Camillo Berneri e noi

Camillo Berneri (Lodi, 20 maggio 1897 – Barcellona, 5 maggio 1937), fu anarchico, scrittore e saggista italiano. Fu allievo di Gaetano Salvemini... ucciso dai comunisti stalinisti assieme a Francesco Barbieri.
Il 5 maggio del 1937 Camillo Berneri [1] e l’anarchico Francesco Barbieri furono prelevati dai comunisti stalinisti e fucilati. Era in atto la guerra civile spagnola all’interno della quale la lotta tra stalinisti e anarchici, in teoria sullo stesso fronte, ma in realtà divisi sui principi politici e sulle prospettive contribuì alla sconfitta dei repubblicani. La morte di Camillo Berneri con queste parole fu descritta dall’attivista rivoluzionario Felix Morrow:
“…durante il mattino il corpo straziato di Camillo Berneri fu trovato dove era stato gettato dalle guardie del PSUC, che lo avevano preso dalla sua casa la sera precedente. Berneri era sfuggito agli artigli di Mussolini e aveva combattuto i riformisti (compresi i leader della CNT) nel suo organo influente «Guerra di Classe». Egli aveva definito la politica stalinista in poche parole: “odora di Noske”. Con parole audaci aveva sfidato Mosca: “Schiacciata tra i prussiani e Versailles, la Comune di Parigi aveva dato inizio a un fuoco che aveva acceso il mondo. Che i generali Goded di Mosca lo ricordino”….. Come terribilmente vera era stata la sua identificazione di Noske con gli stalinisti! Come il socialdemocratico Noske aveva fatto rapire e assassinare Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, così gli stalinisti avevano assassinato Camillo Berneri. … Mentre scrivo non posso fare a meno di piangere, piangere per Camillo Berneri” [2].
La morte dell’anarchico Camillo Berneri è esplicativa di un problema interno alle sinistre non sufficientemente pensato. Le sinistre comuniste sono state logorate dalla lotta per il potere e dalla negazione della razionalità dialogica con la quale individuare una piattaforma comune di obiettivi programmatici su cui fondare una solida alleanza. Le divisione che condussero all’assassinio di Camillo Berneri che si espose nell’organizzazione della resistenza al franchismo al punto da proporre che il fronte repubblicano dichiarasse l’indipendenza del Marocco per rendere il franchismo più fragile e aggredibile. Fu un gradualista ed era ben conscio della necessità dell’organizzazione, ma al fine di parlare a fette più ampie della popolazione e, in particolare ai contadini e ai braccianti propose anche un’accelerazione delle iniziative di socializzazione. Il fronte antifalangista si poteva vincere se si andava oltre l’operaiolatria, ovvero se si oltrepassava la mitizzazione ideale della classe operaia e la si guardava con autentico senso critico. Il suo assassinio fu voluto, in quanto nei suoi scritti asistematici e complessi per senso critico e per le proposte valutò col metro del comunismo libertario lo stalinismo:
È inutile sofisticare su quello che la rivoluzione russa avrebbe potuto essere. Essa è quella che è. E nel criticare il suo attuale arresto bisogna tener conto del fatto che alla politica di ripiegamento del governo bolscevico contribuiscono realtà più forti dei principi teorici. I contadini si sono appropriati delle terre che, di diritto, sono nazionalizzate, ma, di fatto, sono suddivise tra i piccoli proprietari che costituiranno la futura borghesia rurale. Lo scambio dei prodotti, più o meno clandestino, è generale e arricchisce tutta una categoria di nuovi pescecani. La burocrazia sta costituendo una nuova classe di privilegiati. In tutto questo complesso di ricorsi economici e sociali bisogna ricercare le cause della nuova politica bolscevica, la quale ha contribuito a creare la nuova situazione ma non è stata essa sola a determinarla. Ogni rivoluzione ha lo sviluppo di cui è capace il popolo che la compie. L’economia russa era primitiva. Il regime zarista dimostra come fosse primitiva e retrograda anche la vita politica della Russia. Non si può dunque giudicare con criteri occidentali una rivoluzione che appartiene più all’Asia che all’Europa. Con questo non vengo a giustificare tutta la politica bolscevica. Credo anzi necessario criticare il regime bolscevico perché ad esso guardano, come a un archetipo, i comunisti italiani, ma credo anche necessario impostare la nostra critica su più solide basi. E per fare questo bisogna osservare la rivoluzione russa con occhio storico più che con occhio politico” [3].
Rileggere la storia del comunismo
La storia della sinistra è stata attraversata da lotte che hanno contribuito alla sua riduzione a nuclei minimi e, purtroppo irrilevanti, di resistenza e presenza ancora oggi segnati da lacerazioni. Ripensare la storia della sinistra comunista con le sue tante anime significa in questo momento storico, nel quale si annaspa nel pensare un nuovo progetto, trascendere forme di chiusura settaria e individualistica che favoriscono lo scollamento dai popoli, al momento sotto il controllo dell’apparato di sorveglianza del capitalismo. Tutto ciò sembra condurre le sinistre comuniste verso il loro tramonto. In questo momento cruciale è necessario ripensare alla storia dei comunismi per evitare errori fatali.
La storia del comunismo con la sua prospettica densità di progettualità ci potrebbe consentire di congedarci dagli errori ed orrori del passato per intraprendere un percorso di unità e libertà e, dunque, di far fronte comune sui principi che uniscono. Tale operazione di memoria storica dovrebbe consentire di trasmettere alle nuove generazioni che ancora guardano al comunismo e alla radicalità del suo progetto un patrimonio politico vivo con cui affrontare le sfide del presente e del futuro.
Imparare dal passato è indispensabile per non incorrere in questo momento storico, in cui si è minacciati dalla soverchiante forza capitalistica di diventare corresponsabili della scomparsa del progetto comunista. Ricordare gli eroi, e permettetemi di definirli “martiri del comunismo e della libertà” è un modo storicamente fondato per evitare il ripresentarsi di errori e di tragedie piccole e grandi. Camillo Berneri ci ammonisce di un altro errore, ovvero l’idealizzazione della classe operaia, ogni idealizzazione è una forma di scollamento schizoide dalla realtà che bisogna evitare:
Malatesta stesso non vedeva il proletariato attraverso gli occhiali rosa di Kropotkin e Luigi Fabbri scriveva in un suo articolo, riferendosi al periodo insurrezionale del dopo-guerra: «Troppa gente, fra la povera gente, troppi lavoratori credevano sul serio che stesse per venire il momento di non lavorare o di far lavorare unicamente i signori». Chiunque ripensi alla storia del movimento operaio vedrà prevalervi un’immaturità morale spiegabilissima, ma tale da imporre la più evidente smentita ai ditirambici esaltatori delle masse. Il giochetto di chiamare «proletariato» i nuclei di avanguardia e le élite operaie è un giochetto da mettere in soffitta. Le allegoriche demagogie lusingano la folla, ma le nascondono delle verità essenziali per l’emancipazione reale. Una «civiltà operaia», una «società proletaria», una «dittatura del proletariato»: ecco delle formule che dovrebbero sparire. Non esiste una «coscienza operaia» come tipico carattere psichico di un’intera classe; non vi è una radicale opposizione tra «coscienza operaia» e «coscienza borghese». I greci non hanno combattuto per la gloria, come pretendeva Renan. E il proletariato non si batte per il senso del sublime, come si affannava a sostenere il Sorel nelle sue Réflexions sur la violence. L’operaio ideale del marxismo e del socialismo è un personaggio mitico. Appartiene alla metafisica del romanticismo socialista e non alla storia. Negli Stati Uniti e nell’Australia sono le Unions operaie che richiedono la politica restrittiva dell’immigrazione. All’emancipazione dei negri degli Stati Uniti, il proletariato americano (vedi Mary R. Béard, A short history of the American labour movement, New-York 1928) non ha dato che un misero contributo e ancora oggi i lavoratori di colore sono esclusi da quasi tutte le organizzazioni sindacali americane. I movimenti di boicottaggio (contro le dittature fasciste, gli orrori coloniali, ecc.) sono scarsi e non riescono. E rarissimi sono gli scioperi di solidarietà classista o a scopi strettamente politici” [4].
Il senso della storia è sempre stato uno dei paradigmi culturali delle sinistre comuniste. Marx ci ha insegnato che la storia è il “mondo dell’uomo”, pertanto per riprendere il cammino nel nostro tempo è non rimandabile il confrontarsi con l’esperienza comunista, non certo per imbalsamare la sua storia, ma per trarre da essa l’energia motivazionale, ideologica e politica per lottare nel presente.
Nessuna nostalgia e nessuna idolatria del passato, dunque, ma per riprogettare il comunismo dobbiamo confrontarci con possibilità inesplorate che sono state occultate dalla lotta interna e dall’oligarchia di potere e di pensiero che ha trasformato Marx in pensatore sistematico e dogmatico, al contrario, invece, oggi sappiamo che Marx reca con sé un cantiere di prospettive da cui dobbiamo ricominciare il lungo percorso verso l’alternativa per ricostruire il popolo comunista. Siamo dunque in una fase nella quale l’impegno di ognuno è rilevante, anzi nel tempo del disimpegno il comunismo riprende a vivere già in coloro che si impegnano gratuitamente rinunciando consapevolmente a narcisismi e alle lusinghe del potere. Ricordiamo dunque l’esperienza umana e politica di Camillo Berneri per pensare fortemente il presente e immaginare il futuro. La solitudine pugnace di Camillo Berneri ci pone domande sul perché della sconfitta, e da queste domande bisogna ricominciare senza vittimismo e senza rancori divisori:
Facile previsione: vi sarà un mandarino che scriverà che non ho un’«anima proletaria» e vi saranno dei lettori che capiranno che ho inteso svalorizzare il proletariato. Per me risponde un’eco: quella dei calorosi applausi che salutano nei cantieri e nelle officine dell’industria di guerra l’annuncio del sottomarino da costruire o dei cannoni da fondere. Per me risponde la tattica comunista consigliante di agire all’interno delle corporazioni e per rivendicazioni economiche. Per me risponde, anzitutto, la rassegnazione del proletariato italiano, specie di quello industriale. Attendere che il popolo si risvegli, parlare di azione di masse, ridurre la lotta antifascista allo sviluppo e al mantenimento di quadri di partito e di sindacato invece di concentrare mezzi e volontà sull’azione rivoluzionaria che, sola, può rompere l’atmosfera di avvilimento morale in cui il proletariato italiano sta pervertendosi interamente, è viltà, è idiozia, è tradimento” [5].
Rinunciamo ai “mandarini e al mandarinati” questo può essere già un buon inizio per il comunismo popolare e libertario. Il mandarinato avvilisce e aliena, pertanto nel comunismo libertario il pianismo sarà sostituito dall’organizzazione corale che responsabilizza all’attuazione del comunismo. Dove i mandarinati hanno governato il comunismo si è trasformato in tecnica del potere che gestisce risorse e uomini e ha negato in tal modo il suo scopo. Circostanze storiche avverse e terribili hanno imprigionato il comunismo nella pianificazione ed hanno reso possibile la sconfitta:
“È il pianismo, il tecnicismo forsennato, è la via aperta a tutte le dittature in nome della produzione massima. L’argomento principe di tutti i dittatori, Mussolini in prima linea, è sempre stato quello che dalle grandi questioni di organizzazione e di produzione sociale esula la politica. Viceversa, la tesi è che in un regime socialista anche nell’amministrazione delle cose si dovrà tenere un conto sempre più largo dell’uomo, oggi avvilito sul luogo del lavoro al rango di cosa. Non si tratta di cacciar la politica, categoria insopprimibile; ma di sostituire ad una politica ingiusta e inumana, una politica più giusta e più umana” [6].
Ricominciare a sperare l’alternativa è possibile, se ci congediamo da idealizzazione e falsificazioni mitiche che hanno contribuito al semplicismo e ad una visione aprioristica della storia. Tale atteggiamento ha deresponsabilizzato in nome di un tecnicismo sterile e funebre. Il comunismo che verrà dovrà riportare la responsabilità politica e la partecipazione piena dei comunisti, perché senza impegno non c’è prassi e non c’è comunismo. Impariamo da lui a tenere aperte tutte le finestre per diventare liberi e comunisti.
[1] Camillo Berneri (Lodi, 20 maggio 1897 – Barcellona, 5 maggio 1937), fu anarchico, scrittore e saggista italiano. Fu allievo di Gaetano Salvemini che di lui scrisse nel 1952: "Aveva il gusto dei fatti precisi. In lui l’immaginazione, disciolta da ogni legame col presente, in fatto di possibilità sociali, si associava a una cura meticolosa per i particolari immediati nello studio e nella pratica di ogni giorno. Si interessava di tutto con avidità insaziabile. Mentre molti anarchici sono come le case le cui finestre sulla strada sono tutte murate… lui teneva aperte tutte le finestre" (cfr. anche, ma soprattutto per il periodo successivo, il giudizio di Aldo Garosci, Storia dei fuoriusciti, 1953, pp. 256 s.)”.
[2] Revolution and Counter Revolution in Spain / by Felix Morrow, cfr. in: Marxists.org.
[3] Camillo Berneri, Umanesimo e anarchia, liberliber 2008, pag. 7
[4] Ibidem, pag. 14.
[5] Ibidem, pag. 17.
[6] Camillo Berneri, Il federalismo libertario, liberliber 2011, pag. 100
- Ci sono 0 contributi al forum. - Policy sui Forum -