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Canto per Europa

Canto per Europa / Paolo Rumiz. - 2 ed. - Milano : Feltrinelli, 2023. - 336 p. - (Universale economica). - ISBN 978-88-07-89742-9.

di Alessandro Castellari - mercoledì 12 aprile 2023 - 1153 letture

Il Prologo del Canto si apre con l’immagine di una nave che ha al timone un uomo solo, semiaddormentato, intabarrato in un plaid, naso adunco e capelli incrostati di salsedine. La nave non è mai apparsa in un porto. Il pilota butta l’ancora in baie nascoste, lontano da dogane e scartoffie. Alcuni l’hanno vista a Creta, altri a Maiorca, chi nel mar Ionio e chi al largo di Marsiglia. Moya è il nome della nave e su di essa, insieme a Petros il nocchiero, al Francese azkenazita, al Turco poderoso, il nostro Scriba, di tutti il più vecchio e il più bianco di pelo, inizia il suo viaggio e dà inizio al suo canto sul “ritmo inevitabile del verso”.

Ma prima di solcare le acque del Mediterraneo con questa ciurma multilingue è bene ricordare qualcosa della Postfazione.

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Copertina di Canto per Europa, di Paolo Rumiz (edizione 2021)

Paolo Rumiz rivolge una dolente apostrofe all’Europa: “Dove ti sei nascosta Europa? In quale antro, in quale anfratto, tu che sei la mia essenza e la mia fede, ma anche il mio infinito sconforto?” “Assente quell’affascinante profumo di diversità che fiutavo già da bambino a Trieste nelle ninne nanne in tedesco della nonna, nella nostalgia dei profughi istriani e dalmati, nel confine alle porte di casa e nella quotidiana intimità col mondo slavo”. E aggiunge che “nessuna comunione di popoli può reggere in assenza di un epos delle origini. Per questo, quando anche il sogno è perduto, non resta che il mito. Per questo ho scritto Canto per Europa”.

Il Canto scaturisce da una epifania del gennaio del 2016 a Porto Empedocle. Una dozzina di donne siriane scende dalla nave che puzza di vomito e di cherosene. Le donne si dispongono in cerchio. “Fu un tuffo al cuore. Il cerchio giallo in campo blu disegnava la mia costellazione, la bandiera dell’Unione. E proprio in quell’attimo una delle donne cominciò a cantare, a bassa voce, una incantevole nenia d’Oriente che al mio orecchio parve esprimere il dolore della patria perduta e insieme la speranza di un mondo nuovo. La giovane avrà avuto vent’anni. I capelli neri tagliavano come un’ala di corvo il profilo semita affilato che sembrava separare due facce di una stessa moneta. Una era dolce, materna; l’altra esprimeva la durezza della volontà. Un’ambivalenza che riassumeva il mistero del Femminile. La ragazza siriana, che aveva attraversato il mare con paura, dava identità alla donna del sacco bianco. Una faccia, una voce, un nome”.

Questa è l’immagine all’origine del Canto. Europa non è più un’espressione geografica, ma la faccia, la voce, il nome di una donna. Essa incarna di nuovo il mito della principessa fenicia rapita da Giove-toro; essa svela “l’essenza femminile del nostro mondo assediato da bellicose autocrazie maschiliste, e la nostra discendenza da una creatura d’Oriente, portatrice di sangue nuovo”. Così la dolente apostrofe all’Europa diventa mito, canto della nostra origine orientale e della nostra identità femminile. Solo l’endecasillabo di Rumiz che sa di vento e di mare dà al racconto la sua dimensione mitica.

È ora di salire su Moya ed iniziare il viaggio.

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Copertina di Canto per Europa, di Paolo Rumiz (edizione 2023)

Moya, con la bandiera stellata e quella inglese sul pennone, si muove verso Oriente alla ricerca di una dea inesausta generatrice di genti. I naviganti ben sanno “che i geografi arabi leggevano / il cosmo come il corpo di una femmina”. Ma nessuno sa ancora che il viaggio verso Oriente prenderà una piega inaudita. Sarà quella ragazza siriana apparsa sulla sponda del mare libanese (profuga, fuggiasca, orfana, schiava in un bordello?) a dare il senso al viaggio. Il suo nome, Evropa, ha il sapore del mito. Ha lasciato la sua terra assira, là verso l’Eufrate.

Solo questo contava per Evropa.
Andarsene magari in capo al mondo,
lasciarsi dietro il vento che arroventa
e trasfigura in mummie le carogne.

Ora Moya fa rotta verso Occidente, verso l’Europa, quel continente antico agonizzante che “aveva attraversato l’abominio / ma poi ne aveva perso la memoria”. A destra la cordigliera del Tauro, i luoghi di san Paolo e san Nicola, mentre rimbomba da lontano la voce dell’imam sulle colline. Evropa dice qualcosa di sé alla ciurma, la sua infanzia felice, i racconti della nonna, i suoi libri, la bellezza del canto. E poi la guerra. “Ma voi, la guerra, voi la conoscete?” “Nessuno se ne va di casa – disse-, / se la casa non gli urla di andar via”.

Poi Rodi. L’isola color del miele a forma di mandorla non è più la stessa. L’esercito infradito del selfie e del Tutto-compreso l’ha travolta, ha trasformato i Greci in camerieri, ha saccheggiato l’anima dei luoghi. Il viaggio si riempie di pensieri dolenti: l’Alleanza stellata che tace col fiato sospeso come nel Trentotto, le sue riunioni che generano sbadigli o litigi come in un’assemblea di condominio, il suo popolo di vecchi chiuso a riccio.

Fiaccole funebri, rune, tamburi:
dal nero inferno tornano i simboli
del fallimento, gli stessi di sempre.
Ma noi si andava tesi di bolina,
in direzione ostinata e contraria
ai venti dominanti d’Occidente.

Una notte davanti a Cnido. Lì era esistito un gran tempio dedicato all’Afrodite dei Mari scolpita dalla mano di Prassitele. Evropa sogna il Toro che la porta a Creta, la depone con cura sotto un platano immenso, la lecca da capo a piedi con la lingua ruvida. Il Greco sogna di possedere Afrodite. Raggiunge l’intimità con la dea, affacciandosi con sgomento al Femminile,

quella metà di noi che manca sempre, quell’Altrove insondabile che è utero, culla, sepolcro, mare senza fondo, nostra origine e nostro capolinea.

A Kos Evropa e il Greco si confidano i sogni, lei del Toro venuto da lontano sotto il frondoso platano di Gòrtina e del “golfo del ventre ora sereno / e sazio come terra appena arata”; lui dell’oscuro sacrilegio senza colpa nell’alcova della dea.

A Léros

l’Egeo esausto per cattiva digestione,
rigurgitava avanzi sulla costa.
C’erano calze, un libro di preghiera,
maglie, forchette, un orsetto di pezza.
La risacca ruttava e sbadigliava
su mutandine, zaini, salvagenti,
rasoi da barba, pettini, una croce,
che disegnavano un arco perfetto
fra ciottoli d’avorio e l’acqua verde.

Ah, vecchio Occidente che hai perduto il tuo onore già a Kabul e Srebrenica! Ah, Léros e la vergogna del tuo campo profughi! Dove sei finita Ventotene? Dove è finita quell’idea dell’Unione nata dalla speranza di pochi esiliati? Solo un vecchio pazzo sul molo, un vecchio devoto alla Vergine degli Stranieri, li accoglie e li invita ad avanzare.

A Mikonos, lontani dai Proci che gozzovigliano, dai camerieri greci che canticchiano in inglese, la nostra ciurma ed Evropa vengono accompagnati da un vecchio cieco nell’ombra scura di un’antica navata bizantina. Il vecchio invita la ragazza a sederle accanto. Le chiede di adattare il suo nome alla nuova terra, di togliere quella ’v’ dura per una ’Eu’ che è di buon augurio.

“Leva l’ultima asprezza. Vorrei
ribattezzarti... ’Europa’. Così disse,
illuminato dai ceri, il Venerabile,
la barba fiammeggiante fra le icone.
La Portatrice del nome celeste
abbracciò le ginocchia al patriarca
che le passò le dita fra i capelli.
“Kalò taxidi”, le disse, “Buon viaggio.
Ti lascio, agapi mou, ora davvero.”
A questi occhi ha ridato la luce.
Che tu sia benedetta fra le donne.

Ora lasciamo che la fanciulla, ormai Europa, prosegua su Moya il suo viaggio verso l’Italia. Chiudendo il libro sentiamo ancora dentro di noi il vento e il mare, il canto delle cicale e il frinìo dei grilli, il profumo del basilico e del rosmarino; sentiamo ancora il ritmo dell’endecasillabo, l’unico fra i versi italiani che sappia dare ampio respiro al Racconto in forma di epos. Già, il Racconto! Ci stiamo dimenticando della sua forma e della sua malia. Ci stiamo impoverendo noi Europei, perché senza Racconto non c’è identità né tradizione familiare, civile, politica che possa reggere alle termiti del tempo.



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