventi futuri: si perderebbe la speranza nell’incognita di un domani che diventerebbe banale, se ne conoscessimo già la trama.
Quasi un sogno che rasenta un incubo. A volte, addirittura, si traveste da utopia, come una meta irraggiungibile o una svolta alla propria esistenza e al destino di un’intera città, che forse non si realizzerà mai. In questo incubo ci guida con mano la saggezza del personaggio interpretato da Servillo. Lo scrittore, deluso e annoiato da un mancato riscontro tra ciò che negli anni ha scritto nei suoi libri e la rassegnazione di un popolo che ha deciso, per tutti, di cancellare un glorioso e nostalgico passato per un presente incerto e violento che, sembra, abbia l’unico scopo di annullare qualsiasi idea di futuro.
La scenografia, affidata a Fabrizio D’Arpino, ci immerge in una sequenza di cromie degne dei migliori fumetti degli anni ’70 e ’80. Saturazione a condensare la notte con i cattivi pensieri. La crudeltà in una società in continua ricerca di risposte e un altro sogno al quale aggrapparsi. Mentre tutto è in continua trasformazione, così veloce da non lasciare il tempo di adeguarsi.
Un’altra frase rimarrà impressa nella mente dello spettatore. La pronuncia un imam al quale lo scrittore Giordano Fonte, interpretato da Servillo, si rivolgerà per cercare nel misticismo islamico un conforto. Lo scrittore, durante un colloquio, chiede cosa quella dottrina di vita ha dato a migliaia di persone che altri non hanno saputo dare. L’imam risponderà che l’uomo vive costantemente con l’ossessione di avere ciò che avuto o che non ha avuto mai. La verità e la fede.
Due agognati traguardi che non implicano obbligatoriamente un dietro le quinte religioso perché, come reciterà Giordano Fonte in una sequenza del film: non occorre credere a un dio per comprendere cosa sia giusto e cosa sbagliato.
Di sicuro, umilmente, possiamo affermare con convinzione che l’azzardo di Marco D’Amore di realizzare un film su una città contraddittoria ma, nello stesso tempo, così avvolgente come Napoli, è quando di meglio la produzione cinematografica italiana abbia prodotto in questi ultimi anni.
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